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Per quanti hanno conosciuto Rosario Livatino, il 21 settembre 2011 costituisce un giorno memorabile. Proprio il 21 settembre di ventuno anni fa quel giovanissimo magistrato moriva per mano della mafia, entrando nel novero di quegli uomini — magistrati e non solo — che, noncuranti del pericolo e fino al sacrificio estremo, combatterono in uno dei periodi più drammatici della lotta alla mafia. In quel lontano giorno egli veniva barbaramente assassinato, ma il 21 settembre 2011 è diventato il giorno della rinascita e della vittoria. Come preannunciato già nel mese di luglio, questo giorno ha segnato l’apertura della causa di beatificazione di Livatino.
La notizia della firma — da parte di mons. Montenegro, arcivescovo di Agrigento — del decreto di avvio del processo di beatificazione offre una straordinaria opportunità per approfondire la figura di questo giovane giudice che, ucciso alla soglia dei 38 anni, costituisce un luminoso esempio di compenetrazione tra il proprio credo religioso e le altrettanto solide convinzioni in tema di diritto e amministrazione della giustizia. E se la morte prematura, avvenuta in modo così terribile, è legata proprio al suo impegno, ciò esige un’attenta analisi di una condotta e di un pensiero che suscitano significative riflessioni. Sembra infatti quanto mai opportuno oggi soffermarsi su chi non soltanto mostrò concretamente una profonda consapevolezza del proprio ruolo di amministratore della giustizia, ma seppe qualificare il proprio operato alla luce del proprio credo religioso.
A partire da un breve excursus biografico, passando quindi per l’analisi degli unici due interventi pubblici tenuti dal giovane magistrato, il nostro intento è soprattutto quello di presentare un esempio di come fondere insieme, nel vissuto quotidiano, coscienza civica e fede religiosa.
Storia di un «giudice ragazzino»
Quella di Rosario Livatino appare fin dall’inizio, sotto il profilo dell’impegno e della dedizione, una vita predestinata. Nato a Canicattì nel 1952, egli già da piccolo manifesta una predisposizione allo studio e all’approfondimento; negli anni del liceo, in particolare, compagni e professori lo descrivono come un giovane schivo ma sempre cordiale, dedito allo studio e poco influenzato dal clima politico di quel periodo (anni Settanta).
Laureatosi cum laude in Giurisprudenza a soli 22 anni presso l’università di Palermo, dopo una breve parentesi, tra il 1977 e il 1978, presso l’Ufficio del Registro di Agrigento — dove ricopre l’incarico di vicedirettore in prova —, supera brillantemente il concorso in magistratura, lavorando a Caltanissetta quale uditore giudiziario, per poi passare al tribunale di Agrigento, dove rimane per oltre un decennio come sostituto procuratore.
La vita di Rosario Livatino si snoda dunque sull’asse Canicattì-Agrigento, ossia: il luogo della famiglia, del riposo e della quiete, e il luogo dell’impegno e della lotta alla criminalità. Nelle stanze del tribunale Rosario si distingue per la sua discrezione, ma al tempo stesso per l’estrema precisione e puntualità del suo lavoro: una dedizione assoluta ed essenziale, come semplice e, per certi versi, monastico appare il suo stesso ufficio. Negli anni successivi il giovane sostituto procuratore si occupa di delicate indagini antimafia, di criminalità comune, ma anche di importanti inchieste di quel periodo: è proprio lui, assieme ai suoi colleghi, a interrogare un ministro dello Stato, strano destino per un giovane così riservato e lontano dai riflettori e dall’occhio sempre curioso di stampa e media.
In questi anni Livatino non soltanto matura in termini di esperienza professionale, ma definisce sempre più le proprie convinzioni sul ruolo del magistrato: una funzione che va svolta con la più assoluta integrità e trasparenza, evitando tutti quegli sconfinamenti o quei collegamenti che ne possano in qualche modo inficiare l’azione e ancor più la credibilità. Sono anni duri per la magistratura, non solo a causa dell’offensiva che la mafia lancia nei confronti dello Stato, ma anche per i rapporti tutt’altro che sereni tra politica e magistratura. A finire nell’occhio del ciclone sono spesso i giudici, soprattutto quelli di nuova nomina, definiti appunto «giudici ragazzini».
