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Il 2 ottobre prossimo inizierà la 36a Congregazione Generale (CG), che eleggerà il successore di p. Adolfo Nicolás alla guida della Compagnia di Gesù. E naturalmente essa affronterà anche aspetti importanti della vita e della missione dell’Ordine. Certamente il Papa riceverà i congregati e rivolgerà loro un discorso. Le sue parole verranno ascoltate con attenzione e saranno accolte con «larghezza d’animo e liberalità». Per la Compagnia esse significheranno un nuovo slancio evangelizzatore, nella fedeltà creativa al suo carisma e alla sua identità.
In questi anni di pontificato Francesco si è già rivolto più volte ai gesuiti, cosicché la Compagnia che sta per riunirsi nella Congregazione Generale ha già, in qualche modo, un «discorso previo» di Papa Francesco, che può servirle da ispirazione e da guida fin dall’inizio. Un discorso «previo» di un «fratello maggiore», come Laínez chiamava Fabro ma di un fratello maggiore che è Papa, al quale noi, «con rinnovato impulso e fervore», offriamo il nostro voto di obbedienza, considerato fin dall’inizio della Compagnia «come nostro principio e principale fondamento».
I Papi hanno sempre rivolto discorsi importanti alle Congregazioni Generali. Ci hanno dato incarichi missionari e confermato scelte apostoliche; hanno fatto «memoria» dei nuclei fondamentali della nostra spiritualità e della storia della Compagnia; ci hanno anche avvertito dei possibili pericoli ed errori in cui potevamo incorrere, di come abbiamo servito la Chiesa, e di come essa continui a contare sul nostro servizio. L’ultimo di questi discorsi pontifici è stato quello di Benedetto XVI durante la 35a CG.
Con parole piene di affetto, di stima e di vicinanza spirituale, Benedetto XVI ci ha parlato dall’interno della nostra vocazione e spiritualità, e ci ha condotto nel centro della nostra identità. Il discorso del Papa emerito apriva un’epoca nuova per la Compagnia riguardo alle sue relazioni con la Santa Sede. Lo riconosceva la stessa Congregazione nel Decreto Con rinnovato impulso e fervore (D I), in cui essa chiamava «tutti i gesuiti a vivere con larghezza d’animo e non meno generosamente quello che e? al centro della nostra vocazione: militare per Iddio sotto il vessillo della croce e servire soltanto il Signore e la Chiesa sua sposa, a disposizione del Romano Pontefice, Vicario di Cristo in terra» (D I, 9). La prossima Congregazione Generale certamente verificherà, nella relazione sullo «stato della Compagnia», se questa chiamata pressante abbia avuto negli ultimi anni una risposta adeguata.
A questo discorso di Papa Benedetto si collega quello che abbiamo chiamato «discorso previo», composto dalle diverse allocuzioni che Papa Francesco ha rivolto ai gesuiti. Esse si pongono in chiara continuità con questo discorso. Fanno memoria grata di un passato che è presente appassionato: le grazie del Signore che ci hanno identificato e devono continuare a identificarci con la Compagnia. «Siamo chiamati a recuperare la nostra memoria, a fare memoria, richiamando alla mente i benefici ricevuti e i doni particolari (Esercizi Spirituali [ES], n. 234)».
Ne fa «memoria» un Papa che è gesuita, ma che per noi dev’essere Papa prima che gesuita. Se altri Sommi Pontefici ci hanno ricordato queste grazie, Francesco lo fa conoscendole dal di dentro della nostra condizione di gesuiti. Con una certa frequenza egli si riconosce esplicitamente gesuita; espone con semplicità, quasi a bassa voce, ma senza giri di parole, i tratti grandi e forti della nostra spiritualità e identità.
Che cosa ci ha detto il Papa? È quanto ci proponiamo di mostrare in questo articolo, con la consapevolezza, però, della difficoltà che vi è connessa. Cercheremo di essere quanto più obiettivi possibile nel presentare i temi trattati, sebbene tutti siamo inclini a selezionare quegli aspetti che si accordano meglio con le nostre sensibilità teologiche, pastorali, sociali, e persino religiose e spirituali. Ma dovremmo sforzarci di accogliere con larghezza d’animo e generosità di spirito tutte le riflessioni che il Papa ci offre, soprattutto quando esse ci rinviano al nostro modo di vivere e alla nostra missione.
