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La letteratura è un fatto umano. Lo scrittore Pier Vittorio Tondelli (1955-91) ha offerto questa lezione con lealtà e coerenza fino ad avvertire i propri scritti, come leggiamo nel suo ultimo romanzo, Camere separate, con gelosia e vergogna: «Sente insomma quel libro, o altri che ha scritto, come il suo corpo spogliato. Non una emanazione di sé, una proiezione, un transfert, ma proprio, realmente, il suo corpo»[1]. Ricorre quest’anno il decennale della morte dello scrittore, avvenuta il 16 dicembre del 1991. In questa occasione, oltre ai vari Convegni organizzati in Italia e all’estero, è da segnalare la pubblicazione della sua opera completa da parte di Bompiani in due grossi volumi inseriti nella collana «Classici»[2].
La nostra rivista si è già occupata sei anni fa di questo scrittore e dunque rinviamo alle pagine di allora per una presentazione articolata della sua opera[3]. Ricordiamo qui brevemente che egli nasce a Correggio (Reggio Emilia) nel 1955. Studia al DAMS di Bologna e nel 1980 pubblica la sua prima opera, Altri libertini, provocando scandalo per le sei storie di giovani narrate in presa diretta in un linguaggio immediato ed emotivo.
Il libro trasuda di tensioni centrifughe e sembra siglare la partenza definitiva dal borgo natìo dell’autore «incontro all’avventuraaaaa!»[4]. Per breve tempo viene ritirato dalle librerie perché accusato di essere «opera luridamente blasfema», che «stimola violentemente i lettori alla depravazione»[5]. Nel 1982 esce Pao Pao, romanzo sulla vita in caserma. Due anni dopo Tondelli scrive la sua unica opera teatrale, Dinner Party, apparsa in libreria soltanto a dieci anni dalla composizione.
Nel 1985 è la volta di Rimini, un romanzo di ampio respiro in cui si intrecciano sei vicende di personaggi «senza qualità», ambientato in una città che diviene «palude bollente di anime», in cui la gente «cuoce e rosola». L’anno seguente pubblica in un’edizione limitata Biglietti agli amici, un libro molto riflessivo e interiore, composto da biglietti dedicati a persone care, identificate con sigle. Nel 1989 esce l’ultimo romanzo, Camere separate, il romanzo dei sentimenti sul filo della memoria, di cui è cifra di comprensione l’esperienza della separazione, dell’abbandono e del desiderio di addomesticare una solitudine ineluttabile[6]. Lo scrittore sapeva già di essere malato di AIDS, la malattia che lo avrebbe portato di lì a poco alla morte.
L’ultimo romanzo è segnato da un risalire alle radici che recupera, in un unico fluire, col senno di poi, infanzia, adolescenza e giovinezza. La «parte emiliana» di Camere separate, quella appunto del ritorno, nella coscienza dell’autore è «molto tenera, molto affettiva, giocata con dei chiaroscuri e anche molto pudore»[7]. In particolare per Leo, il protagonista, che qui è più che mai lo stesso autore, la devozione al «piccolo borgo della bassa padana»[8], cioè Correggio, nel ricordo assume toni religiosi di grande intensità. La sensibilità per il fatto religioso, in particolare, è un motivo di sottofondo, che emerge in vari luoghi della produzione tondelliana, come abbiamo avuto modo di mostrare, e questa si intreccia di frequente e in maniera complessa e critica alla tematica autobiografica dell’omosessualità. Fin qui siamo nel noto.
Un biglietto da «isole senza ritorno»
In una recente giornata di studio dedicata a Tondelli, svoltasi a Reggio Emilia il 22 ottobre 2001, Aldo Tagliaferri, che fu redattore editoriale alla Feltrinelli e uno dei pochissimi veri referenti letterari dello scrittore, ha letto l’ultimo messaggio che ricevette da lui in una cartolina raffigurante le isole Tremiti, speditagli nell’agosto 1991. Tondelli sarebbe morto quattro mesi dopo. Questo messaggio appare di notevole importanza perché contribuisce in maniera decisiva a chiarire non tanto questa o quell’opera, ma la comprensione della letteratura che, alla fine della sua vita, Tondelli aveva maturato. Ecco il messaggio, fino ad oggi inedito[9]: «Tre isole, tre miti. Tutto è perduto, isole comprese. Tra pianti inconsolabili di Diomedee. Isole senza ritorno, isole a perdere, isole perdute. Al centro di ogni arcipelago c’è quasi sempre un’isola ripida arida disabitata, tutt’al più chiazzata di macchie di capperi, chiamata capperaia, capraia, o isola delle capre, ma in realtà, isola del capro espiatorio. Ed è lì che mi troverete abbarbicato, in un abbraccio. Pier».
