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Hans Urs von Balthasar ha affermato che l’enorme lavoro teologico di Erich Przywara, al quale nessun altro dell’epoca attuale può essere paragonato, avrebbe potuto essere il rimedio decisivo del nostro odierno pensiero cristiano. Ma la sua epoca ha scelto un’altra strada, semplicemente perché Przywara è troppo difficile da leggere. E la difficoltà è dovuta a tre fattori: al suo linguaggio, al suo pensiero sintetico e allo smisurato bagaglio culturale racchiuso in sintesi intricate, espresse con formule che sfruttano tutte le possibilità della lingua tedesca e mettono a dura prova qualsiasi sforzo di traduzione.
Tuttavia, esprimendo un voto di fiducia nel giudizio del teologo svizzero, crediamo che valga la pena di fare uno sforzo per cercare di comprendere il suo pensiero.
Negli ultimi mesi la crisi dell’Europa, e specialmente quella della Grecia, hanno rimesso in discussione l’idea di ciò che davvero sono l’Europa e l’Unione Europea. D’altra parte, il tentativo di emigrare in Europa compiuto dai popoli in guerra nel Nordafrica e nel Vicino Oriente ha messo in crisi la coscienza europea.
In questo contesto può tornare utile dedicare le pagine che seguono alla considerazione di una delle opere più brevi di Przywara, scritta nel 1955: L’ idea d’Europa[1]. Il contesto storico, che qui descriveremo per sommi capi, ci permette di inquadrare i problemi e i pericoli che Przywara intende affrontare[2].
Siamo nel dopoguerra, quando appaiono progetti di unificazione europea, ma puramente strumentale, senza una riflessione adeguata su ciò che realmente è l’Europa. I risultati di questi tentativi assomigliano a blocchi eretti contro gli orrori della guerra conclusasi un decennio prima. Przywara scrive in questo momento e in questa situazione. Si propone di presentare un’«idea» di Europa che possa essere considerata la base di una possibile Unione Europea.
Il metodo di Przywara
Il sottotitolo della traduzione italiana, La «crisi» di ogni politica «cristiana», più che un’affermazione perentoria, è una dichiarazione di metodo del suo autore.
Przywara si accinge a presentare un’idea «critica» di Europa, intendendo «crisi» nel senso originario della parola, cioè l’atto di «vagliare», «passare al setaccio», nel modo in cui lo facevano i cercatori d’oro, affinché l’acqua e la sabbia scorrano via e resti soltanto la pepita, soltanto quello che vale. È ciò che fa Przywara: vaglia l’idea e la realtà dell’Europa e la passa al setaccio. E il setaccio è formato dai due grandi maestri del pensiero europeo e occidentale: Platone e il suo discepolo, nonché critico severo, Aristotele[3].
Przywara lo fa — e lo dichiara espressamente nella prefazione — perché «in vista della scoperta di una possibile “Europeità” e la sperimentazione di un’efficace “Idea d’Europa” è indispensabile risalire alle “matrici”, alle “radici”, alle “sorgenti”»[4].
Noi siamo abituati allo schema iconico delineatosi a partire dall’affresco di Raffaello La scuola di Atene, in cui Platone addita il mondo delle idee e Aristotele il mondo materiale. Sebbene in ciò vi sia una parte di verità, tuttavia questa non è una prospettiva del tutto corretta, perché non è vero che Platone si sia rinchiuso in un mondo di idee, e non è neppure vero che Aristotele abbia finito per frammentarsi nel concreto individuale. In realtà ciascuno ha posto un proprio accento sulla relazione tra un mondo delle idee e dei princìpi e un mondo materiale e degli individui concreti.
Per questo il filosofo chiama in causa entrambi gli autori, perché i loro «accenti» — sull’essenza in Platone e sull’esistenza in Aristotele — sono caratteristici di due tipi di pensiero.
E tuttavia, per Przywara — ed è questo che egli vuole mostrarci —, l’equilibrio del pensiero non deve vertere soltanto tra il pensiero dell’essenza e il pensiero dell’esistenza, ma piuttosto tra Platone e Aristotele, vale a dire tra un pensiero che parte con Platone dall’idea e dall’ideale per giungere all’esistenza, e un pensiero che parte con Aristotele dal concreto e giunge alla conoscenza dei princìpi a partire dall’esistente individuale.
