|
Domenica 27 aprile, con una grandiosa partecipazione popolare, Papa Francesco ha canonizzato Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Moltissimo è stato scritto in proposito e numerosi volumi sui due Papi nuovi santi sono stati presentati in queste settimane. I «primati» rappresentati dall’avvenimento sono stati ampiamente descritti dai media: è la prima volta in cui due Papi vengono canonizzati insieme. Al rito erano presenti sia Papa Francesco sia il Papa emerito Benedetto XVI, tanto che molti hanno parlato della festa dei quattro Papi e così via.
La data è stata scelta in modo da permettere un massiccio arrivo di fedeli dalla Polonia, le cui condizioni climatiche avrebbero reso più arduo il viaggio nella data inizialmente prevista per l’autunno scorso (in Polonia in novembre ci possono essere già abbondanti nevicate). Dalla sola Polonia infatti sono giunti cinque treni straordinari e oltre 1.000 pullman, e in ogni caso i polacchi, con le loro bandiere e i loro colori, erano sempre molto visibili. Ma neppure l’accostamento in un’unica festa di Papa Roncalli e di Papa Wojtyła, ambedue oggetto da tempo di una diffusa devozione popolare, è stato casuale. Alcuni commentatori hanno visto in queste celebrazioni una «canonizzazione» della stagione del Concilio Vaticano II, un periodo storico della vita della Chiesa, anche se con percorsi e stili differenti per ciascuno dei due Papi. Non casualmente, le poche immagini che ritraggono insieme Papa Roncalli e il neo-vescovo ausiliare di Cracovia li riprendono alla vigilia del Concilio.
Anche se protagonisti della giornata sono stati quattro Papi (di cui due, defunti, idealmente presenti dalla luce di Dio), non si è voluto dimenticare Paolo VI, che concluse positivamente il Concilio e portò il peso maggiore della sua successiva attuazione e iniziale ricezione. Papa Francesco ha voluto infatti usare il pastorale che Lello Scorzelli scolpì per Papa Montini e che Giovanni Paolo II usò per molti anni. Papa Francesco lo aveva usato anche durante la Messa di inizio pontificato. Canonizzare insieme due Papi così differenti nel loro stile sottolinea del resto la continuità della Chiesa nel cammino postconciliare, esortando a guardare al futuro con serenità.
Papa Roncalli, già beatificato da Giovanni Paolo II il 3 settembre del 2000, arriva alla gloria degli altari a cinquantun’anni dalla sua morte, ed è stato colui che volle e aprì il Concilio Vaticano II. Per consentire la sua canonizzazione in questa data, Papa Francesco ha dispensato dal riconoscimento canonico di un miracolo, richiesto dalla consueta procedura (un altro miracolo era stato invece regolarmente esaminato e riconosciuto per la beatificazione). Ma notizie di grazie, anche prodigiose, ottenute per la sua intercessione, sono pervenute a Roma in tutti questi anni.
Per Giovanni Paolo II, canonizzato a soli 9 anni dalla morte, si è invece derogato ai tempi richiesti per iniziare la causa di beatificazione. È un Papa, mediatico e vincente, che si è imposto al mondo, tanto da accelerarne anche la beatificazione. Un nuovo miracolo è stato ufficialmente riconosciuto, ma le notizie di guarigioni ricevute per sua intercessione (certo non tutte definibili come miracoli) sono state moltissime anche nel suo caso. Il card. Ruini ha parlato di centinaia di casi. Il successore di Papa Wojtyła, Benedetto XVI, consentì che la causa fosse avviata prima dei richiesti cinque anni dalla morte, ma non volle procedere alla beatificazione stessa prima di cinque anni, nonostante le numerose richieste di una proclamazione, si potrebbe dire «a furor di popolo». Anche per Giovanni XXIII, del resto, verso la fine del Concilio, venne proposta la beatificazione «per acclamazione», che Paolo VI non ritenne opportuna. Si tratta infatti di procedure delicate, che si prestano a pressioni indebite, o di tipo politico, oppure create da un facile entusiasmo popolare. La Chiesa preferisce procedere con ritmi più ponderati e che offrano maggiori garanzie di serietà delle indagini e quindi delle solenni decisioni del magistero.