La cartolina viene spedita all’indirizzo milanese di Aldo Tagliaferri. Essa ha una grande importanza per comprendere l’approdo dell’itinerario di vita e di scrittura di Tondelli, come si diceva, e più di quanto possa apparire a una prima lettura. Il messaggio infatti è il tassello mancante alla comprensione di altri appunti che lo scrittore ha lasciato, presi a matita, all’interno di uno degli ultimi libri che egli lesse, se non proprio l’ultimo: la Traduzione della prima lettera ai Corinti di Giovanni Testori[10], pubblicata nel giugno di quell’anno. Ho ritrovato questi appunti, studiando nella biblioteca privata dello scrittore nel 1996[11]. Essi fino a quel momento erano ignoti sia ai familiari sia al curatore dell’opera. Ad essi ho comunicato prontamente l’avvenuto ritrovamento. In questo testo si leggono note scritte con grafia incerta. Proveremo qui a comparare i testi inediti e a darne un’interpretazione complessiva.
Tondelli scrive di «pianti inconsolabili di Diomedee». Occorre innanzitutto ricordare che le isole dell’arcipelago delle Tremiti erano anticamente denominate Isole di Diomede poiché legate al mito dell’eroe, figlio di Tideo, re di Argo, approdato qui esule dalla guerra di Troia. Diomede, infatti, reduce dalla spedizione achea, ebbe, come Ulisse, un ritorno problematico ma poi a casa non trovò ad attenderlo una moglie (Egialea) fedele. Tutt’altro. Sfuggito alla congiura omicida della consorte e del suo amante, approda alla fine del suo lungo peregrinare nelle isole situate davanti alle coste della Puglia e termina i giorni sull’Isola che sarà resa famosa dal suo sepolcro. Le diomedee, a cui si fa riferimento (di cui la più nota è l’albatros), sono uccelli appartenenti alla famiglia delle procellarie, che di notte producono un suono simile a un lamento o al vagito di un bimbo. La leggenda popolare ha interpretato questi uccelli come l’incarnazione dei guerrieri di Diomede, compagni di sventura dell’eroe greco. L’isola Capraia prende il nome dai capperi di cui è ricca. È boscosa, rocciosa, dirupata lungo la costa, pianeggiante sulla sommità e disabitata.
Tondelli come Diomede
Il contesto è chiaro. Le Tremiti offrono a Tondelli un’immagine di sé di impressionante chiarezza. Sono lo specchio di un tragitto, di un itinerario. Il suo viaggio non è stato, come forse aveva immaginato, quello di Ulisse. Fino a quel momento lo aveva mosso un movimento centrifugo verso un «assoluto avventuroso»[12], che poi si era trasfigurato in un «lento ritorno a casa»[13], già avviato in maniera cosciente da alcuni anni. Ma alla fine Tondelli comprende che questo ritorno, in realtà, è impossibile. Non c’è passato che tenga, non c’è radice che possa essere recuperata. Resta, adesso sì, l’abbandono. Il mito della fuga e quello del ritorno non funzionano. È il mito stesso a non «funzionare» più.
Le isole sono il vero specchio dell’anima: «Isole senza ritorno, isole a perdere, isole perdute». Tondelli non è Ulisse. Lo scopre adesso. Non lo può essere più. Scopre di essere Diomede, l’eroe dall’impossibile ritorno, l’eroe della separazione, della perdita e dell’abbandono. Tondelli si guarda allo specchio e vede Diomede. Ma, secondo il mito, l’eroe, dopo la sua scomparsa, viene divinizzato da Atena. E Tondelli — si è chiesto lo stesso Tagliaferri — aveva «speranza di fama imperitura e glorificazione analoghe alla divinizzazione dell’eroe»[14]? Lo scrittore ha provato l’ebbrezza della divinizzazione? Sì, possiamo rispondere con certezza. Come? Mediante la scrittura, datrice di speranza di sopravvivenza, di fama. La letteratura salva, dunque? È capace di salvare le sorti umane?