Centralità di Cristo
Il nostro monogramma caratteristico, IHS, ci indica — ha detto il Papa nella festa di sant’Ignazio del 2013 — una realtà che non dobbiamo mai dimenticare: la centralità di Cristo per ciascuno di noi e per l’intera Compagnia. Gesù è il centro e l’unico riferimento; ne deriva che ogni gesuita e il corpo della Compagnia devono essere sempre «decentrati», mai diventare «autoreferenziali»; questo spostamento ci porta ad avere davanti agli occhi «il Dio sempre maggiore», che ci trae continuamente fuori da noi stessi e ci spinge a una certa kenosis, a «uscire dal proprio amore, volere e interesse» (ES 189).
Alla proposta serena, ma essenziale per la nostra vocazione, Papa Francesco aggiunge il suggerimento di una domanda non scontata per tutti noi: è Cristo il centro della mia vita? Metto veramente Cristo al centro della mia vita? Il Papa non esclude l’eventualità che questo «centrare» la propria esistenza in Cristo resti sottomesso alla tentazione di pensare di essere noi al centro. «E in questo caso il gesuita sbaglia», dice chiaramente Francesco.
La stessa idea ritorna, qualche mese dopo, nell’omelia per la festa del Santissimo Nome di Gesù (3 gennaio 2014). Noi gesuiti vogliamo essere insigniti del nome di Gesù, il che significa avere gli stessi sentimenti di Cristo. Ma il cuore di Cristo è il cuore di un Dio che per amore si è «svuotato». Ognuno di noi dovrebbe essere disposto a svuotare se stesso. In questa circostanza Papa Francesco usa il termine «svuotarsi», anziché «decentrarsi», con un riferimento all’inno cristologico della Lettera ai Filippesi (Fil 2,5-11).
Siamo chiamati a essere degli «svuotati», commenta Francesco, uomini che non devono vivere centrati su se stessi, perché il centro della Compagnia è Cristo e la sua Chiesa. E il Papa richiama l’attenzione sulla conseguenza insita nell’allontanarsi da un simile «decentramento»: «Se il Dio delle sorprese non è al centro, la Compagnia si disorienta».
Nell’intervista rilasciata a p. Spadaro, nel settembre del 2013, al Papa viene chiesto come la Compagnia possa servire la Chiesa oggi, con quali tratti peculiari, e quali rischi possano minacciarla. La risposta è lunga e tocca diverse questioni, ma le prime parole sono chiare: «Il gesuita è un decentrato. La Compagnia è in se stessa decentrata: il suo centro è Cristo e la sua Chiesa. […] Se invece guarda troppo a se stessa, mette sé al centro come struttura ben solida, molto ben “armata”, allora corre il pericolo di sentirsi sicura e sufficiente».
Sentirsi «sicura e sufficiente» è il pericolo che minaccia la Compagnia e si contrappone, secondo il Papa, all’«essere» del gesuita. Francesco parla del gesuita e di tutta la Compagnia; l’«essere decentrati» è l’atteggiamento proprio non solo di ogni gesuita, ma dell’intero corpo della Compagnia. Una sicurezza e una sufficienza istituzionali, che spesso hanno minacciato la storia della Compagnia, contraddicono le sue radici più originarie e i suoi momenti più gloriosi in quanto segnati dal martirio.
Francesco ci conduce alle nostre radici identitarie più forti: gli Esercizi Spirituali. In essi ci viene insegnato a chiedere al Signore di «amarlo e seguirlo di più», come espressione orante del desiderio di identificarci con Cristo povero e umile che viene formulato nella «meditazione sulle due bandiere», del desiderio di «essere ricevuto sotto la sua bandiera» (ES 147). Lo Spirito ci conduce a quel «terzo grado di umiltà», sintesi della mistica ignaziana nell’identificazione con Cristo: «Per imitare e assomigliare più attualmente a Cristo nostro Signore voglio e scelgo piuttosto povertà con Cristo povero che ricchezza, piuttosto ignominie con Cristo pieno di esse che onori, e desidero più di essere stimato insensato e folle per Cristo, il quale per primo fu ritenuto tale, che saggio e prudente in questo mondo» (ES 167).
Gli Esercizi sono un’esperienza personale che «conforma» il gesuita a Colui che lo ha chiamato a questa vocazione, ma la loro dinamica di imitazione e sequela di Cristo «forma» l’intero corpo della Compagnia nelle Costituzioni (Cost.) come «via» per realizzare il carisma ignaziano nella Chiesa.
