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«La Santa Sede e il Patriarcato di Mosca hanno la gioia di annunciare che, per grazia di Dio, Sua Santità Papa Francesco e Sua Santità il Patriarca Kirill di Mosca e di tutta la Russia, si incontreranno il 12 febbraio p. v. Il loro incontro avrà luogo a Cuba, dove il Papa farà scalo prima del suo viaggio in Messico, e dove il Patriarca sarà in visita ufficiale». Con queste parole, da Roma e da Mosca, il 5 febbraio 2016 si annunciava un incontro che subito è stato definito senza timori di smentita «storico», in quanto è il primo in assoluto, frutto di una preparazione lunga e paziente.
Lo stesso comunicato ha definito l’incontro con due parole: «tappa» e «segno». «Tappa importante nelle relazioni tra le due Chiese», e dunque non punto di arresto, ma parte di un processo che resta in divenire ed esso stesso frutto di una lunga, paziente e delicata tessitura diplomatica, religiosa e politica. Ma soprattutto «segno di speranza per tutti gli uomini di buona volontà».
Infatti, questa tappa storica ha un significato profondo molto chiaro: non si può più rimanere sordi e ciechi davanti alla storia del mondo (cfr A. Spadaro, «La diplomazia di Francesco. La misericordia come processo politico», in Civ. Catt. 2016 I 209-226). Oggi i cristiani sono chiamati a incontrarsi e a superare qualunque ostacolo pur di tendersi la mano. Infatti, nella storia si apre un problema nuovo, ma che in realtà la Chiesa conosce fin dalle sue origini: la persecuzione. Sia la Chiesa ortodossa sia quella cattolica oggi soffrono drammatiche e sanguinose persecuzioni. In Medio Oriente, nell’Africa del Nord e del Centro i cristiani sono vittime di violenze, di soprusi, di oppressioni, e hanno visto le loro case e le loro chiese incendiate e distrutte.
Il metropolita Hilarion di Volokolamsk, Presidente del Dipartimento per le relazioni ecclesiastiche esterne del Patriarcato di Mosca, lo ha ricordato a Mosca, nella conferenza stampa di presentazione dell’incontro di Cuba il 5 febbraio: lo storico incontro tra Papa Francesco e Kirill è stato accelerato dal «genocidio dei cristiani» in atto per mano del terrorismo. E ha concluso dicendo che questa tragica situazione invita a mettere da parte il disaccordo interno e a unire gli sforzi per salvare il cristianesimo nelle regioni dove subisce persecuzioni crudelissime.
Dal canto suo, Papa Francesco ha parlato più volte dell’«ecumenismo del sangue», della testimonianza cristiana cruenta. La fedeltà al Signore e la perseveranza nella fede sono martirio sanguinoso, perché testimoniate a prezzo della propria vita, ma costituiscono oggi il punto di incontro tra fratelli.
Dunque, ciò che ha spinto Francesco e Kirill a incontrarsi sono state le sfide del mondo, le frontiere reali, i drammi del nostro tempo. I cavilli della tattica politica e delle opportunità non possono trattenere i leader cristiani da una stretta di mani. In questo Francesco è stato chiaro, quando si è mostrato disponibile all’incontro con Kirill senza porre alcuna condizione di data, di luogo e di modalità. Lo disse in aereo, tornando da Istanbul, nel novembre del 2014: «Gli ho detto [a Kirill]: io vengo dove tu vuoi. Tu mi chiami e io vengo. E anche lui è d’accordo. Abbiamo la volontà di trovarci».
Senza questa «caparbietà» e senza la reale decisione del Papa e del Patriarca questo incontro sarebbe rimasto in «sala d’attesa» per chissà ancora quanto tempo. Molte prese di posizione di Francesco, dalla condanna del proselitismo all’«ecumenismo del sangue», dal ridimensionamento della prospettiva eurocentrica alla centralità della misericordia, hanno prevalso sulle pur necessarie discussioni teologiche ed ecclesiologiche.