Forse lo possiamo capire meglio con un’immagine. Italo Calvino racconta ne Le città invisibili che, quando Marco Polo descrisse al Gran Khan un ponte, pietra per pietra, il Khan gli domandò: «Perché mi parli delle pietre? A me interessa l’arco». «Senza pietre — rispose Polo — non esiste l’arco»[5].
Questa immagine ci illustra bene l’intento del pensiero di Przywara: l’arco è un’idea che non esiste senza le pietre. Ma da sole le pietre non formerebbero mai un arco, se non fossero messe in tensione tra loro e con la genialità ideale e pratica che produce la realtà dell’«arco di pietra».
Con Platone, Przywara starà attento alle origini, perché in esse si plasma l’idea eterna che è posta al principio di una realtà concreta. Per lui, la «matrice» originaria è l’ambito intermedio della realtà in cui si compie il passaggio dalla realtà ideale (paradigmatica) alla realtà materiale (degli individui concreti). Pertanto, questa matrice che Przywara propone di studiare è il luogo e il momento in cui si forgia la realtà concreta che trova il proprio modello nell’idea.
Il filosofo polacco rintraccerà le impronte di questo momento «creazionale» in due espressioni trans-razionali: nei miti e nel linguaggio. Si tratta di due elementi che egli terrà costantemente presenti per mostrare questa «matrice», che è a sua volta il punto intermedio e di tensione tra l’ideale, universale e astratto, da una parte, e il materiale, individuale e concreto, dall’altra. È il pensiero eidetico di Platone, che parte dai princìpi per giungere alla realtà.
Con Aristotele, Przywara ha a cuore lo sviluppo storico. È la tensione che nell’evoluzione del concreto vivente si dà tra il concreto «essere ogni volta» nella storia e il suo «genoma» originario. E con questo pensiero morfologico aristotelico egli non cerca altro se non di riconoscere il genoma che ha dato la forma attuale al vivente e che è presente in esso. Mantenendo la tensione tra un pensiero eidetico e un pensiero morfologico, afferma che cercherà «le realtà originarie che stanno alla base del reale»[6].
Da questo punto di vista, il metodo di Przywara è una «crisi». La storia d’Europa viene passata al setaccio della riflessione, per trovare, appunto, l’«idea» come l’intendeva Platone e come la intendiamo noi quando parliamo di un’«Europa ideale», ma che non sia un’utopia. È, invece, quel genoma di Europa che si è andato sviluppando fino ad assumere i lineamenti della realtà che oggi conosciamo.
Dobbiamo anche tener presente che la riflessione presentata da Przywara non si propone di consegnarci un progetto. Il suo intento è quello di attirare l’attenzione su progetti che risultano parziali, perché non hanno alla base un’«idea» che rispetti l’origine e lo sviluppo di quell’Europa che essi vorrebbero modellare. La sua riflessione si trasforma allora nel momento critico di ogni progetto e concezione di Europa come unità.
I poli in tensione
Come abbiamo visto, il pensiero proposto da Przywara è caratterizzato dallo sforzo di mantenere la tensione tra l’«idea» in quanto principio originario della realtà molteplice e il «concreto», che è la forma molteplice assunta dal principio originario.
Ma il filosofo metterà in evidenza anche la tensione in atto nell’ambito del concreto, vale a dire la tensione esistente tra l’unità della totalità e la molteplicità delle parti. Un’idea di Europa richiede, in questo modo, che venga individuato l’aspetto ideale capace di mantenere l’unità dell’insieme che chiamiamo «Europa», senza trascurare la molteplicità del concreto.
Przywara scopre un modello storico di questo pensiero in quella realtà che ha dato origine alla parola «politica», cioè la polis. Ciò significa che, se si considera l’Europa come unità, essa trova corrispondenza nelle linee fondamentali che reggevano la polis, e questo sul doppio versante che le era proprio: trova corrispondenza in una politica considerata oggettivamente come funzione pubblica di protezione (nella politica ad extra) e come funzione pubblica di ordine (ad intra); tuttavia nello stesso tempo trova corrispondenza, soggettivamente, in una «mentalità» politica che è propria di quest’unità che è la polis[7].