Nell’agosto del 1989 Rosario Livatino viene nominato giudice a latere presso il tribunale di Agrigento, ma passa poco più di un anno quando, il 21 settembre 1990, alle otto di mattina, lungo la statale 640, la sua auto viene affiancata dai sicari della mafia, che con brutalità ed efferatezza ne concludono prematuramente l’esistenza.
Sotto il profilo della competenza, gli archivi del tribunale sono la migliore testimonianza della profondità e accuratezza con cui Rosario Livatino ha svolto il suo lavoro, ma gli si farebbe un torto se si valutasse il suo esempio soltanto focalizzando l’attenzione sulla sua azione di magistrato. Vero è invece che le considerazioni e le riflessioni che scaturiscono da un’assidua e competente azione professionale costituiscono ancora di più un’opportunità unica per approfondire il rapporto tra impegno professionale e approfondimento intellettuale, umano, morale e, in particolare, religioso.
Come accennato, Livatino non ha mai amato apparire in pubblico: soltanto in due occasioni ha manifestato pubblicamente il proprio pensiero e le proprie convinzioni in merito al ruolo che andava svolgendo. E proprio a questi due contributi intendiamo riferirci, con la volontà di mettere in luce il più fedelmente possibile il pensiero del giovane giudice.
Il giudice e la società
Che quello di magistrato non fosse per Livatino semplicemente un mestiere, lo si evince chiaramente dalle posizioni che egli stesso manifestò in occasione di uno dei suoi rarissimi interventi pubblici.
Nel 1984 gli fu chiesto di tenere una conferenza presso il Rotary Club di Canicattì; il tema da lui scelto fu il ruolo del giudice all’interno di una società che cambia 3. Già la scelta di questo tema da noi oggi può essere considerata profetica, tenendo presenti le tensioni e la criticità che spesso sono ravvisabili nei rapporti, istituzionali e non, tra magistratura e società. Quello che però stupisce in questa relazione è l’estrema lucidità e decisione con cui Livatino espone le proprie considerazioni in merito al corretto svolgimento del ruolo di magistrato e al legame con la società in cui egli opera.
Già in sede di presentazione il giovane magistrato sgombra il quadro da equivoci e omissioni, volendo, nella sua puntuale analisi, toccare i punti più complessi di questo legame: soprattutto i coinvolgimenti e i rapporti tra magistratura e mondo dell’economia, del lavoro e della politica. Per Livatino è anzitutto decisivo liberare il ruolo del magistrato da quell’aura di intangibilità che una tradizione, forse ormai sorpassata, gli ha ritagliato intorno, a cominciare dal modo stesso di relazionarsi con gli specifici strumenti di azione, le norme: «Il nuovo rapporto cercato fra magistrato e norma legislativa comporta infatti necessariamente che anche il primo esca dalla propria torre eburnea di immutabilità, di ibernazione sociale, divenendo attento, sensibile a quanto accanto a lui si crea, si trasforma, si perde».
Livatino coglie qui un aspetto tutt’altro che marginale proprio nella trasformazione, sociale e giuridica, del ruolo del magistrato, ossia nel suo passaggio da funzione indiscussa, quasi sacerdotale, a figura inserita in un contesto nel quale numerosi sono i possibili rischi di interferenze e commistioni. Non può sorprendere allora che egli si soffermi su quelle dinamiche che, in maniera più problematica, possono interferire, o comunque anche solo tangenzialmente intaccare, la sfera di azione del magistrato. Sia che si tratti dei rapporti con il mondo economico e finanziario, sia che si tocchi il difficile rapporto con la politica, Livatino insiste su due punti decisivi: chiarezza e coerenza dei dettati legislativi che il giudice è chiamato ad applicare, ma soprattutto indipendenza, libertà e autonomia del giudice. Ma come si conquista questa indipendenza? Come garantirla? Come bilanciarla con la legittima, anzi importante, esigenza di ogni giudice, come pure di qualsiasi altro cittadino, di sviluppare una coscienza civile e politica?
