|
Ascoltare la musica di Nicholas Rodney Drake (1948-74), in arte Nick Drake, significa entrare nel mondo di una sensibilità musicale accesa e intensa. Per molti essa ha significato la scoperta di un’atmosfera, di un contesto di vita: un mondo di echi e risonanze che affascina e commuove. Drake è stato un artista completo. Le sue composizioni spaziano dal blues al folk, passando per il pop, le contaminazioni jazz o i richiami alla musica classica. Il suo canto dolce e malinconico incide un segno profondo in chi l’ascolta. Il 25 novembre del 1974, il musicista inglese moriva per l’eccessiva ingestione di un antidepressivo, che egli prendeva nelle notti di insonnia. In tempo per l’anniversario, lo scorso giugno è uscito l’album Made To Love Magic, una raccolta di 13 canzoni, di cui una inedita (Tow The Line), nuove versioni di canzoni già apparse in precedenza e due registrazioni che risalgono agli anni della formazione a Cambridge nel 1968.
Una vita inquieta
Drake nasce il 19 giugno 1948 a Rangoon nell’allora Birmania, dove il padre Rodney, ingegnere, si era trasferito per lavoro insieme alla moglie Molly e alla figlia maggiore Gabrielle. Nel 1950 la famiglia si trasferisce nella campagna inglese a Tanworth-in-Arden, vicino a Coventry, in una deliziosa casa a due piani, immersa nella quiete e nel verde. Il giovane Nick si dimostra uno studente brillante e un bravo giocatore di rugby, ma la sua vera passione, ereditata dalla madre, è la musica. A 13 anni compra la sua prima chitarra, che impara a suonare da autodidatta. Comincia anche a elaborare il suo personale stile vocale, caratterizzato dalle sillabe prolungate e da un’attenzione all’emissione ritmata della voce. Lo ispira il blues tradizionale, da Bob Dylan a Tim Buckley fino ai Beatles. Ma saranno i Concerti Brandeburghesi di Bach a seguirlo e anche a ispirarlo lungo il corso della sua breve vita.
Dal 1962 al 1966 frequenta il college di Malbourought, dove si inserisce nei Perfumed Gardeners, un gruppo che suona per lo più musica blues, occupandosi dell’arrangiamento dei brani, rifiutandosi però di cantare. Dopo un viaggio in Provenza e in Nord Africa, decide di trasferirsi a casa di sua sorella, che era andata ad abitare a Londra. Nell’ottobre del 1967 si iscrive al Fitzwilliam College di Cambridge per studiare letteratura inglese. Qui comincia a scrivere le canzoni che compariranno nel suo primo album Five Leves Left. Del suo talento si accorge Joe Boyd, proprietario della casa di produzione Witchseason, in seguito acquistata dalla Island Record: dopo aver ascoltato un nastro con quattro canzoni, gli propone la firma di un contratto. Abbandonati gli studi, Drake nel settembre del 1969 pubblica il suo primo disco. Purtroppo l’album passa del tutto inosservato dal grande pubblico, vendendo poche migliaia di copie. In questo periodo si stabilisce a Londra in una casa a Haverstock Hill presso il verde e tranquillo quartiere di Hampstead, dominato da un grande prato. Secondo la madre fu lì che le ombre cominciarono a addensarsi sulla vita del figlio.
Un anno dopo decide di incidere un nuovo album e in solo due mesi pubblica Bryter Layter, che esce il 1° novembre 1970. Il suo talento viene finalmente riconosciuto dalla grande stampa, ma non riesce ancora a colpire il pubblico. Il disco vende soltanto 15.000 copie. Drake scivola in una grave depressione. Va in cura da uno psichiatra, il quale gli prescrive una cura di antidepressivi. Il 25 febbraio del 1972 Drake incide Pink Moon, un vero e proprio testamento musicale. Ma anche questo nuovo disco passa quasi inosservato. Il musicista decide di ritornare a casa dai suoi genitori.