Questa duplice funzione oggettiva e questa mentalità soggettiva appaiono analizzate nel loro doppio versante come tensione fra il tutto e la parte: l’Europa come parte, e l’Europa come tutto. Se infatti la si considera nella sua relazione ad extra, l’Europa deve essere pensata come parte di un tutto più grande; e se la si considera nella sua relazione ad intra, essa deve essere pensata come un tutto composto da parti.
Vediamo la descrizione che ne dà Przywara.
Le forme originarie
Nella politica «ad extra». La tensione tra il tutto e la parte si può riferire, in primo luogo, a una visione dell’Europa come parte di un tutto. Date la sua origine (Platone) e la sua situazione geografica e storica (Aristotele), si stabilisce la tensione tra un’idea di Europa considerata o semplicemente come un tutto (solo Europa), oppure come parte di un tutto più grande (Eurasia ed Eurafrica).
a) Secondo una visione platonica, il mito di Europa, del ratto della principessa fenicia, accentua la relazione originaria tra l’Europa e l’Asia e l’Africa, che significa la stretta comunione di uno spirito romano del potere maschile con uno spirito fenicio (asiatico e africano) della fecondità femminile[8].
Przywara rinviene una stessa relazione di reciprocità nell’etimologia dei nomi «Europa» e «Asia», che non sono semplicemente l’Occidente che si contrappone all’Oriente, bensì la terra del freddo inverno (l’Europa) capace di conservare i frutti (principalmente intellettuali e spirituali) prodotti nella terra del calore ardente (Asia e Africa)[9].
b) Secondo una visione aristotelica, ci si volge alla «forma» dell’Europa per estrarne la sua geo-metafisica (in contrapposizione a una geografia puramente empirica e a una geopolitica concentrata soltanto sugli interessi), che presti attenzione alla terra della polis che è l’Europa. E in Europa la geografia che determina metafisicamente la sua forma è quella di essere una penisola asiatica e di intrattenere, al tempo stesso, una stretta relazione con l’Africa tramite il Mediterraneo e le sue isole.
A partire da questa relazione, si è plasmata una cultura mediterranea (del Mare nostrum) in cui sono stati stretti legami euroasiatici ed euroafricani (nelle radici fenicie, etrusche, ariane e slave), nel pensiero (con Omero, Esiodo, Eraclito e Parmenide) e nello spirito (con Tertulliano, Origene e Agostino).
Nella politica «ad intra». In un secondo momento, la tensione fra il tutto e la parte può considerare l’Europa come unità di molteplici parti. In questa unità, il bene della «polis Europa» consiste nell’inclusione di tutte le sue parti, e l’esclusione di una qualsiasi di esse significa il fallimento del progetto[10].
a) La funzione pubblica dell’ordine della polis si basa sul fatto che la sua vita, ovvero la «politica», viene intesa come un «modo di pensare» secondo il quale il primato va al bene della polis intera, e questo in maniera tale che il servizio incondizionato a quest’unità e a questo bene determina qualsiasi politica oggettiva della funzione pubblica. Secondo Przywara, questo senso autentico di «politica» è stato espresso storicamente con sfumature diverse — sebbene sia sostanzialmente uguale — con i termini «Impero», «Stato», «Alleanza»[11].
E in questo concetto di polis, in cui il bene della totalità ha la supremazia sul bene della parte, è fondamentale la comprensione della figura del governante, il quale si mette, in una relazione di dedizione, al servizio del bene della polis e dei governati. La relazione che ne è risultata — la reciproca dedizione tra governante e governati fino al sacrificio della vita — è stata espressione secolare dell’Alleanza. Cosicché la mentalità di una polis di origine pagana si è evoluta, con l’avvento del cristianesimo e la cristianizzazione dell’Europa, nell’idea di Impero e Stato come quell’Alleanza sacra di matrice giudaico-cristiana che sarebbe stata il fondamento dell’unità dell’Europa fino a Leibniz[12].
b) Il fallimento consiste nel non mantenere la tensione; e si verifica ogni volta che la parte prende il posto del tutto. Tenendo presente la doppia relazione della vita della polis, questo fallimento può avere una duplice forma.
Se si pensa la relazione dell’Europa ad extra, il fatto che la parte prenda il posto del tutto si traduce in un isolarsi dal mondo per rinchiudersi in se stessa. Se consideriamo la sua relazione ad intra, il fatto che una parte prenda il posto del tutto significa che si genera un «avanzo», uno «scarto», formato da quella parte che non entra nel tutto.