Soltanto pochi giorni dopo aver scritto questo biglietto Tondelli prende in mano la Traduzione paolina di Testori e su quelle pagine, nella notte tra il 7 e l’8 settembre, annota questo appunto a matita: «Tutta questa ricerca del passato, questo ossessivo andare all’indietro e ricordare particolari apparentemente insignificanti, questa felicità anche del ricordo, se è servita a alleviare il senso di colpa e di nuovo a capire le ragioni della vita ora, improvvisamente, parlando con G. non basta più, ora è un intoppo, una stupidaggine. È vero. Io ho sempre pensato che la scrittura avrebbe potuto, magari in anni e col lavoro, “salvare” la storia miserrima […] (la mia) in un canto epico [l’espressione «canto epico» è sottolineata]… (un epos). E forse ci sarei riuscito […]. Ma non sarà così. La letteratura non salva, mai tantomeno l’innocente. L’unica cosa che salva è la fede [ma qui Tondelli ha un ripensamento e tra l’articolo e il sostantivo inserisce in maiuscolo la parola] Amore e la ricaduta della Grazia che [è] come il temporale»[15].
Queste parole appaiono di forza dirompente[16]. L’appunto tondelliano ricorda drammaticamente gli ultimi versi di Clemente Rebora: Lungi da me la scappatoia dell’arte/ per fuggir la stretta via che salva! Ma soprattutto ricorda (anzi, quasi sembra citare a memoria) le parole di Jean Cocteau a Jacques Maritain: «La letteratura è impossibile, bisogna uscirne, ed è inutile cercare di tirarsene fuori con la letteratura perché solo l’amore e la Fede ci consentono di uscire da noi stessi»[17]. La letteratura non salva più niente perché la trasfigurazione della realtà in epos è segnata da un limite radicale. Tondelli, proiettando la propria esperienza di scrittore in un orizzonte di senso, vede che l’epos stesso è impotente, cioè non inutile, ma debole, servo della vita e non assoluto.
Notiamo anche la provvisorietà dell’appunto, rivelata dall’uso di puntini di sospensione e parentesi tonde, insolita per semplici note diaristiche di carattere prettamente personale. È come se Tondelli avesse in mente qualcosa che vuol buttar giù in due righe per poi tornarci su con maggior calma. Queste parole, pur nella loro provvisorietà, assumono il loro vero significato solamente alla luce del messaggio a Tagliaferri. Cerchiamo di comprendere meglio.
«La letteratura non salva»
Che cosa accade in Tondelli? A distanza di pochi giorni la coscienza si chiarifica. Nessuna divinizzazione è possibile. Diomede resta nella sua «camera separata», privo di quella divinizzazione che avrebbe potuto «salvare» la sua storia. La letteratura non salva. Tanto meno l’«innocente» Tondelli, che, come Diomede, era stato vittima, in qualche modo, degli eventi, scagliato via dalla propria casa con la percezione di un impossibile ricongiungimento. Il canto epico è soltanto una filastrocca inutile, ormai. All’ultimo appunto citato possiamo accostare alcuni versi che risalgono ai primi anni Settanta, che ho trovato segnati nelle pagine della Bibbia, quella che Tondelli usava da ragazzo nei campeggi parrocchiali: Ti svegli un mattino/ con la nausea nei polmoni/ e la bocca così amara/ perché tanto hai parlato/ e i tuoi occhi l’hanno vista…/ la felicità, ma ora è giorno/ e delle ore di stanotte/ non sai che fare, sì/ delle filosofie e senti/ un gran vuoto nella testa. Anche adesso Tondelli ripete il suo «non sai che farne…», questa volta indirizzato al «canto epico»[18].