Dopo un collasso nervoso viene ricoverato in ospedale e inizia un trattamento a base di Tryptizol. Chi lo incontra in quel periodo ed era abituato a conoscerne la delicatezza, adesso lo vede trascurato, sporco, sempre con gli stessi abiti, con le unghie lunghe a tal punto da far fatica a suonare. All’inizio del 1974 incide gli ultimi 4 brani che compariranno nel disco postumo Time Of No Reply. La sua vita sociale è azzerata. Ma nell’autunno pare che la situazione migliori e decide di recarsi in Francia. È un periodo positivo. Qui resta qualche mese, poi torna a casa, dove una dose eccessiva di Tryptizol lo uccide nel sonno all’età di 26 anni. Suicidio? Disattenzione? Nessuno ha mai potuto chiarire definitivamente che cosa sia accaduto. Francamente ci sentiamo però più vicini a Nick Kent, il quale, in un suo articolo sul New Musical Express, afferma che nessuno si suicida con antidepressivi, quando in casa ci sono barbiturici in quantità. Per di più, nota il giornalista, non esiste biglietto di spiegazione: «Mancano tutti quegli orpelli che fanno tipicamente parte della scena, allorché qualcuno decide di metter fine alla propria vita»[1]. Tuttavia quel che qui importa veramente, al di là delle note biografiche del musicista, è l’ascolto della sua musica e la lettura dei suoi testi[2], oltre alla riflessione sull’influsso della sua musica sulle generazioni successive[3].
Un autore di culto e di nicchia
La vita di Drake non fu mai veramente serena: inquietudine, timidezza, sensibilità, bellezza raffinata e composta sono i tratti di una figura che ha assunto le valenze di una sorta di nuovo «poeta maledetto» alla Rimbaud, ma simile ai toni e alla sensibilità di poeti quali Keats, Tennyson, Blake o Wordsworth, tutti da lui letti e amati. Affascinante e misterioso, delicato e schivo, detestava le apparizioni in pubblico. I suoi pochi concerti, ai quali fu costretto per esigenze di mercato dai suoi discografici, sono all’insegna dell’imbarazzo, del silenzio, dell’esecuzione perfetta ma priva di qualunque elemento di spettacolarità, come si poté constatare nel concerto alla Royal Festival Hall in occasione dell’uscita del disco Five Leaves Left. Egli fu per sensibilità e temperamento un anti-divo. Da qui anche il sistematico insuccesso di vendite dei suoi dischi, nonostante la critica fosse entusiasta dei suoi lavori. Drake è rimasto musicista tanto di culto quanto di nicchia, e questo è, in qualche modo, una garanzia della qualità del suo lavoro artistico, che resiste nel tempo a dispetto di una chiara marginalità di tipo commerciale.
Le sue composizioni parlano di amore perduto, di innocenza, di dolori del cuore, di alienazione e solitudine, di ricerca di una via di uscita. Il tutto racchiuso, come si è detto, in tre dischi e, a parte i bootleg, cioè la discografia non ufficiale, due album contenenti inediti[4]. Lasciamo la parola a un recente ricordo di Drake firmato dalla musicista Cristina Donà: «Forse è la dolcezza immensa che la malinconia sprigiona a rendere così forte l’approccio alla sua opera. È l’arte del descrivere le emozioni attraverso i simboli, che sono fatti di mare, di fiumi, di prati, di alberi e di stagioni. Una natura che vibra per ciò che lascia ogni minuto dietro di sé, sapendo che niente ritorna. È il riflesso dell’anima, un’anima aperta e disponibile a farsi toccare dall’essenza biancastra delle cose. È la bellezza che non nasconde i suoi lati più crudi»[4]. La simbolicità del reale e la disponibilità di Drake a lasciarsi toccare e anche ferire colpisce chi ascolta le sue composizioni. A 30 anni di distanza dalla sua morte possiamo permetterci di prenderle e gustarle fuori contesto, al di fuori, cioè, di quegli anni Settanta nei quali sono nate: la sua, ha scritto il produttore Joe Boyd nell’introduzione alla compilation dal titolo Way To Blue, è una «musica senza tempo». Possiamo astrarci da dati di carattere socio-culturale e sperimentare che le sue canzoni non sono archeologia musicale, ma restano vive all’ascolto e alla lettura. Drake, infatti, resta autore da comprendere anche separando la sua produzione dall’ustionante percorso biografico che lo ha segnato profondamente.