Qui il giovane magistrato esprime in maniera inequivocabile, quasi appassionata, una posizione di massima fermezza: «Bisognerà proclamare, con assoluta chiarezza, che la norma dell’art. 212 Tulps [Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza], che sancisce l’immediata destituzione per tutti gli impiegati pubblici che appartengano ad associazioni i cui soci sono vincolati dal segreto, si applica anche ai magistrati, che ne sono anzi, logicamente, insieme ai militari, i destinatari più diretti».
Livatino delinea l’immagine di un magistrato scevro da qualsiasi collegamento che ne possa inficiare l’azione; un’immagine che deve coinvolgere non soltanto l’ambito operativo, ma tutta la condotta del magistrato. Non si tratta di presentare alla società una figura austera, quasi lugubre, di servitore dello Stato, ma una figura di magistrato che abbia nella coerenza e nell’equilibrio i suoi fondamenti, senza dimenticare affatto l’aspetto più specifico di ogni persona, l’umanità; così egli apparirà «persona comprensiva e umana, capace di condannare, ma anche di capire».
In questa dialettica tra rigore e coerenza, da un lato, e umanità, dall’altro, Livatino delinea ed espone la sua idea di magistrato, una figura che — egli sostiene — deve assolutamente camminare con la storia e nella società, all’interno della quale non soltanto i giudici ma tutti gli agenti del patto sociale sono chiamati a svolgere la propria opera secondo giustizia.
Fede e giustizia: la sintesi di Rosario Livatino
Nel rigore con cui ha espresso la sua professionalità, nell’integrità manifestata nella sua condotta quotidiana, Rosario Livatino ha però un’arma in più, uno specimen che rende le sue scelte ancora più radicali e coraggiose: la fede cattolica. Rifiutando qualsiasi integralismo, egli ha offerto del ruolo del magistrato un’interpretazione quasi monacale; e questa scelta, così essenziale e scevra da tentazioni egocentriche, si sposa certamente con il carattere timido e riservato del giovane magistrato, ma è anche il frutto di un percorso, personale e professionale, nel quale la fede assume sicuramente una rilevanza fondamentale.
Infatti, le domande del credente si sono spesso incrociate, nella vita e nei pensieri del giovane giudice, con gli interrogativi del funzionario di Stato, giungendo a una sintesi che davvero va riconosciuta e approfondita. In questo senso particolarmente illuminante è l’intervento — secondo contributo pubblico lasciatoci da Livatino — che lo stesso tenne nell’aprile del 1986 nel salone delle religiose vocazioniste a Canicattì, sul tema del rapporto tra fede e diritto: «Il compito dell’operatore del diritto, del magistrato, è quello di decidere: orbene, decidere è scegliere e a volte scegliere fra numerose cose o strade o soluzioni […]. Ed è proprio in questo scegliere […] che il magistrato credente può trovare un rapporto con Dio». Ad un orecchio squisitamente laico queste parole potrebbero apparire come una forzatura, una rischiosa compenetrazione tra giustizia terrena e fede religiosa; in realtà esse rivelano che quella di Livatino è una posizione frutto di una consapevolezza, acquisita in anni di cammino, di quanto la fede possa risultare ausilio — oltre che modus operandi — nell’azione di un magistrato.
In questo stesso intervento, Livatino scende ancora più in profondità, delineando una figura di magistrato contraddistinta da umiltà, umanità e, soprattutto, sensibilità rivolta comunque e sempre alla comprensione dell’uomo. È questo un punto nodale del suo pensiero, che rivela ancora di più il suo tratto di giudice credente: fermezza, decisione nell’amministrazione della giustizia, nel colpire la fattispecie criminosa, ma al tempo stesso attenzione alla persona, attitudine a comprendere. Insomma, una giustizia che sappia, oltre che comminare, perdonare; una giustizia che sappia orientarsi — come lo stesso Livatino dice, richiamando le parole di Giovanni Paolo II — «all’attuazione dell’etica cristiana nella scienza giuridica, nell’attività legislativa, giudiziaria, amministrativa, in tutta la vita pubblica».