I tempi in ogni caso sono stati molto abbreviati, se si pensa alla necessità, per un Pontefice candidato alla beatificazione, di esaminare tutti i suoi scritti e gli atti compiuti durante il suo governo e anche precedentemente. Una fatica improba, soprattutto nel caso di Giovanni Paolo II, di cui non si contano i documenti pubblicati, i discorsi pronunciati e i gesti significativi compiuti nei viaggi in tutto il mondo.
La canonizzazione (e la precedente beatificazione) di un Papa non significa l’approvazione di tutte le sue decisioni e delle sue scelte, né di tutti gli aspetti del suo temperamento. Neppure i suoi documenti hanno tutti lo stesso valore: molti costituiscono soltanto una normale catechesi. Ciò che viene considerato è la sua pietà personale, il suo esercizio delle virtù in modo eroico e il servizio da lui reso alla Chiesa durante il suo pontificato.
Anche se un Papa non può essere certo portato a modello come avviene per i santi «normali» (non si vuole ovviamente suggerire ai fedeli di «diventate tutti Papi santi»), la loro canonizzazione in qualche modo intende rendere solennemente grazie a Dio per i Pontefici insigni anche per santità, nonostante la loro diversità, che egli ha voluto donare alla sua Chiesa nell’ultimo secolo e mezzo. Si intende mostrare al mondo che i santi ci sono ancora, anche al vertice della Chiesa, di cui spesso si denunciano più le colpe dei suoi figli che la santità di molti fedeli, laici, laiche, religiose, ma anche vescovi e addirittura papi[1].
Ma al di là di queste e altre considerazioni che si possono fare a proposito di quanto si intendeva compiere con questa cerimonia, è indubbio che l’avvenimento di domenica 27 aprile è stato una grande festa di popolo e di fede pubblicamente ostentata. La testimonianza popolare infatti è stata imponente e tale da far rivedere l’idea che la religione sia ormai un fatto privato con scarso impatto e significato pubblico.
Come sempre, non va dimenticato il lavoro di quanti si sono prodigati per la preparazione e per la sicurezza della celebrazione: 10.000 uomini delle forze dell’ordine e 26.000 volontari hanno lavorato intensamente per la protezione e il servizio dei pellegrini. Papa Francesco ha voluto ringraziarli pubblicamente al termine della mattinata.
La cerimonia
Anche se la canonizzazione ha avuto il suo culmine nella celebrazione eucaristica, in realtà la zona di Roma situata intorno a San Pietro ha vissuto tre giorni di festa ininterrotta. Qualche tafferuglio c’è stato, ad esempio per la folla che premeva per entrare in piazza, che gli addetti tentavano invano di tenere sgombra, per motivi di sicurezza, fino alle luci dell’alba. Più di 1.600 persone sono state colte da malore e 130 sono state portate in ospedale. Per fortuna, il tempo è stato assai più clemente di quanto i meteorologi avessero previsto. La pioggia annunciata è arrivata solo a cerimonia conclusa. Qualcuno ha commentato che i due santi si erano dati da fare in Cielo per favorire un tempo favorevole. La festa, soprattutto come evento religioso, è durata tutto il sabato della vigilia, con le veglie notturne di preghiera e di raccoglimento che si sono svolte, in varie lingue, in 21 chiese della capitale, la domenica di festa e il lunedì di un gioioso ringraziamento prolungato.
Anche se oggi è possibile seguire una cerimonia di questo genere alla televisione, seduti comodamente in casa propria e con immagini molto più ravvicinate e nitide che non sballottati e pigiati dalla folla, con tempo incerto, circa un milione di persone ha voluto partecipare di persona. La folla ha reso visibile l’anima viva della Chiesa e l’entusiasmo incontenibile di migliaia di persone arrivate da ogni parte del mondo, in una scenografia accuratamente preparata.