Tra malinconia e invocazione
Il suo primo disco, Five Leaves Left, è costruito attorno alla sua voce dolce e struggente, al virtuosismo e alla perfezione tecnica degli arpeggi della sua chitarra, ai suoni classicheggianti delle orchestrazioni d’archi. Da esso traspare un sentimento composto e riflessivo che evoca un approdo per un’esistenza alla deriva. La condizione di desolazione e solitudine appare efficacemente espressa in Day Is Done, dove non sembra sia possibile trovare un luogo che sia «casa»: Quando il giorno è finito / il sole sprofonda nella terra / insieme a tutte le cose vinte e perse / quando il giorno è finito. […] Quando gli uccelli son volati / non hai nessuno che sia tuo / non hai un posto che sia casa tua. / Quando gli uccelli son volati. / Quando la partita si è chiusa / hai lanciato la palla attraverso il campo / hai perso molto prima di quanto avresti immaginato / adesso che la partita si è chiusa. In Fruit Tree la vita non è che un ricordo / trascorso da lungo tempo / teatro pieno di tristezza. Sembra che l’unica soluzione stia nel lasciar scorrere il tutto, come un fiume. Tuttavia appare uno spiraglio: in River man c’è un invito ad aver fiducia, si parla di un progetto per il tempo dei lillà, che in Three Hours assume il volto di una ricerca inesauribile, quella di una vita / da raccontare quando egli sarà a casa. Insomma, la casa (home) sembra ora oggetto di disperata nostalgia, ora di viva speranza, che fa sì che il canto triste si apra in composizioni come Time Has Told Me, dove Drake canta: Un giorno il nostro oceano / Troverà la sua riva. È il gioco del tempo e la tensione di attesa che conduce a desiderare di lasciarsi alle spalle ciò che davvero non vuoi essere / […] Ciò che davvero non vuoi amare. È un appello all’autenticità, che resta tensione verso una meta non ancora raggiunta. Così, nella splendida Way To Blue, Drake chiede: Hai mai conosciuto un modo per trovare il sole? / […] Perché non vieni a dirmi / se conosci il cammino per il blu? / Hai visto la terra che vive nella brezza? / Riesci a comprendere una luce tra gli alberi? La risposta è l’attesa: Aspetteremo / al tuo cancello / sperando come ciechi.
La canzone ‘Cello Song è stata intesa come una meditazione su ciò che ci si lascia alle spalle definitivamente: si parla dei sogni che facevi quand’eri così giovane che raccontavano di una vita / dove la primavera era sbocciata. In The Thoughts Of Mary Jane i sogni diventano soltanto sospiri perduti. È vero, il mondo adesso è crudele, scrive Drake, ma l’ultima immagine di ‘Cello Song è quella di una mano tesa: Porgimi una mano e sollevami / fino al tuo posto sulla nuvola. L’ultima immagine di The Thoughts Of Mary Jane è quella di un viaggio verso le stelle. Tra sospiro e fiducia Drake compone canzoni che lamentano una perdita, esprimendo nostalgia, ma nel contempo evocano e invocano una via di uscita, una speranza. È la tensione, resa in immagine in Saturday Sun, tra il sole di sabato […] in un cielo chiaro e blu che arriva senza preavviso e la pioggia della domenica che piange per il giorno ormai trascorso.