Przywara poi esamina in che maniera questa tensione sia stata presente storicamente in Europa sotto tre aspetti; e, prendendo le mosse dalla politica, mostra come questa tensione si sia sviluppata insieme ad altri due aspetti che l’accompagnano: la sua fondazione razionale e spirituale.
Lo sviluppo storico delle forme originarie
a) Nello sviluppo dell’Europa dal punto di vista politico Przywara trova una netta alternativa: «O le nazioni rinnovano questa unica città con un’autentica conversione, lasciando cadere gli interessi per un servizio all’unica città e assumendo un corrispondente modo di pensare a tale unica città, oppure queste nazioni negozieranno, come mercanti, un equilibrio in base alla convergenza di interessi differente»[13].
Autentica «città dell’Occidente» è stata la Roma degli imperatori, sia pagani sia cristiani, per la quale l’Occidente non si separa contrapponendosi all’Oriente, ma è il luogo della tensione reciproca. L’Impero non può essere soltanto l’Europa geografica, ma necessariamente l’Oriente e l’Occidente insieme.
Da questa necessità sono sorti i conflitti del Sacro Impero, che si ripeteranno nel corso della storia con gli Ottoni, con gli Asburgo, con Napoleone, con Hitler. Infatti, con il tempo Roma si è trasformata soltanto nella Roma di San Pietro e ha perso la funzione politica di «città dell’Occidente-Oriente», e altre città nel corso della storia hanno preteso questo titolo, mettendo l’accento, tuttavia, su un aspetto parziale: Londra è stata emporio mondiale del commercio; Parigi è stata la città del magistero culturale; Madrid ha perso la sua qualità di città mondiale quando, espellendo i mori e gli ebrei, ha fatto della parte il tutto; Berlino è stata la città del limite tra il Sacro Impero e la terza Roma — Mosca — e ha condiviso con Vienna il ruolo di «frontiera» con il mondo slavo, sebbene la lunghissima tradizione di fare da punto di tensione, limite e ponte tra Oriente e Occidente spetti a Vienna[14].
b) Anche il sostegno intellettuale accordato al fallimento nel mantenere la tensione fra il tutto e la parte è stato un insuccesso: un’Europa evangelizzata e cristianizzata da una Chiesa che, a partire dal secondo millennio, ha cominciato a lottare per fare anch’essa della parte un tutto, e lo ha fatto con ogni scisma, giustificando la decisione dal punto di vista intellettuale e da quello dogmatico.
Da qui sorgono le due linee indicate da Przywara, che in questa situazione di mancato rispetto della tensione fra il tutto e la parte pone tutto il suo sforzo spirituale e intellettuale nel dimostrare che la parte è uguale al tutto.
Una trasformazione del concetto di «spirito»
A partire dall’idealismo (Descartes, Leibniz, Kant, Hegel) la parola «spirito» significa, per l’Occidente europeo, il dominio della pura «tecnica scientifica», che si oppone assolutamente al significato della parola «spirito» nelle lingue più importanti dell’Occidente: per i greci, pneuma è il respiro del cosmo; per i latini, spiritus è il vento che soffia e dà movimento a tutto ciò che è statico e immobile; e la radice gheis (in Geist e ghost) è, per le lingue germaniche, ciò che sbigottisce e spaventa. Sono tre aspetti di ciò che il termine ruah esprime in ebraico: una forza che non si può ridurre alla comprensione razionale, e che appare repentinamente e atterrisce, perché mette in moto e scuote tutto ciò che è fisso, stabile e che offre sicurezza[15].
Quello «spirito razionale» si manifesta nel numero, come scienza e tecnica, ma anche nelle leggi del mercato, sia che si tratti del capitalismo calvinista come stato dei beati benedetti da Dio (materialismo commerciale), sia del capitalismo dello stato dei lavoratori (materialismo dialettico), trasformandosi ogni volta di nuovo nella nuova forma dello «spirito europeo» come «spirito della sua epoca»[16].