Ignazio ha l’audacia spirituale di presentare, a coloro che vogliono entrare nella Compagnia, la prospettiva che essi dovranno «subire ingiurie, false testimonianze, affronti, ed essere ritenuti e stimati pazzi (senza, però, darne alcuna occasione), spinti dal desiderio di rassomigliare e di imitare in qualche misura il nostro Creatore e Signore Gesù Cristo» (Cost. 101).
Questa «conformazione» della Compagnia a Cristo si rivela nell’esperienza della Storta, interpretata fin dal primo momento come una «grazia istituzionale», e non semplicemente come una grazia personale di Ignazio. Gli elementi della visione sono incentrati sulla scelta di Ignazio e dei suoi compagni, la Compagnia, da parte del Padre, per essere messi con il Figlio che prende su di sé la croce. Così ci viene concessa la grazia di essere ricevuti sotto la bandiera di Cristo in povertà e in umiltà. La 35a Congregazione Generale commenta in proposito: «Noi gesuiti, dunque, troviamo la nostra identità non da soli, ma nell’esperienza di essere compagni […]. L’esperienza di Ignazio alla Storta ne è la radice» (D II, 3).
La Compagnia sarà «sicura» e si sentirà «sufficiente» quando non guarderà a se stessa, ma saprà vivere con il desiderio di conformarsi al Cristo povero e umile degli Esercizi, al Dio incarnato in Gesù di Nazaret, il massimo modello di «decentramento» nella storia. È questa l’identità della Compagnia che il Papa ci ricorda con tanta chiarezza e insistenza.
E quando Ignazio e i suoi compagni vollero presentare alla Chiesa, per l’approvazione della Compagnia, una sintesi della sua identità nella Formula dell’ Istituto, non esitarono a mettere Dio al centro: la prima preoccupazione del gesuita deve essere quella di «avere dinanzi agli occhi, sempre, prima di ogni altra cosa, Iddio» (curet primo Deum). Papa Francesco ci conduce qui quasi con le stesse parole. Nello stesso tempo, per definire l’identità della Compagnia, nella Formula viene posto un forte accento sulla croce: «Chiunque vuole militare per Iddio sotto il vessillo della croce nella nostra Compagnia e servire soltanto il Signore ed il Romano Pontefice suo Vicario in terra…».
La Formula poi avverte sulla necessità di esaminarsi per smascherare gli inganni: «Meditino a lungo e in profondità, prima si sobbarcarsi a questo peso, se posseggono tanto capitale di beni celesti da potere, secondo il consiglio del Signore, condurre a termine questa torre» (n. 4). Solo così saranno possibili il discernimento personale e apostolico, la discreta caritas, la disponibilità, la forza del magis per un servizio missionario maggiore e migliore, l’esperienza di un’amicizia tra «compagni di Gesù»: note, queste, che ci identificano e garantiscono «la conservazione e lo sviluppo di tutto questo corpo» (Cost. 814).
Papa Francesco ha ricordato alla Compagnia uno dei momenti più significativi per la sua umiliazione e identificazione con Cristo. Nei Vespri solenni del 27 settembre 2014, nella ricorrenza del bicentenario della restaurazione della Compagnia, ha detto: «La Compagnia — e questo è bello — ha vissuto il conflitto fino in fondo, senza ridurlo: ha vissuto l’umiliazione con Cristo umiliato, ha ubbidito. […] E questo ha dato onore alla Compagnia, non certamente gli encomi dei suoi meriti. Così sarà sempre. Ricordiamoci la nostra storia: alla Compagnia “è stata data la grazia non solo di credere nel Signore, ma anche di soffrire per lui” (Fil 1,29). Ci fa bene ricordare questo».
Al servizio della Chiesa
A questa centralità di Cristo va unita la centralità della Chiesa, e Francesco esprime questa idea con una metafora: «Sono due fuochi che non si possono separare». Il Papa parte da un’affermazione valida per ogni cristiano: «Non si può seguire Cristo se non nella Chiesa e con la Chiesa», e la applica in concreto ai gesuiti: «E anche in questo caso noi gesuiti e l’intera Compagnia non siamo al centro; siamo, per così dire, “spostati”, siamo al servizio di Cristo e della Chiesa, la Sposa di Cristo nostro Signore, che è la nostra santa Madre Chiesa gerarchica (cfr ES 353)».