Allora è curioso, ma anche estremamente significativo, che il secondo disco di Drake abbia per titolo Bryter Layter, cioè la trascrizione dell’espressione brighter later detta con l’accento proprio degli speaker radiofonici che leggono i bollettini metereologici. Essi, dopo aver annunciato piogge e temporali, spesso concludevano con «schiarite più tardi», cioè appunto brighter later. Il gusto di un titolo simile è quello dato dalla «quiete dopo la tempesta». Qui le orchestrazioni sono ancor più ricche del precedente disco: chitarra, archi, fiati, organo e viola. I primi due brani evocano la vita in una grande città. In Hazey Jane II Drake si chiede: E cosa succederà la mattina quando il mondo diventerà / così affollato da non poter guardare dalla finestra, la mattina? E allora l’appello: Concediti un po’ di tempo, che torna nelle strofe come una litania: concediti un po’ di tempo, ora, per capire la tua storia (to make your story clear). E in At The Chime Of A City Clock l’invito è a lasciare aperta la propria corazza. La coltre di malinconia, la ritmica scansione di ciò che «avrei potuto essere (I could have been)» di One Of These Things First non è l’unico messaggio, il senso ultimo e definitivo. Sì, in Fly Drake lamenta: Sono caduto così giù […] sono seduto a terra lungo la strada, ma da questa condizione si leva una invocazione orante di grande intensità: Ti prego, dammi una seconda benedizione (grace) / Ti prego, dammi un secondo volto.
L’invocazione di una seconda occasione di grazia nella splendida finale Northern Sky assume l’aspetto di una canzone d’amore: Non mi sono mai sentito così magicamente folle / Non ho mai visto lune, conosciuto il significato del mare / Non ho mai tenuto l’emozione nel palmo della mano / Ho sentito brezze delicate sulla cima degli alberi / ma adesso tu sei qui / a illuminare il mio cielo del nord. / Per così tanto tempo ho aspettato / per così tanto tempo sono stato trascinato / per così tanto tempo ho vagato alla cieca / tra le persone che conoscevo / Oh, se tu volessi e potessi / dirigere questo occhio nuovo della mia mente. I versi sono lampi epifanici che fanno conoscere in maniera visiva, per associazione e accumulo di immagini ardenti. Qui è l’occhio a invocare una visione, una stella polare, che possa rivelare il significato delle cose e salvare una vita dalla mancanza di senso.
Un posto in cui stare
Pink Moon, il terzo disco di Drake, tutto chitarra, voce e pianoforte, esce nel 1972. Alle immagini cupe di Parasite, dove egli si riconosce come un parassita di questa città, fa eco Place To Be, che contiene una invocazione di grande forza e colore. Drake scrive di essere stato forte, forte e pieno di luce e anche verde, più verde della collina / Dove crescevano i fiori e il sole splendeva immobile. Adesso invece egli si sente più debole dell’azzurro più pallido e, nel contempo, più scuro del mare più profondo. Si apre allora il bisogno di fiducia, di un affidamento: Affidami a qualcuno, dammi un posto dove stare (hand me down, give me a place to be). Ritorna in maniera differente il tema della ricerca di una «casa», che era già comparso nel primo disco. In Road l’affidamento prende le forme dello sguardo alto e lungo: alto a «guardare la luna che sembra così nitida», e lungo a considerare di prendere una strada che percorrerò fino in fondo. E così giunge l’esplosione dolce, composta e intensa dell’ultima canzone, From The Morning, che è un intenso inno di risurrezione: Un giorno albeggiò e fu magnifico / un giorno albeggiò dalla terra / poi cadde la notte / e l’aria era magnifica / la notte cadde tutt’intorno / […] E ora risorgiamo / e siamo ovunque / e ora risorgiamo dalla terra / Guardala volare / È ovunque / Guardala volare tutt’intorno. Sembra che la direzione dello sguardo che cerca un «posto dove stare», una «casa», una «riva», non possa che essere quella di un’alba di risurrezione. Sono proprio queste le parole che i genitori di Drake hanno voluto incidere sulla sua tomba. Con esse si chiude la sua produzione ufficiale.