Una trasformazione del concetto di «cristiano»
Il percorso compiuto da Przywara lungo l’arco dei tentativi storici di fondare «città cristiane» dimostra che essi si sono sempre arenati nella totalizzazione di alcune delle parti: da Costantino al Sacro Romano Impero, alla Riforma, all’Illuminismo, al Romanticismo e ai partiti cristiani del XIX secolo. Il filosofo lo descrive come un cristianesimo che non assume ciò che è autenticamente cristiano, bensì prende la forma dell’«antica alleanza», come la intendeva quell’Israele che Mosè e i profeti hanno definito «intestardito a non ascoltarmi e a non accogliere la lezione, popolo dalla dura cervice» (Es 32,9; Ger 17,23), in cui il puro, il perfetto e il degno prendono le distanze dall’impuro, dall’imperfetto e dall’indegno, accomodandosi sullo scranno del giudice[17].
Davanti al fallimento di questi tentativi di fondare città cristiane, Przywara afferma, a partire da sant’Agostino, che essere «cristiano» non vuol dire soltanto «venire da Cristo» o «appartenere a Cristo», ma significa autenticamente «essere Cristo», e ciò in quello che gli è più proprio: nel mistero del «mirabile scambio» (katallagē, 2 Cor 5,18-19; Rm 5,10). E questo mistero, come lo intende san Paolo e come lo realizza Gesù, non significa in nessun modo la distruzione del peccatore, ma piuttosto essere l’agnello di Dio e prendere su di sé il peccato del mondo (cfr Gv 1,29)[18].
Pertanto, il servizio della Chiesa e del cristiano è partecipare al servizio in ciò che è la caratteristica di Cristo: la diakonia dello scambio che salva, nel senso più autentico di diakonia come messaggero che invita alle nozze e che poi si mette al servizio del banchetto delle nozze del figlio del Re (cfr Mt 22,1-2).
Pensiero in tensione
Cercare un’«idea di Europa» vuol dire cercare di pensare l’Europa. Przywara ci presenta un modo di pensarla che rispetta la tensione tra l’ideale originario e la concretizzazione esistenziale di quest’unità che chiamiamo «Europa». E tuttavia non ci propone una «formula» nel senso di un ricettario per tradurla in pratica, ma piuttosto una «forma di pensiero» nella quale non si tratta di eliminare nessun polo, ma di mantenere la tensione sempre e ogni volta di nuovo messa alla prova.
Può riuscire illuminante ricordare quello che egli addita come il problema più profondo della metafisica di Aristotele e che appare precisamente come il problema del tutto e della parte. Infatti, per Przywara, l’intero pensiero aristotelico trova il proprio punto critico nel «frammento», perché in esso il tutto e la parte coincidono. È una spina nella logica del suo pensiero, poiché è un permanente richiamo a ciò che dovrebbe essere parte e non lo è più. Ovvero, dal punto di vista metafisico, la mutilazione dell’uno (del tutto) significa un’accentuazione del «limite» e di ciò che sta oltre il limite.
Quando la trasformazione della parte nel tutto è intenzionale, quel limite e quella riduzione del tutto sono di carattere intellettuale: infatti c’è bisogno di un principio razionale e logico che permetta di rompere ciò che di per sé forma un’unità, come una nuova tensione posta fra identità e contraddizione[19].
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In questo modo si chiarisce l’aspetto più profondo di ciò che Przywara ha sviluppato come tentativo di descrivere l’idea di Europa. Un’idea di Europa che ambisca a vedere l’Europa come unità deve mantenere la tensione fra ciò che l’Europa è fin dalle origini e ciò che si è andato sviluppando lungo la storia, e questa tensione è sempre apparsa come tensione fra il tutto e le parti.
Ogni tentativo di non rispettare questa relazione fra il tutto e le parti ha dovuto sviluppare un pensiero che lo giustificasse, così che ciò che è (identità) è trasformato (da un principio razionale) in ciò che non è (contraddizione). Torniamo allora alla questione del metodo: non mantenere la tensione fra la parte e il tutto conduce a un modo di pensare che può essere doppio, sebbene in realtà, per Przywara, queste siano le due facce di una stessa medaglia.
Conclusione
Una nuova unità dell’Europa si dà soltanto a partire da un rinnovamento di quella «mentalità» propria della polis. Ma tale mentalità è pur sempre carica della storia che ha prodotto assolutizzazioni delle parti, in modo che sembrerebbe impossibile un ritorno alle forme originarie. Tuttavia Przywara propone di illuminare il problema della tensione fra il tutto e le parti con un nuovo mito, che è il vero mito di origine della «città cristiana», perché è al tempo stesso il mito del potere e del servizio propri di Cristo e del cristiano.