A questo concetto così ignaziano Papa Francesco ha fatto riferimento anche nella lettera che il 16 marzo 2013, tre giorni dopo la sua elezione, ha scritto al Padre Generale. In essa lo ringrazia per la piena disponibilità a «continuare a servire incondizionatamente la Chiesa e il Vicario di Cristo secondo la regola di sant’Ignazio di Loyola». E poi offre la sua preghiera per tutti i gesuiti, «affinché, fedeli al carisma ricevuto, […] possano essere, con l’azione pastorale, ma soprattutto con la testimonianza di una vita interamente consacrata al servizio della Chiesa, Sposa di Cristo, lievito evangelico nel mondo».
Questo primo messaggio di un Papa gesuita alla Compagnia non può passare inosservato. Non si tratta solo di semplici espressioni formali, né è soltanto una lettera di cortesia: in essa viene espresso il nucleo più identitario della nostra vocazione. La lettera è breve, e quasi tutta rivolta a ricordare la nostra speciale relazione con la Chiesa e con il Romano Pontefice. In essa non c’è un esplicito riferimento al quarto voto, ma vi si accenna: «secondo la regola di sant’Ignazio»; e si ribadisce l’idea del servizio: «continuare a servire incondizionatamente la Chiesa e il Vicario di Cristo […], una vita interamente consacrata al servizio della Chiesa, Sposa di Cristo».
Nell’omelia pronunciata per la festa di sant’Ignazio del 2013 il Papa insiste sul fatto che si tratta di un’unica «centralità» con due dimensioni. Perciò egli può affermare senza mezzi termini: «Servire Cristo è amare questa Chiesa concreta, e servirla con generosità e spirito di obbedienza».
Il gesuita deve amare e servire una Chiesa concreta e storica. Ignazio incita ad amare la Chiesa che è pellegrina in questo mondo, sottoposta alla tentazione, e formata da uomini deboli e peccatori, bisognosi della misericordia del Padre. Nell’intervista rilasciata a p. Spadaro, Papa Francesco presenta la sua immagine di Chiesa: «È quella del santo popolo fedele di Dio». Sentire con la Chiesa, per Papa Francesco, vuol dire essere in mezzo a questo popolo. «È l’esperienza della “santa madre Chiesa gerarchica”, […] della Chiesa come popolo di Dio, pastori e popolo insieme. La Chiesa è la totalità del popolo di Dio».
Come servire la Chiesa
Il Papa mette in risalto un principio di comportamento del gesuita e della Compagnia nella Chiesa: «Non ci possono essere cammini paralleli o isolati». Quindi non valgono «scorciatoie» costruite da noi stessi, dove possiamo sentirci «sicuri» e «sufficienti», né sguardi al mondo a partire dal nostro centro. Qui si presenta a noi una tentazione, quando vogliamo prendere decisioni a partire dal «nostro centro», e non dal «centro» di Cristo e della sua Chiesa. Allora perdiamo la capacità di discernere apostolicamente — sapere come Dio e la Chiesa vogliono servirsi della Compagnia — e di esaminarci per dirci veramente come stiamo, dove rivolgiamo lo sguardo, quali sono i nostri orizzonti.
La Compagnia si troverà in tanti campi apostolici, ma sempre nella Chiesa, «con questa appartenenza che ci dà coraggio per andare avanti». E il Papa fa riferimento ai due valori della ricerca e delle periferie: «Sì, cammini di ricerca, cammini creativi, sì, questo è importante: andare verso le periferie, le tante periferie. Per questo ci vuole creatività, ma sempre in comunità, nella Chiesa».
Papa Francesco ci esorta a essere presenti in due orizzonti missionari importanti e attuali: la ricerca e le periferie, in qualsiasi loro modalità, e a sviluppare in esse grande creatività, ma sempre «nella Chiesa», «evitando la malattia spirituale dell’autoreferenzialità». E per dar forza alla sua affermazione riguardo alla Compagnia, aggiunge: «Anche la Chiesa, quando diventa autoreferenziale, si ammala, invecchia».