La notte seguente, tra l’8 e il 9 settembre, Tondelli ancor più lucidamente annota: «h. 4,15 quello che il destino mi ha poi riservato non è stato tanto, come avrei creduto, un percorso o, forse una evoluzione verso l’assoluto della scrittura e della finzione più alta [l’espressione “finzione più alta” è cancellata e sostituita con] letteratura, quanto un ritorno rovente al mondo del mio primo libro al punto da dividere, coerentemente alla mia natura di scrittore, di quelli che hanno in sostanza solo dei personaggi, la stessa purtroppo vera e ora sì reale, vissuta, sorte tanatologica». Tondelli, alla fine della propria vita, ancora riconoscendosi nelle pagine del suo primo libro di giovani «belli e dannati», compie un «ritorno rovente» a quel mondo, condividendo in maniera «purtroppo vera e ora sì reale, vissuta», la stessa sorte estrema dei suoi personaggi. Questo appunto, che sembra citare le Notes toward a supreme fiction di Wallace Stevens, rivela, più di ogni altra considerazione, quale fosse il senso del primo libro di Tondelli[19]. Gli «altri libertini» del primo libro non sono «altri Ulisse», ma «altri Diomede». Adesso tutto è chiaro. Camere separate e Altri libertini sono, in certo senso, le due parti di uno stesso libro. Alla fine non c’è la letteratura intesa come «finzione», ma il vissuto bruciante. È come se si chiudesse una parabola: è da qui che bisogna partire per avventurarsi nell’opera tondelliana e comprenderla dal punto di vista della sorte umana, del significato vitale.
Il «capro espiatorio» e il «patto della redenzione»
Qualche giorno dopo, il 14 settembre, giorno del suo compleanno, Tondelli scrive in uno spazio bianco alla fine del terzo capitolo della Traduzione testoriana: «Oggi 14 settembre 91 giorno del mio 36° compleanno ho provato l’umiliazione della croce e della madre dell’innocente. La vergogna. Voglio stare chiuso in questa stanza e non uscirne… È una giornata di festa e di Gloria per la Chiesa, la gloria del patto di redenzione. […]». Il senso tragico e ustionante degli appunti non deve condurre a una lettura moralistica, che non renderebbe ragione al senso di queste parole da accostare con estremo rispetto. L’espressione «madre dell’innocente» ricorda lo «strazio del silenzio della madre ai piedi della croce»[20] di cui leggiamo in Camere separate. Torniamo al messaggio a Tagliaferri. Lì avevamo letto queste parole: «Al centro di ogni arcipelago c’è quasi sempre un’isola ripida arida disabitata, tutt’al più chiazzata di macchie di capperi, chiamata capperaia, capraia, o isola delle capre, ma in realtà, isola del capro espiatorio». I due appunti si illuminano reciprocamente: da una parte l’immagine del capro espiatorio e dall’altra quella della croce.
A guardar bene in Camere separate abbiamo esattamente lo stesso passaggio, collocato durante la processione del Cristo morto del Venerdì Santo che si tiene annualmente a Correggio[21]: dal percepirsi capro espiatorio a una sorta di identificazione con la croce di Cristo. Leo, il protagonista, innanzitutto fa memoria di quando da adolescente viveva la processione, portando sulle sue spalle il peso di una «statua issata su un trono di legno massiccio». Nel ricordo il Leo adolescente è descritto esattamente come un capro espiatorio. La sua autocoscienza lo conduce a ricordare che in realtà egli non ha mai portato la statua del Cristo morto, cosa riservata soltanto a chi era già adulto. Ma soltanto una statua minore. Come il capro espiatorio, Leo sente di essere stato, in fondo da sempre, separato dal suo gruppo umano.
Ma la storia non finisce qui. Leo adesso invece sente non di portare addosso la statua del Cristo morto, ma di essere quel Cristo lì. A «quella cartapesta iperrealista, a quel Cristo Morto, con le ferite sanguinanti, la corona di spine, i buchi dei chiodi, il costato lacerato»[22], si sovrappone infatti «l’immagine di un’altra persona al cui funerale lui, ormai senza più parole, sta assistendo. Poiché quello che il paese ha portato in processione e ha deposto ai piedi dell’altar maggiore non è il simulacro di un corpo divino, ma il corpo morto di Leo, di quel bambino che non è mai cambiato e che è soltanto mutato, giorno dopo giorno, sfogliandosi da sé come un fiore»[23]. In sottofondo il Parasti Crucem, gli «Improperi» dell’Asioli che da duecento anni vengono cantati in quella occasione. Ma soprattutto il «passaggio di flauto che a lui mette i brividi»[24] del Miserere.