Ma, quando morì, il musicista stava lavorando a un nuovo disco. Le canzoni successive a Pink Moon e le versioni alternative di canzoni già presenti nei dischi precedenti sono state raccolte in Time of No Replay, che esce postumo. Il brano che dà il titolo alla raccolta afferma che la vita è una domanda in attesa di una risposta, ma il tempo che non ha risposta m’invita a rimanere (to stay). Non c’è soluzione all’attesa, come non c’è sfiducia palese in una possibile risposta. Nella domanda si permane, si «sta»: essa è una condizione esistenziale. Ci si può guardare attorno, si possono seguire tracce di sabbia (Strange Meeting II), si può percepire una voce che chiama (Voice From The Mountain). Tutte le splendide immagini di Drake, delicatamente sentimentali, si muovono nel perimetro della domanda, che in I Was Made To Love Magic è domanda sul senso dell’essere creato e sul fine dell’essere al mondo. Alla tremenda constatazione iniziale Fui creato per non amare nessuno / E perché nessuno mi amasse segue una coscienza che si allarga alla consolazione: Fui creato per usare i miei occhi / sognare con il sole e i cieli / fluttuare lontano con la canzone di tutta una vita / nella foschia dove la melodia vola / […] / Fui creato per navigare / sino alla terra del sempre / non per essere legato a una vecchia tomba di pietra / nella vostra terra del mai. Ritorna l’attesa di una risurrezione, l’impossibilità di chiudere tutto dentro un destino di stasi e di morte, la necessità di tendere sempre a una meta ulteriore.
* * *
Gustando l’opera di Drake si ha sempre l’impressione, per fortuna, che manchi qualcosa per comprenderla in maniera definitiva, per chiudere il cerchio dell’interpretazione. Drake è sempre stato inteso come l’artista un po’ dandy e un po’ malinconico, che esprime solitudine e genio. Dalla nostra breve analisi sono emerse però altre immagini, che sembrano inquadrare le sue composizioni in una dialettica tra nostalgia e attesa, tra malinconia e fiducia, tra solitudine e affidamento. Nulla che abbia a che fare direttamente con una sorta di pessimismo cosmico, comunque, come invece è stato spesso affermato. Ma basta ascoltare la sua musica per avvertire come non sia la desolazione il tono dominante delle sue composizioni, che sono anzi pervase spesso da una sottile grazia.
È interessante notare un commento di Bernard Butler, già chitarra solista degli Suede: «Mi piace l’ambiguità di Drake. La gente sa poco di lui e finisce per pensare che fosse un tipo infelice, anche se, a ben guardare, molta della sua musica è quasi gioiosa». L’interpretazione resta dunque aperta, al di là di ogni rigida classificazione, anche a sfondo biografico. L’intensa, commovente, composta emozionalità delle sue composizioni, che rende Drake uno dei più grandi musicisti britannici del ventesimo secolo, sa coinvolgere chi ascolta in un itinerario umano, artistico e spirituale teso tra nostalgia di un paradiso perduto e speranza di un cammino verso il blu (Way To Blue), un bel colore per dipingere la terra promessa.
***
[1] Citato in S. PISTOLINI, Le provenienze dell’amore, Roma, Fazi, 1998, 159.
[2] Chi volesse saperne di più, desiderasse cioè solcare le tracce insicure della sua biografia, può leggere Nick Drake. The biography di Patrick Humphries (London, Bloomsbury, 1997), oppure la biografia «non canonica» di Stefano Pistolini già citata, o leggere la sintetica ma efficace introduzione: A. VIVALDI, «L’aspra fatica della dolcezza», in A. VIVALDI – F. FERRETTI (eds.), Nick Drake. Tutti i testi con traduzione a fronte, Firenze, Giunti, 2002, 5-25. Per un elenco di altre risorse di studio cft S. PISTOLINI, Le provenienze…, cit. 196-201.
[3] Cfr A. VIVALDI, «L’aspra fatica della dolcezza», cit., 24-30.
[4] Ricordiamo anche tre compilations: Nick Drake (1972), Heaven In A Wild Flower (1985), Way To Blue (1994). Fruit Tree è un cofanetto di tre LP che contiene i primi tre album di Drake con qualche ritocco, pubblicato in due versioni differenti nel 1979 e nel 1986. Il bootleg che contiene le registrazioni domestiche è The Complete Home Recordings.
[5] «Quando muore, nel ’74, Nick Drake ha 26 anni e tre dischi alle spalle. Ora un film e un cd con un inedito lo celebrano. Una fan, Cristina Donà, spiega perché lo ama. E perché mette in guardia su di lui», in Musica, suppl. a la Repubblica, 27 maggio 2004, 21.