Il Papa poi mostra un altro modo di servire la Chiesa: quello di servire il Romano Pontefice, collaborare con il suo ministero. Nella celebrazione del bicentenario della restaurazione della Compagnia, facendo riferimento alle parole di Papa Pio VII nella Bolla di restaurazione, egli chiede ai gesuiti di essere «rematori esperti e valorosi», e subito dopo li esorta così: «Remate, siate forti, anche col vento contrario! Remiamo a servizio della Chiesa. Remiamo insieme!». Dunque, il Papa ci invita a remare con lui, perché «anche la barca di Pietro può essere sballottata oggi». Ci chiede di remare, anche se «costa fatica remare». Il servizio che Francesco ci chiede si concretizza nella Chiesa e nell’aiuto al Romano Pontefice: «remare con lui».
Questa idea si collega con quello che tanti Papi hanno chiesto alla Compagnia, ma che ha avuto speciale rilievo nel discorso del Papa emerito alla 35a Congregazione Generale (2008). Papa Benedetto ci ha detto che egli conta sulla Compagnia, che ci desidera leali collaboratori; e ci ha spinti a compiere il servizio importante e difficile di farci «lealmente carico del dovere fondamentale della Chiesa di mantenersi fedele al suo mandato di aderire totalmente alla Parola di Dio, e del compito del Magistero di conservare la verità e l’unità della dottrina cattolica nella sua completezza».
Il gesuita, un uomo peccatore
Alla domanda rivoltagli da p. Spadaro: «Chi è Jorge Mario Bergoglio?», il Papa dà una risposta sorprendente: «Io sono un peccatore». Poi rafforza la risposta: «Questa è la definizione più giusta. E non è un modo di dire, un genere letterario. Sono un peccatore». E subito dopo afferma: «Sono un peccatore al quale il Signore ha guardato», e ripete: «Io sono uno che è guardato dal Signore». A noi gesuiti tornano in mente le parole della 32a CG, quando anche lì ci si chiedeva: «Che cosa vuol dire essere gesuita? Vuol dire riconoscersi peccatore, ma chiamato da Dio a essere compagno di Gesù Cristo» (D II, 1). Padre Bergoglio ha preso parte a quella Congregazione, e senz’altro queste parole ora risuonano nel suo cuore: si sta definendo come un gesuita.
Nell’omelia della festa di sant’Ignazio del 2013 Papa Francesco parla della «vergogna del gesuita». Contemplando il Cristo crocifisso, nella prima settimana degli Esercizi, siamo presi da quel sentimento, così umano e così nobile, che è la vergogna di non essere all’altezza. «E questo ci porta sempre, come singoli e come Compagnia, all’umiltà, a vivere questa grande virtù. […] Umiltà che ci spinge a mettere tutto noi stessi non a servizio nostro o delle nostre idee, ma a servizio di Cristo e della Chiesa, come vasi d’argilla, fragili, inadeguati, insufficienti, ma nei quali c’è un tesoro immenso che portiamo e che comunichiamo».
Il Papa non parla di un’umiltà che si confonde o che si esprime con degli atti devoti, ma si riferisce all’umiltà che ci identifica con Gesù Cristo povero e umiliato, con il Dio incarnato e morto sulla croce, sia quando dobbiamo affrontare incomprensioni sia quando diventiamo oggetto di equivoci e di calunnie; ma questo è l’atteggiamento più fecondo. E il Papa cita i riti cinesi, i riti malabarici, le Riduzioni del Paraguay, le incomprensioni e i problemi vissuti anche in tempi recenti.
Questa umiltà attraversa tutta la spiritualità della Compagnia, e trova espressione in quei due termini, apparentemente contraddittori, che ne completano anche l’identità: magis e minima. Si tratta di due termini correlativi, che hanno senso soltanto quando si integrano. Il «più» ignaziano è sempre desiderio di risposta — «perché più lo ami e lo segua» —, che spinge il gesuita a desiderare più povertà e umiliazioni che ricchezza e onori, per imitare e seguire di più Gesù Cristo.
Il «più» comprende il «meno», e si realizza nel «diminuire», che è la vera umiltà. La Compagnia è «minima» nella sua identità, perché ciò implica «essere sottomessa… e servire…». Il magis apostolico è dunque composto di ricerca, gratuità e disponibilità, che ci portano a «diminuire», a non essere al centro, a uscire dalle nostre sicurezze e «in Lui solo riporre la speranza» (Cost. 812).