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E invece i cammini di Francesco e Kirill si sono intrecciati, anche letteralmente. Infatti il quando e il dove è stato deciso proprio sulla base dei cammini pastorali dei due leader. Kirill era stato già a Cuba varie volte prima di essere eletto Patriarca di Mosca, per inaugurare a L’Avana la cattedrale della Madonna di Kazan, prima chiesa ortodossa russa a Cuba. Adesso Kirill si è trovato in visita all’interno di un viaggio più ampio in America Latina dall’11 al 22 febbraio. Francesco era stato a Cuba cinque mesi prima, ma l’isola caraibica è nella traiettoria di viaggio verso il Messico, dove si è recato in visita apostolica dal 12 al 18 febbraio.
Ha qualcosa di singolare questo incontro in aeroporto a L’Avana. In realtà, per Francesco un luogo sarebbe valso l’altro. Ma questa scelta un po’ casuale si presenta come un prendersi «al volo» reciprocamente, mentre si va in missione pastorale, non seduti comodamente nelle rispettive sedi. Non, dunque, una chiesa o una curia è stata la cornice di questo incontro, ma un «non luogo» per eccellenza, la sala di un aeroporto, crocevia simbolico, che in ogni caso è l’opposto della cornice di un «grande evento».
Papa Francesco ha più volte ripetuto che la realtà si legge meglio dalla periferia che dal «centro». L’incontro non si è tenuto né a Roma né a Mosca. Cioè non è avvenuto in Europa, ma nel «Nuovo Mondo». Al suo arrivo a Cuba il 19 settembre 2015, Papa Francesco aveva detto: «Geograficamente, Cuba è un arcipelago che si affaccia verso tutte le direzioni, con uno straordinario valore come “chiave” tra nord e sud, tra est e ovest. La sua vocazione naturale è quella di essere punto d’incontro» (corsivo nostro).
Adesso, e solo adesso, si comprende il senso vero di quelle parole. Cuba: una ferita aperta nel Mar dei Caraibi, un muro di embargo, diventa il luogo adatto perché la storia dell’Europa — teatro di divisioni e conflitti tra cristiani — possa non essere riscritta, ma cambiare direzione. Quale messaggio religioso più forte può esserci? Quale messaggio politico più forte può esserci? Ecco dunque il significato di «segno» che la Santa Sede e il Patriarcato hanno attribuito all’evento.
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L’attesa è stata lunga. L’ultimo tentativo di sanare lo scisma risaliva al Concilio di Firenze del 1439, dove, mediante la Bolla sull’unione Laetentur caeli, si era cercato di ricomporre la rottura che dal 1054 divideva dolorosamente la Chiesa. Ma fu proprio anche grazie a quel tentativo che la Chiesa russa, rigettando l’unione dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453, prese a considerarsi come legittima erede della Chiesa greca, e a considerare Mosca come la «Terza Roma». La frattura era avvenuta nel luglio del 1054, a Costantinopoli, nella basilica di Santa Sofia: Umberto di Silvacandida, delegato pontificio, e il patriarca Michele Cerulario si scomunicarono a vicenda. Tuttavia il cardinale Umberto di Silvacandida non poteva scomunicare in nome del Papa, perché il Papa era morto.
Questa rottura fu il punto culminante di un conflitto personale fra i due prelati e delle relazioni religiose e politiche tra Oriente e Occidente che si erano guastate da tempo. La divisione tra la Chiesa di Oriente e di Occidente non si lega dunque a una data precisa, ma è l’effetto di un allontanamento reciproco dovuto a un’estraniazione culturale, religiosa e politica maturata lungo secoli e determinata da un insieme di avvenimenti particolarmente drammatici. Questa separazione si è poi fissata in due concezioni ecclesiologiche diverse e contrastanti: in Occidente e a Roma si è avuta la tendenza alla centralizzazione e alla gerarchia, in Oriente invece si sono accentuate l’autocefalia e l’autonomia nazionale.
Il decreto del Concilio di Firenze circa l’unione, Laetentur caeli, non ebbe valore effettivo, e tuttavia ha un grande significato per l’ecumenismo, perché demolisce «il muro che separa le due Chiese» con un accordo sui punti controversi: da un lato, si riconosce la varietà dei riti e delle formule liturgiche; dall’altro, si riconosce la parità delle strutture ecclesiali e giuridiche. L’unione fra la Chiesa greca e quella latina è pensata non come un ritorno alla «Chiesa madre», ma sul fondamento di una parità e di una uguaglianza.