In varie altre parti di Roma erano stati montati dei maxischermi sui quali poter seguire la cerimonia. Secondo gli organizzatori, altre 300.000 persone hanno seguito in questo modo l’avvenimento. In particolare circa 30.000 polacchi si sono ritrovati in piazza Navona (e nella chiesa di Sant’Agnese in Agone), dove, oltre alle immagini, veniva trasmesso anche un commento in lingua polacca per aiutare i connazionali di Papa Wojtyła a seguire il rito.
Sulla facciata di San Pietro campeggiavano gli arazzi con le immagini dei due Pontefici che hanno, rispettivamente, aperto una nuova primavera della Chiesa e portato il messaggio del Vangelo rinnovato dal Concilio in ogni parte del mondo mostrando una Chiesa giovane e capace di rinnovarsi nonostante l’usura dei secoli.
Pare che circa due miliardi di persone si siano collegate in tutto il mondo con piazza San Pietro, grazie alle tecnologie delle moderne comunicazioni. Presenti 98 delegazioni ufficiali, cominciando da quella italiana, guidata dal presidente Giorgio Napolitano, e da quella della Polonia, guidata dal presidente Bronisław Komorowski; molti reali, 24 capi di Stato e 10 capi di Governo, a rappresentare 22 Paesi, nonché molti ministri degli Esteri con numerosi diplomatici. In un apposito reparto avevano preso posto i rappresentanti di altre religioni, Chiesa e Confessioni cristiane. Notevole in particolare la presenza di numerosi esponenti dell’ebraismo, memori e grati per i passi avanti nel dialogo tra cristiani ed ebrei compiuti durante il pontificato dei due Papi neo-santi. Erano presenti anche i presidenti di alcune organizzazioni internazionali e i membri del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede. Ovviamente era presente al completo il governo centrale della Chiesa, in particolare la Segreteria di Stato e tutti i capi dicastero.
La celebrazione si è svolta con un rito sobrio e di intensa partecipazione, come è usuale per Papa Francesco, tanto cordiale e gioioso nel contatto personale quanto serio nelle celebrazioni. Hanno concelebrato 150 cardinali, fra i quali il decano Angelo Sodano e il segretario di Stato Pietro Parolin e l’arcivescovo di Cracovia, Stanisław Dziwisz, che è stato per circa 40 anni segretario particolare di Giovanni Paolo II; inoltre 700 arcivescovi e vescovi, tra i quali mons. Francesco Beschi, vescovo di Bergamo (la diocesi natale di Giovanni XXIII); e circa 6.000 sacerdoti. Un grande applauso ha accolto l’apparizione sui maxischermi delle prime immagini di Benedetto XVI, seduto al primo dei posti riservati ai cardinali, anche se assai pochi hanno potuto ascoltare i ripetuti «grazie» che Papa Francesco ha rivolto al Papa emerito al termine della celebrazione, dopo averlo affettuosamente abbracciato all’inizio.
Al momento della canonizzazione il prefetto della Congregazione delle cause dei Santi, card. Angelo Amato, è salito alla cattedra, accompagnato dai due postulatori, padre Giovangiuseppe Califano, francescano (per Giovanni XXIII) e mons. Sławomir Oder (per Giovanni Paolo II), e ha chiesto a Papa Francesco, secondo le formule rituali, di proclamare la santità dei due Papi. La formula di rito pronunciata in latino dal Papa (beatos Ioannem XXIII et Ioannem Paulum II sanctos esse decernimus et definimus) è stata accolta con un grande applauso, come un segnale liberatorio per l’entusiasmo della folla, quasi a compenso per i lunghi viaggi affrontati e per la notte insonne trascorsa da buona parte dei presenti.