Il gesuita, uomo dal pensiero aperto, di grandi desideri, sempre in ricerca
Nell’intervista citata, il Papa afferma che il gesuita è un uomo «dal pensiero incompleto, dal pensiero aperto». E ne spiega il motivo: «Il gesuita pensa sempre, in continuazione, guardando l’orizzonte verso il quale deve andare, avendo Cristo al centro. Questa è la sua vera forza». In effetti il suo «decentramento» lo tiene in ricerca, lo rende creativo, generoso.
Papa Francesco torna su questa idea nell’omelia della festa del Santissimo Nome di Gesù, il 3 gennaio 2014. I gesuiti sono uomini in ricerca, perché «pensano sempre guardando l’orizzonte che è la gloria di Dio sempre maggiore, che ci sorprende senza sosta. E questa è l’inquietudine della nostra voragine. Questa santa e bella inquietudine!».
Francesco tiene presente ciò che più caratterizza sant’Ignazio e la sua spiritualità: la ricerca della volontà di Dio, così significativamente manifestata nell’Autobiografia di Ignazio, quando egli definisce se stesso «il pellegrino». Il Papa parla dell’inquietudine del cuore — perché Dio è sorpresa —, che si domanda: «Che cosa vuole Dio da me?». Qui trova significato il fine ultimo del processo spirituale degli Esercizi, il frutto della lunga formazione del gesuita per imparare a cercare e trovare Dio in tutte le cose. Trovare la volontà di Dio è l’obiettivo di quello strumento così ignaziano che è il discernimento.
Papa Francesco ci sta conducendo «fin dove i primi arrivarono», per ravvivare il dono, in modo che, con la grazia di Dio, possiamo spingerci «anche più oltre nel Signore nostro» (Cost. 81). E ci sta conducendo al Proemio delle Costituzioni, che ci esorta a farci guidare, più che dalle Regole e dall’osservanza esterna, «dall’interna legge della carità e dell’amore che lo Spirito Santo scrive e imprime nei cuori» (Cost. 134).
E affinché non c’inganniamo, ancora una volta il Papa ci propone di fare questo esame di coscienza: «Se il nostro cuore ha conservato l’inquietudine della ricerca o se invece si è atrofizzato; se il nostro cuore è sempre in tensione: un cuore che non si adagia, non si chiude in se stesso, ma che batte il ritmo di un cammino da compiere insieme a tutto il popolo fedele di Dio». Non si tratta di un’inquietudine soltanto spirituale, ma di «un’inquietudine anche apostolica […]. È l’inquietudine che ci prepara a ricevere il dono della fecondità apostolica. Senza inquietudine siamo sterili». E di nuovo ci avverte: «Il nostro sguardo, ben fisso su Cristo, sia profetico e dinamico verso il futuro: in questo modo, rimarrete sempre giovani e audaci nella lettura degli avvenimenti!».
Inoltre, il Papa presenta Favre con questo tratto caratteristico: spirito inquieto, indeciso, mai soddisfatto, che impara, sotto la guida di Ignazio, a unire la sua sensibilità inquieta, ma dolce, con la capacità di prendere decisioni. Uomo di grandi desideri, di grandi aspirazioni. Nei desideri Favre poteva discernere la voce di Dio.
E il Pontefice aggiunge l’aspetto apostolico di tali desideri: «Una fede autentica implica sempre un profondo desiderio di cambiare il mondo». Francesco si richiama alle Costituzioni: «Si aiuta il prossimo con i desideri presentati a Dio nostro Signore» (Cost. 638). In effetti, negli Esercizi Spirituali, nelle sue lettere e nelle Costituzioni Ignazio esorta molto spesso ad alimentare «i buoni e grandi desideri» e a concentrarli in Gesù Cristo. Ne aveva fatto una personale esperienza nel suo processo spirituale, come ci viene riferito nel Diario e nell’ Autobiografia.
Guardando a Favre, Papa Francesco ci domanda: «Abbiamo anche noi grandi visioni e slancio? Siamo anche noi audaci? Il nostro sogno vola alto? Lo zelo ci divora? Oppure siamo mediocri e ci accontentiamo delle nostre programmazioni apostoliche di laboratorio?». Sempre nell’omelia del 3 gennaio 2014, il Papa accenna alla Chiesa in quanto riferimento per la Compagnia: «Ricordiamolo sempre: la forza della Chiesa non abita in se stessa e nella sua capacità organizzativa, ma si nasconde nelle acque profonde di Dio. E queste acque agitano i nostri desideri e i desideri allargano il cuore».