Un pensiero che rimanda ad altre posizioni simili: una su tutte quella di don Pino Puglisi che, assieme ai suoi giovani, «avviò una riflessione sul ruolo specifico della Chiesa, cominciando a distinguere tra la mafia, struttura di peccato, e il peccatore, il singolo mafioso. La struttura di peccato — egli sosteneva — va condannata, ma il peccatore deve essere recuperato». In entrambe le esperienze si assume un concetto di giustizia fortemente compenetrato da un profilo riconciliatorio, che non deve assolutamente suonare come una debolezza, ma come momento di profondo discernimento tra ciò che è reato e chi lo commette.
Tutto questo in Rosario Livatino ha assunto una completezza rara, proprio perché la scelta professionale non si è mai disgiunta dalla condotta personale, come dimostrano la sua integrità e il suo rigore nei comportamenti e nelle relazioni interpersonali, come pure il suo coinvolgimento nella vicenda non soltanto tecnica ma anche umana, quale è appunto l’amministrazione della giustizia. La forza della fede è ben ravvisabile in lui, proprio perché, consapevole dei propri limiti di essere umano oltre che di giudice, egli è fortemente convinto del sostegno e della presenza di Dio nello svolgimento delle sue mansioni. Esemplare a questo riguardo è l’aneddoto, ormai noto, relativo a una sigla ritrovata sulla sua agenda nei giorni successivi alla morte: STD, nient’altro che sub tutela Dei. Una semplice ma quanto mai efficace espressione per ricordare sempre come anche nel giudicare e nel rendere giustizia — come in qualsiasi altro lavoro o ruolo — il giudice realizzi sì se stesso, ma soprattutto realizzi il piano di Dio.
È corretto quindi parlare, nel caso di Livatino, di un’interpretazione vocazionale, missionaria del proprio lavoro, in una prospettiva capace di coniugare garanzia del diritto e amministrazione della giustizia con il più puro amore per il prossimo.
La definizione che Giovanni Paolo II, in occasione della famosa visita ad Agrigento il 9 maggio 1993, ha dato di Rosario Livatino come «martire della giustizia e indirettamente della fede» è quanto mai calzante, e non soltanto in relazione alla morte occorsa al giovane siciliano: non si trattò infatti soltanto dell’estremo sacrificio compiutosi quel 21 settembre 1990, ma di una vita intera che si è contraddistinta per la continua ricerca di un’aderenza il più possibile fedele alle indicazioni che la Parola di Dio suscitava nel magistrato credente.
Conclusioni
In sintesi, appare chiaro come per Rosario Livatino si sia trattato sempre di una questione di fede: in Dio, nel diritto, nella giustizia. E benché espressa in un arco di vita così breve, va ancora una volta sottolineata la maturità, religiosa e spirituale, di un magistrato che, oltre alla coraggiosa scelta di operare in prima persona per una società più equa e civile, ha saputo coniugare la propria azione professionale con i propri valori e il proprio credo, qualificando la prima nella prospettiva religiosa che egli aveva abbracciato e profondamente coltivato nel suo intimo.
Il decreto che avvia la causa di beatificazione può ben configurarsi come una legittimazione o, ancor più, una conferma di una «eroicità» — per usare un’accezione laica — che non risiede soltanto nel sacrificio estremo, ma nell’avere, con impegno e coerenza tutt’altro che scevri da fatica, compenetrato insieme scelta vocazionale e impegno civile. Questo è un concreto esempio di risposta assoluta e senza scorciatoie a una chiamata che affonda le sue radici ben al di là di una pura e semplice scelta professionale. Alla chiamata del Padre il figlio Rosario ha risposto non soltanto sotto il profilo più intimo e fideistico, ma anche su un piano umano, civile e sociale. Pertanto, più che la fine, è la vita, la condotta, l’integrità di Rosario Livatino a essere fonte di esempio e di riflessione: esempio per chi esercita una professione così importante e pregna di tante implicazioni, ma anche per quanti, accomunati dalla medesima professione di fede, possano imitare la sua sensibilità e spiritualità nelle scelte che sono chiamati a fare nel quotidiano.