È seguita una processione con le reliquie dei due nuovi santi, portate rispettivamente dai parenti di Papa Roncalli e dalla miracolata di Papa Wojtyła. Il canto del Gloria e la proclamazione del Vangelo hanno segnato la continuazione della celebrazione della Messa, durante la quale i circa 300 membri dei cori hanno accompagnato il rito. Alla Comunione, oltre 800 tra sacerdoti e diaconi hanno distribuito l’Eucaristia alla folla. Al termine della cerimonia Papa Francesco ha ringraziato quanti avevano collaborato alla riuscita della celebrazione, e ha poi salutato i vari membri delle delegazioni ufficiali.
Il rientro in Vaticano della jeep (sulla quale, ai piedi del sagrato, è salito per qualche minuto anche il sindaco di Roma, Ignazio Marino, per salutare il Papa) è stato accompagnato dall’entusiasmo popolare, molto caloroso e certamente più vivace e meno composto di quanto la solennità del rito aveva prima consentito. Il Papa ha idealmente abbracciato, come è sua consuetudine, tutta la folla assiepata lungo il percorso, che per la prima volta è stato allungato sino a Castel Sant’Angelo. La folla lo ha salutato in tutti i modi e in tutte le lingue, consegnandogli innumerevoli bandiere, maglie, berretti e altri simboli, nonché bambini da abbracciare ecc.
La folla si è attardata ancora alcune ore prima di cominciare a defluire dalla zona, mentre alcune migliaia si mettevano in fila per pregare sulla tomba dei due Papi appena dichiarati santi.
L’omelia di Papa Francesco
Durante la solenne celebrazione, Papa Francesco ha rivolto al milione di fedeli assiepati in piazza San Pietro e in via della Conciliazione una breve omelia nella quale ha ricordato le letture della domenica, la seconda di Pasqua, dedicata da Giovanni Paolo II alla Divina Misericordia. Ha commentato in particolare il Vangelo, con il racconto dell’apparizione di Gesù agli apostoli e all’incredulo san Tommaso, quasi amorevolmente obbligato da Gesù a mettere le mani nelle sue piaghe per «toccare con mano» la verità della sua risurrezione. Sfida di Gesù, che si piega alla richiesta di Tommaso e a cui l’apostolo risponde con una delle più belle dichiarazioni di fede di tutto il Vangelo: «Mio Signore e mio Dio!». «Le piaghe di Gesù sono scandalo per la fede, ma sono anche la verifica della fede. Per questo nel corpo di Cristo risorto le piaghe non scompaiono, rimangono, perché quelle piaghe sono il segno permanente dell’amore di Dio per noi, e sono indispensabili per credere in Dio. Non per credere che Dio esiste, ma per credere che Dio è amore, misericordia, fedeltà»[2]. «San Giovanni XXIII e san Giovanni Paolo II hanno avuto il coraggio di guardare le ferite di Gesù […]. Non hanno avuto vergogna della carne di Cristo, non si sono scandalizzati di lui, della sua croce; non hanno avuto vergogna della carne del fratello (cfr Is 58,7), perché in ogni persona sofferente vedevano Gesù. Sono stati due uomini coraggiosi, pieni della parresia dello Spirito Santo, e hanno dato testimonianza alla Chiesa e al mondo della bontà di Dio, della sua misericordia. Sono stati sacerdoti, e vescovi e papi del XX secolo. Ne hanno conosciuto le tragedie, ma non ne sono stati sopraffatti».