Nel 1984 la Commissione congiunta Cattolica Romana ed Evangelica Luterana, commentando l’unione al Concilio fiorentino, l’ha definita «un fatto nuovo nella storia», perché di grande attualità nel cammino ecumenico: una via originale per giungere alla piena unità fra le Chiese, conservando la propria tradizione liturgica, canonica e teologica e tollerando differenze disciplinari.
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A 50 anni dallo storico incontro del beato Paolo VI con il Patriarca Atenagora, avvenuto nel 1964, nel 2014 la visita di Papa Francesco al Patriarca di Costantinopoli Bartolomeo in Turchia ha riportato alla luce non soltanto l’intenzione del Concilio di Firenze, ma anche il modo in cui si propone l’incontro e il dialogo tra fratelli (cfr G. Pani, «“Per giungere alla piena unità”. Dal Concilio di Firenze all’abbraccio di Istanbul», in Civ. Catt. 2015 I 209-217). In particolare, l’abbraccio tra Francesco e Bartolomeo e l’inchino del Papa al Patriarca, con i discorsi e le dichiarazioni che li hanno accompagnati, hanno aperto la strada a un evento tanto importante come l’incontro tra Francesco e Kirill.
Il Patriarca Bartolomeo naturalmente è stato informato appropriatamente di questo incontro e ha manifestato la sua gioia per questo passo avanti nel cammino delle buone relazioni ecumeniche tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa russa, che è, dal punto di vista numerico, la più numerosa fra le Chiese ortodosse. Si calcola che circa due terzi degli ortodossi del mondo, circa duecento milioni, dipendano dal Patriarcato di Mosca. Ma non sono certo i numeri di Mosca che interessano al Papa, quanto la grande tradizione di una Chiesa che ha preservato la fede nei decenni dell’ateismo sovietico e che custodice un tesoro di spiritualità.
Il Patriarca ha voluto l’incontro di Cuba come lo ha voluto il Papa. Kirill è una personalità che ha una lunga storia di impegno ecumenico e di partecipazione ai rapporti con le altre Chiese. Infatti, divenuto archimandrita, nel 1971 ha rappresentatato la Chiesa russa presso il Consiglio Ecumenico delle Chiese. Nominato arcivescovo nel settembre del 1977, dal 1979 è membro della Commissione del Sacro Sinodo per l’unità cristiana. Nel 1989, con il Patriarca precedente, era il responsabile delle relazioni esterne. Aveva quindi molti rapporti ecumenici e conosceva molto bene anche la situazione dei rapporti tra le Chiese.
Nel 2007 era stato anche a Roma e aveva incontrato Papa Benedetto XVI, non essendo lui ancora Patriarca. Lo divenne, eletto a vastissima maggioranza, il 27 gennaio 2009. Ricordiamo infine che Kirill è discepolo del metropolita Nikodim, che era venuto a Roma per le esequie di Paolo VI e che in quella occasione fu accolto dal Generale dei Gesuiti, p. Pedro Arrupe, a «Villa Cavalletti», Frascati. Nikodim, proprio per questa amicizia con Arrupe, rimase nella Villa per tutto il mese di agosto, fino all’elezione del nuovo Pontefice.
L’incontro di Cuba, infine, giunge alle soglie del Sinodo panortodosso con la partecipazione dei responsabili di tutte le Chiese autocefale, che si terrà nel giugno 2016 a Creta. Esso non si convoca da oltre 1.200 anni — cioè dal Secondo Concilio di Nicea del 787 —, e i preparativi per il suo svolgimento sono in corso da decenni. Il fatto quindi che queste relazioni positive tra la Chiesa cattolica e le grandi Chiese ortodosse si sviluppino dà all’incontro di Cuba un senso di avvicinamento profondo e non solamente quello di un atto di «politica ecclesiastica». Comprendiamo, dunque, come questo tempo sia particolarmente denso e favorevole, e dunque anche non privo di tensioni.