Il gesuita, uomo di frontiera
Nell’udienza a La Civiltà Cattolica, Francesco ci definisce come uomini di frontiera: «Il vostro luogo proprio sono le frontiere. Questo è il posto dei gesuiti. […] Per favore, siate uomini di frontiera, con quella capacità che viene da Dio». Nel Papa non manca mai quell’allusione al centro dell’identità del gesuita, il solo luogo da cui possono scaturire queste note del suo «profilo».
E precisa anche come bisogna andare verso le frontiere: «Non cadete nella tentazione di addomesticare le frontiere: si deve andare verso le frontiere e non portare le frontiere a casa per verniciarle un po’ e addomesticarle». E di nuovo definisce la missione del gesuita come servizio della Chiesa: «Si tratta di sostenere l’azione della Chiesa in tutti i campi della sua missione».
Nell’intervista rilasciata a p. Spadaro, Papa Francesco chiarisce un po’ di più il suo pensiero sulle frontiere: «Mi riferisco alla necessità per l’uomo che fa cultura di essere inserito nel contesto nel quale opera e sul quale riflette». Evidentemente qui egli sta facendo riferimento al lavoro dei pensatori e degli scrittori; ma poi allarga il suo pensiero e afferma: «C’è sempre in agguato il pericolo di vivere in un laboratorio. […] Io temo i laboratori, perché nel laboratorio si prendono i problemi e li si porta a casa propria per addomesticarli, per verniciarli, fuori dal loro contesto. Non bisogna portarsi la frontiera a casa, ma vivere in frontiera ed essere audaci».
La fede è sempre una fede inculturata, una fede che è strada, una fede che è storia: Dio si è incarnato rivelandosi in una storia concreta. Qui il riferimento è a padre Arrupe e alla sua lettera ai Cias (Centros de Investigación y Acción Social), che il Papa definisce «geniale»; in essa viene detto chiaramente che non si può parlare di povertà se non la si sperimenta.
Nella celebrazione del bicentenario della restaurazione della Compagnia, Papa Francesco riassume il lavoro della Compagnia alle frontiere del nostro tempo: rifugiati e profughi, l’integrazione del servizio della fede e della promozione della giustizia, e ricorda, facendole proprie, le parole di Paolo VI alla 32a CG, che egli stesso sentì con le proprie orecchie: «Ovunque nella Chiesa, anche nei campi più difficili e di punta, nei crocevia delle ideologie, nelle trincee sociali, vi è stato e vi è il confronto tra le esigenze brucianti dell’uomo e il perenne messaggio del Vangelo, là vi sono stati e vi sono i gesuiti». Francesco aggiunge: «Sono parole profetiche del futuro beato Paolo VI». Anche Papa Benedetto, dal canto suo, ha ripreso queste parole esigenti e incoraggianti di Papa Montini.
Tre Papi, dunque, hanno inviato alla Compagnia lo stesso messaggio. Parole di fiducia e di stimolo, ma anche molto esigenti, perché ci richiamano al senso ecclesiale della nostra vocazione.
Il gesuita, uomo di dialogo
Nell’udienza concessa a La Civiltà Cattolica, Papa Francesco ne ripercorre la storia di difesa e di fedeltà alla Chiesa e ricorda agli scrittori che il loro «compito principale non è di costruire muri, ma ponti; è quello di stabilire un dialogo con tutti gli uomini, anche con coloro che non condividono la fede cristiana […] e perfino con coloro che si oppongono alla Chiesa e la perseguitano in varie maniere (GS 92)». E per dialogare, bisogna abbassare le difese e aprire le porte. Il Papa incoraggia gli scrittori a continuare il dialogo con le istituzioni culturali, sociali, politiche, per offrire un contributo per il bene comune.
Nelle parole del Papa torna a farsi presente la figura del suo modello di gesuita. Non possiamo meravigliarci del fatto che, quando il Papa legge queste parole di Favre: «Chi volesse avvicinare gli eretici di quest’epoca deve avere molta carità con loro e amarli in veritate», comunicando «familiarmente con loro», ne resti colpito e commenti: «Il dialogo con tutti, anche i più lontani e gli avversari…».