«In questi due uomini contemplativi delle piaghe di Cristo e testimoni della sua misericordia dimorava “una speranza viva”, insieme con una “gioia indicibile e gloriosa” (1 Pt 1,3.8). La speranza e la gioia che Cristo risorto dà ai suoi discepoli, e delle quali nulla e nessuno può privarli. La speranza e la gioia pasquali, passate attraverso il crogiolo della spoliazione, dello svuotamento, della vicinanza ai peccatori fino all’estremo, fino all’amarezza di quel calice. […] Questa speranza e questa gioia si respiravano nella prima comunità dei credenti a Gerusalemme, di cui parlano gli Atti degli Apostoli, che abbiamo ascoltato nella seconda lettura. È una comunità in cui si vive l’essenziale del Vangelo, vale a dire l’amore, la misericordia, in semplicità e fraternità. E questa è l’immagine di Chiesa che il Concilio Vaticano II ha tenuto davanti a sé. Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II hanno collaborato con lo Spirito Santo per ripristinare e aggiornare la Chiesa secondo la sua fisionomia originaria, la fisionomia che le hanno dato i santi nel corso dei secoli. Non dimentichiamo che sono proprio i santi che mandano avanti e fanno crescere la Chiesa. Nella convocazione del Concilio san Giovanni XXIII ha dimostrato una delicata docilità allo Spirito Santo, si è lasciato condurre ed è stato per la Chiesa un pastore, una guida-guidata, guidata dallo Spirito Santo: per questo a me piace pensarlo come il Papa della docilità allo Spirito Santo». «San Giovanni Paolo II è stato il Papa della famiglia. Così lui stesso, una volta, disse che avrebbe voluto essere ricordato, come il Papa della famiglia. Mi piace sottolinearlo mentre stiamo vivendo un cammino sinodale sulla famiglia e con le famiglie, un cammino che sicuramente dal Cielo lui accompagna e sostiene».
Il Papa ha concluso l’omelia con un rinnovato invito «ad addentrarci nel mistero della misericordia divina, che sempre spera, sempre perdona, perché sempre ama». Un tema, questo, tipico di questa domenica, ma anche molto caro a Papa Francesco sin dai suoi primi interventi.
Allargando lo sguardo al di fuori di piazza San Pietro
Per dovere di cronaca è bene aggiungere che la canonizzazione dei due Papi, oltre a essere stata seguita per radio e in televisione, è stata celebrata e seguita in contemporanea anche in altre parti del mondo. In particolare a Wadowice e a Sotto il Monte, che hanno dato i natali ai due protagonisti. A Sotto il Monte circa 5.000 fedeli, in buona parte bergamaschi, hanno seguito sui maxischermi la diretta televisiva, accogliendo con grandi applausi e lacrime di commozione l’annuncio della canonizzazione. La campane hanno suonato a festa. Ma 5.000 dei suoi abitanti erano andati a Roma per la celebrazione.
A Wadowice varie migliaia di pellegrini, arrivati un po’ da tutta la Polonia, hanno partecipato alla Messa celebrata all’aperto davanti alla chiesa parrocchiale dove Karol Wojtyła venne battezzato, e hanno poi seguito su un maxischermo la diretta da piazza San Pietro. Erano presenti anche numerosi pellegrini venuti appositamente dall’Italia quasi per ricambiare il viaggio di migliaia di polacchi a Roma e testimoniare la popolarità di Giovanni Paolo II e la devozione per lui anche nel nostro Paese. A Wadowice, del resto, era stata appena riaperta, dopo lavori di ristrutturazione, la casa di Wojtyła, trasformata in museo. Pure a Cracovia la celebrazione è stata seguita in diretta da migliaia di persone riunitesi per l’occasione.
Altre riunioni, già programmate per altri motivi, si sono trasformate in celebrazioni per la canonizzazione, come un incontro di oltre 30.000 giovani croati riuniti a Dubrovnik per un raduno tradizionale e che è coinciso con questa occasione, anche per ricordare la visita di Giovanni Paolo II a questa città nel 2003.
In America Latina, ripetutamente visitata da Papa Wojtyła, sono state numerose le celebrazioni e i pellegrinaggi in contemporanea, come a Buenos Aires, con una solenne Messa in cattedrale. A Città del Messico la Messa nella basilica di Guadalupe è stata presieduta dal nunzio apostolico in Messico.