L’incontro di Cuba, dicevamo, è stato l’apice di un lungo processo non estraneo a quello vissuto ormai da molti anni e con profondità con il Patriarca di Costantinopoli, ma comunque distinto. Le tappe più recenti, lo ricordiamo, sono state il «dono», o «restituzione», dell’icona della Vergine di Kazan, custodita nell’appartamento papale, e accolta con un’emozione indescrivibile nella cattedrale della Dormizione al Cremlino, nel 2004. Nel 2009 Benedetto XVI inviò in dono al neoeletto Patriarca Kirill un calice, «pegno del desiderio di giungere presto alla piena comunione».
Ma è anche da notare che il Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee ha collaborato insieme al Metropolita Hilarion per la creazione e la realizzazione del Forum Europeo Cattolico Ortodosso, istanza ecclesiale volta a promuovere una migliore collaborazione pastorale tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse in Europa, e di cui è già in preparazione la quinta edizione. Hilarion ha incontrato Papa Francesco due volte nell’ultimo anno, il 15 giugno e il 15 settembre 2015.
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Arrivato a L’Avana alle ore 14,00, all’aeroporto José Martí, Papa Francesco è stato ricevuto dal presidente Raúl Castro, che ha facilitato questo incontro, ben consapevole del suo significato. Alle 14,15 il Papa ha incontrato il Patriarca Kirill. Il colloquio privato è durato un paio d’ore. L’incontro storico è stato accompagnato da un bacio alla maniera russa, un abbraccio e un lungo guardarsi negli occhi con un sorriso. Chi era presente ha subito capito che tra Francesco e Kirill c’era intesa e serenità. «Finalmente!», è stata la parola, in italiano, pronunciata dal Papa.
All’inizio del colloquio la parola hermano, fratello, è stata ripetuta dal Papa più volte. A un certo punto Kirill ha anche affermato: «Ora le cose sono più facili». E il Papa, in spagnolo, subito tradotto in russo dall’interprete: «È più chiaro che questa è la volontà di Dio».
Al termine si è avuto uno scambio di doni. Il Papa ha regalato al Patriarca Kirill un calice, perché, celebrando l’Eucaristia, «si ricordi anche di lui, peccatore», ha detto. Quindi in una sala un po’ più ampia si è avuta la firma di una dichiarazione congiunta in russo e in italiano. Le sale erano semplici, con arredi molto spartani, ma decorosi. Il Papa e il Patriarca hanno firmato le due copie e poi se le sono scambiate.
Hanno fatto seguito due brevi discorsi del Patriarca Kirill e del Papa: un’espressione spontanea, personale di sentimenti in questa straordinaria occasione. Il Patriarca ha affermato che la loro conversazione è stata «aperta, con piena intesa sulla responsabilità verso le nostre Chiese, il nostro popolo credente, il futuro del cristianesimo e il futuro della civiltà umana. È stata una conversazione ricca di contenuto, che ci ha dato l’opportunità di ascoltare e capire le posizioni l’uno dell’altro», e questo in vista di una cooperazione effettiva fra le due Chiese.
Papa Francesco ha confermato: «Abbiamo parlato come fratelli, abbiamo lo stesso Battesimo, siamo vescovi. Abbiamo parlato delle nostre Chiese, e concordiamo sul fatto che l’unità si fa camminando. Abbiamo parlato apertamente, senza mezze parole, e vi confesso che ho sentito la consolazione dello Spirito Santo in questo dialogo. Ringrazio per l’umiltà Sua Santità, umiltà fraterna, e i suoi buoni auspici di unità». Francesco è ripartito per il Messico alle 17,30.
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La dichiarazione comune è composta da 30 punti ed è alquanto articolata. La riportiamo integralmente in questo fascicolo della nostra rivista. Da essa si evince come l’incontro sia stato una scommessa che comporta rischi. Le questioni interne tra le due Chiese non sono risolte: le accuse, da parte russa, di proselitismo, il problema del cosiddetto «uniatismo», lo scontro tra Russia e Ucraina non sono da sottovalutare, anche nelle loro conseguenze legate alle Chiese del luogo. Le parole di Francesco sulla situazione ucraina sono sempre quelle dell’Udienza generale del 4 febbraio 2015: «Pensate, questa è una guerra fra cristiani! Voi tutti avete lo stesso Battesimo! State lottando fra cristiani. Pensate a questo scandalo».