Il gesuita, uomo di discernimento
Quanto abbiamo riportato fin qui richiede che il gesuita sia un uomo che ha il dono del discernimento, «che cerca di riconoscere la presenza dello Spirito di Dio nella realtà umana e culturale, il seme già piantato della sua presenza negli avvenimenti, nelle sensibilità, nei desideri, nelle tensioni profonde dei cuori e dei contesti sociali, culturali e spirituali». Papa Francesco definisce il discernimento spirituale «un tesoro dei gesuiti». E afferma di essere rimasto colpito dall’osservazione di Hugo Rahner, per il quale il gesuita «è uno specialista nel discernimento nel campo di Dio e anche nel campo del diavolo». Non bisogna aver paura, dice il Papa, di proseguire nel discernimento per trovare la verità.
Quando p. Spadaro gli domanda quale aspetto della spiritualità ignaziana lo aiuti di più a vivere il suo ministero, Francesco risponde: «Il discernimento. È una delle cose che sant’Ignazio ha più elaborato interiormente. Per lui è uno strumento di lotta per conoscere meglio il Signore e seguirlo più da vicino». E aggiunge: «Questo discernimento richiede tempo. […] Io credo che ci sia sempre bisogno di tempo per porre le basi di un cambiamento vero, efficace. E questo è il tempo del discernimento. E a volte il discernimento invece sprona a fare subito quel che invece inizialmente si pensa di fare dopo. […] La sapienza del discernimento riscatta la necessaria ambiguità della vita e fa trovare i mezzi più opportuni, che non sempre si identificano con ciò che sembra grande o forte».
Nella celebrazione del bicentenario della restaurazione, Papa Francesco fa osservazioni molto precise sul discernimento: «In un tempo di confusione e di turbamento […], nella confusione e davanti all’umiliazione, la Compagnia ha preferito vivere il discernimento della volontà di Dio, senza cercare un modo per uscire dal conflitto in maniera apparentemente tranquilla. O almeno elegante: non lo ha fatto».
In altri discorsi il Papa espone, quasi per inciso, le condizioni affinché si dia un vero discernimento spirituale. Per esempio, egli accenna alla retta intenzione, a uno sguardo semplice, al fatto che «il discernimento si compie sempre alla presenza del Signore, guardando i segni, ascoltando le cose che accadono, il sentire della gente, specialmente i poveri».
A proposito della soppressione della Compagnia, Papa Francesco riferisce che p. Lorenzo Ricci parlò dei peccati dei gesuiti. Infatti, il discernimento non cerca il facile «compromesso», salva dal vero sradicamento, dalla vera «soppressione» del cuore, che è l’egoismo, la mondanità, la perdita del nostro orizzonte, della nostra speranza, che è solo Gesù, quando cerchiamo ciò che Dio chiede.
In forma narrativa
Possiamo, in conclusione, aggiungere una nota sul «come» il Papa si è rivolto ai gesuiti nel «discorso previo». Nell’intervista rilasciata a p. Spadaro, egli afferma che «la Compagnia si può dire solamente in forma narrativa. Solamente nella narrazione si può fare discernimento». In effetti il Papa ci ha «narrato», con chiarezza e insistenza, l’identità della Compagnia, incentrata su Cristo e sulla Chiesa: «Militare per Iddio sotto il vessillo della Croce e servire soltanto il Signore e la Chiesa sua sposa, a disposizione del Romano Pontefice».
Il Papa ce l’ha «narrata», affinché noi, facendo «memoria», ci poniamo in atteggiamento di discernimento e, grati per tanto bene ricevuto, esaminiamo se siamo in quel «centro» e, una volta «decentrati» da noi stessi, desideriamo vivere sotto la bandiera di Gesù: soltanto così potremo conoscere come e in che cosa il Signore e la sua Chiesa vogliono servirsi di questa «minima» Compagnia.
Il linguaggio narrativo del Papa non lo porta a perdersi in questioni secondarie. Egli ci riconduce, come in una serena conversazione con i suoi fratelli gesuiti, alle origini, a dove «i primi arrivarono», a dove, attraverso di loro, si effonde il dono dello Spirito alla Chiesa; e in modo molto ignaziano si interroga, lui gesuita, e interroga noi gesuiti, sulla nostra vita e sulla nostra missione in riferimento a quel nucleo identitario.
Sull’esempio di Favre, Papa Francesco ci ha parlato con dolcezza, con fraternità, con amore, in verità, come un «fratello maggiore»; e, come Favre, ci ha invitato anche a provare il desiderio di «lasciare che Cristo occupi il centro del nostro cuore», perché «solo se si è centrati in Dio, è possibile andare verso le periferie del mondo».