Come è partito dal mito di Europa per narrare la nascita dell’Europa in quanto tensione originaria ad extra, ed è partito dal significato primordiale di «politica» come tensione originaria ad intra, così alla fine della sua opera Przywara tenta di rimitologizzare l’Europa a partire dal «mito» della lavanda dei piedi (cfr Gv 13,1-11). Dal momento in cui il Signore lavò i piedi ai suoi discepoli e insegnò loro a fare altrettanto, non è più possibile pensare un’autorità e un potere che non siano servizio. Qualsiasi altro modo non è cristiano[20].
Il servizio del cristianesimo all’Europa le ha dato uno «spirito» che ha significato un cammino per mantenere la tensione. Ma è stato lo stesso cristianesimo ad aver fallito nella cura della tensione tra le parti. E a questo fallimento ha fatto seguito la decadenza intellettuale, dovuta all’intento di dimostrare che la parte è il tutto. Il fatto che si crei l’illusione che la parte sia il tutto fa dimenticare che l’unità è incompleta e impedisce pertanto il desiderio di cercare ancora quella «completezza frammentata». Perciò la logica che si è impegnata a giustificare la frammentazione è una logica che paralizza.
Secondo questa logica, la soluzione dei problemi consiste nel cancellare e annichilire uno degli estremi in conflitto. Ma lo «spirito» (nel senso originario e autentico) spinge a cercare sempre di nuovo l’equilibrio dei poli in tensione, i quali, come propri di una realtà vivente, richiedono un’attenzione e uno sforzo costanti.
Ma ciò non può accadere senza la conservazione dei poli in tensione. Una centralità di estremi distrutti finisce con l’acquisire una forma tragica. Possiamo descrivere l’esito di questo pensiero con la figura di Medea: essa occupa il centro della scena, ma solo per essere il centro dei resti di un mondo distrutto tragicamente. Non le resta altro che salire sul carro alato del deus ex machina.
Al contrario, con il «mito» della lavanda dei piedi Przywara mette in luce l’opposto di quel mondo tragico, perché il Dio meticcio, che vuole salvare l’uomo tramite l’uomo e pertanto si fa Dio-uomo, esercita il suo potere servendo, e quel servizio di Cristo, della Chiesa e del cristiano significa prendere su di sé il peccato del mondo. Il «mirabile scambio» tra il Dio puro e l’uomo peccatore è proprio il mistero più profondo della logica che mantiene l’unità delle parti, perché Cristo si è fatto uomo non per separare gli impuri e i peccatori, ma proprio per prendere su di sé e così togliere il peccato dal mondo[21].
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[1]. E. Przywara, Idee Europa, Nürnberg, Glock und Lutz, 1955. Quest’opera vide la luce nel dopoguerra sotto forma di una trasmissione radiofonica, che ne ha determinato la struttura e il carattere schematico. Citiamo dalla traduzione italiana: L’ idea d’Europa. La «crisi» di ogni politica «cristiana», Trapani, Il Pozzo di Giacobbe, 2013.
[2]. Cfr F. Mandreoli, «L’idea d’Europa di Erich Przywara: una riflessione critica per l’ora attuale», in Rivista di Teologia dell’Evangelizzazione 18 (2014) 187-221.
[3]. Cfr E. Przywara, L’ idea d’Europa…, cit., 71 s.
[4]. Ivi, 68.
[5]. I. Calvino, Le città invisibili, Milano, Mondadori, 1993, 83.
[6]. E. Przywara, L’ idea d’Europa…, cit., 69.
[7]. Cfr ivi, 83.
[8]. Cfr ivi, 72-75.
[9] . Cfr ivi, 81 s.
[10]. Cfr ivi,89 s.
[11]. Cfr ivi, 86-89.
[12]. Cfr ivi, 68.
[13]. Ivi, 90.
[14]. Cfr ivi, 93-96.
[15]. Cfr ivi, 97-101.
[16]. Cfr ivi, 106-109.
[17]. Cfr ivi, 118-125.
[18]. Cfr ivi, 111-118.
[19]. Cfr E. Przywara, Analogia Entis. Metafisica. La struttura originaria e il ritmo cosmico, Milano, Vita e Pensiero, 1995, 156 s.
[20]. Cfr Id., L’idea d’Europa…, cit., 123.
[21]. Cfr ivi, 125.