In questa dichiarazione il problema è illustrato, e tuttavia si dice che il metodo dell’«uniatismo» non è un modo che permetta di ristabilire l’unità. Ma anche che «le comunità ecclesiali apparse in queste circostanze storiche hanno il diritto di esistere e di intraprendere tutto ciò che è necessario per soddisfare le esigenze spirituali dei loro fedeli, cercando nello stesso tempo di vivere in pace con i loro vicini. Ortodossi e greco-cattolici hanno bisogno di riconciliarsi e di trovare forme di convivenza reciprocamente accettabili».
Poi il dramma del quadrante mediorientale è stato addirittura evocato come motivazione dell’incontro cubano ed è apparso centrale nella dichiarazione. Sappiamo bene quanto il Cremlino svolga un ruolo da protagonista diretto in quel territorio.
La porta con la Russia di Putin è stata sempre criticamente aperta. Il Presidente è stato ricevuto due volte in Vaticano, nel novembre del 2013 e nel giugno del 2015. Ma in sostanza la posizione voluta dal Papa consiste nel non dare torti e ragioni, perché alla radice c’è comunque una lotta di potere per la supremazia regionale, definita dal Papa «vana pretesa». Ma già all’inizio di settembre 2013, scrivendo a proposito della situazione siriana al presidente Putin in occasione del vertice del G20 a San Pietroburgo, Francesco ha affermato: «Duole constatare che troppi interessi di parte hanno prevalso da quando è iniziato il conflitto siriano, impedendo di trovare una soluzione che evitasse l’inutile massacro a cui stiamo assistendo».
Non c’è dunque da immaginare uno schieramento per ragioni morali, ma si impone la necessità di vedere il quadro da un’ottica differente. Le Chiese però hanno il dovere di «chiedere alla comunità internazionale di agire urgentemente» e di rivolgere «un fervido appello a tutte le parti che possono essere coinvolte nei conflitti perché mostrino buona volontà e siedano al tavolo dei negoziati».
Nella dichiarazione si riconoscono i toni che Mosca usa per evidenziare la decadenza dell’Occidente, il suo declino economico e il suo declino morale. Per alcuni, essi sono troppo legati a una narrativa politica russa. In ogni caso sono temi di valore pastorale, e non politico o sociologico, come il Papa ha detto ai giornalisti volando da L’Avana a Città del Messico. La dichiarazione congiunta, in questo senso, è solamente una tappa il cui fulcro non sono le parole scritte e firmate, ma le mani che hanno usato l’inchiostro e che si sono strette. È dunque l’incontro stesso a costituire la pietra miliare che storicamente si impone.
Del resto l’obiettivo di Francesco non è una «santa alleanza» rigorista contro qualcuno, ma l’unità della Chiesa a favore del mondo, anche se questo costa la fatica dell’intendersi. In questo senso ciò che deve essere considerato attentamente è il fatto che Francesco non imponga condizioni di alcun genere e, pur di stabilire l’incontro, sia disposto a tutto. Ostilità ed equivoci ci sono e ci saranno, ma alla fine cadranno se il cammino proseguirà. È questa la politica (anche ecclesiastica) della misericordia. Dunque, l’abbraccio di Francesco è stato un abbraccio senza condizioni che ha accolto la Chiesa ortodossa russa così com’è adesso, amandola come sorella, con la sua storia complessa, difficile, e con la sua tradizione luminosa.
I punti caldi saranno stati trattati nel dialogo privato a tu per tu. Ma certo nell’incontro di Cuba si è colta una determinazione che è andata al di là di ogni cautela. In questo senso «il primato della cattedra di Pietro, la quale presiede alla comunione universale di carità» (LG 13) per Francesco impone gesti di questo genere, gesti generosi e profetici. Questa forse, almeno per alcuni, è una forma di hacer lío, ma per Francesco è parte del discernimento e del progresso: la politica corretta, cioè evangelica, non sempre richiede solamente cautela. La Chiesa in Europa, che guarda a questo evento al di qua dell’Atlantico, lo considera — ha dichiarato il card. Peter Erdő, presidente del Consiglio delle Conferenze Episcopali Europee — «come un ulteriore passo compiuto per l’unità e per la comune testimonianza dei cristiani».
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