Il giorno seguente, come di consueto, sono state celebrate varie Messe di ringraziamento. In particolare ricordiamo quella in piazza San Pietro, presieduta dal card. Angelo Comastri, arciprete della basilica vaticana, alla quale hanno partecipato migliaia di fedeli, soprattutto polacchi, e quella nella chiesa romana dei Santi Ambrogio e Carlo al Corso, dove Angelo Roncalli venne ordinato vescovo nel 1925, presieduta dal card. Dionigi Tettamanzi, arcivescovo emerito di Milano.
Qualche riflessione
Questa canonizzazione è stata certamente diversa dalle altre, cui pure la gente si è abituata, specialmente dopo che Giovanni Paolo II, desideroso di mostrare la santità presente nella Chiesa e di offrire modelli o meglio testimoni concreti di santità, impresse un’accelerazione alle cause dei beati e dei santi, moltiplicandone il numero.
Si è trattato di due Papi particolarmente amati, simbolo di un’epoca e della capacità della Chiesa del nostro tempo di essere segno di speranza. Uno, il pastore buono che aprì le finestre di una Chiesa che avvertiva il logorio del tempo, affinché vi entrasse l’aria fresca dello Spirito Santo, capace di rinnovarne lo stile. L’altro, un lottatore intrepido che, portando avanti l’eredità di Giovanni XXIII, volle mostrare al mondo che la Chiesa, nello smarrimento di tante persone e nella lotta delle ideologie, era ancora una luce nelle tenebre capace di portare speranza e di accompagnare efficacemente l’umanità nel cammino. In certo modo il Concilio voluto da Roncalli è stato diffuso nel mondo da Wojtyła con un indomabile spirito missionario. Ma per ambedue questa testimonianza era accompagnata da un profondo spirito di preghiera, da un’austerità di vita personale (Papa Roncalli lasciò solo 10.000 lire ai propri fratelli) e da un abbandono all’azione del Dio della storia.
Ambedue sono diventati simboli di cose che vanno ben al di là della loro persona. Papa Roncalli si adoperò per la pace nel mondo. Papa Wojtyła ha vissuto anche la fine del blocco dei Paesi del socialismo reale (e ne ha probabilmente accelerato la fine, contribuendo a far sì che il passaggio alla democrazia avvenisse senza spargimento di sangue). Con lui, e con la fine di altri messianismi che si sono rivelati illusori, la Chiesa è rimasta voce autorevole a livello mondiale che parla in difesa dei poveri e degli esclusi e denuncia i risvolti disumani del capitalismo selvaggio. Questi sono elementi che forse molti non hanno tematizzato, ma che sono stati avvertiti dalle folle, che non contestano lo strepitoso progresso umano degli ultimi decenni, ma vorrebbero esserne partecipi sia per goderne i frutti sia per essere in qualche modo protagoniste.
Ma soprattutto sono due Papi che hanno simboleggiato la ricerca della pace, nel senso più vero della parola: Papa Roncalli pubblicò la Pacem in terris, di cui pure l’anno scorso ricorreva il 50° anno, e si adoperò attivamente al tempo della crisi dei missili cubani, e Papa Wojtyła non ha mai esitato a recarsi personalmente (quando gli è stato concesso) nei luoghi in cui la pace sembrava più minacciata. Ambedue hanno difeso una concezione della pace come sviluppo integrale della persona, realizzata in un cammino dell’umanità in cui il fedele possa riconoscere anche il piano di Dio, con dei lineamenti che rendano più visibile sulla terra, anche se sempre incompleto, il regno di Dio.
Copyright © La Civiltà Cattolica 2014
Riproduzione riservata
***
[1]. Cfr, a questo proposito, G. Sale, «Giovanni XXIII e la santità del Papa nel Novecento», in Civ. Catt. 2014 II 130-142.
[2]. Testo in Oss. Rom., 28-29 aprile 2014, 8.