I termini usati per descrivere il sentimento della situazione sono poi gli stessi dell’appunto, cioè umiliazione e vergogna: «si sentì profondamente umiliato» e «ancora una volta prova l’unico vero sentimento che può conoscere davanti a quella folla: la vergogna». Più precisamente la vergogna di cui parla Tondelli nel suo appunto è qualcosa di più radicale ed esistenziale: «la vergogna di essere carne», come si legge in Camere separate. Riguarda infatti l’aspetto «carnale» della vita che implica dolore, violenza, fragilità, limite, «finitezza e separatezza»[25]: la carne è, biblicamente, ciò che c’è di fragile, debole e perituro nell’uomo[26]. «Ciò che è duro e forte è servo della morte; ciò che è tenero e debole è servo della vita»[27], aveva scritto Tondelli in Biglietti agli amici. Restano nell’appunto citato la «festa», la «Grazia» e «la gloria del patto di redenzione», che è una splendida espressione per dire la forza salvifica della croce di Cristo.
Riprendiamo, a questo punto, il messaggio indirizzato a Tagliaferri: se le isole Tremiti sono immagine speculare dello scrittore, l’«isola del capro espiatorio» lo è a maggior ragione, dopo ciò che abbiamo mostrato. Letto alla luce di Camere separate da una parte e dell’appunto del 14 settembre dall’altra, il messaggio compone un quadro tanto coerente quanto intenso. Più avanti, sempre nei suoi appunti a matita segnati nella Traduzione, ne abbiamo una conferma: «Così arriverò alla Messa in Dies Natalis, quella a cui dentro o fuori la basilica dei Santi Quirino e Michele parteciperà il mio corpo scarnificato. Da una parte mi piacerebbe la sontuosità, che il feretro venisse portato a mano fin davanti alla scalinata e adagiato in terra e tutto il Credo della Messa di S. Cecilia di Gounod, con i tromboni, i timpani, i piatti… o all’opposto il Miserere degli improperi dell’Asioli che mi sono sempre piaciuti».
Tondelli immagina il proprio funerale nei termini della processione correggese del Venerdì Santo. Esso è definito messa del Dies Natalis, espressione che è tradizionalmente usata dalla Chiesa per indicare il giorno della morte e della «nascita al cielo». La musica è la stessa: il Miserere, gli «Improperi» dell’Asioli. A questo punto in Camere separate si fa largo il pensiero del Natale, ma è avvertito soltanto come una pallida promessa perché il «mistero dell’incarnazione è nel Venerdì Santo: la passione, la sopraffazione del debole, la violenza, la vergogna di essere carne»[28]. Colpisce dunque che anche nel suo appunto Tondelli rievochi il termine «giorno natale», questa volta come riconciliato, per il giorno dei suoi funerali.
Resta l’ultima immagine del messaggio a Tagliaferri: «Ed è lì che mi troverete abbarbicato, in un abbraccio», cioè nelle Tremiti, nelle isole «senza ritorno, isole a perdere, isole perdute», anzi, più precisamente, nell’isola del capro espiatorio. Il verbo «abbarbicare» è proprio delle piante che si attaccano con forza a un luogo, mettendo radici. Tondelli si trova in un luogo di non ritorno. Sa di dover piantar radici in questa condizione. Anni prima in Pao Pao lo scrittore si era sentito come una piccola bacca appena recisa, ancora gocciolante di umori: «Non so se il mio destino sarà rifiorire e trapiantarmi come sempre su altre storie e altri incroci e di là di nuovo ripartire e splendere e mischiarmi e intrecciarmi, oppure seccarmi e morire e dio mio finire e non conoscere più quelle riproduzioni e quei riciclaggi di me che mi facevano star bene e dirmi son contento, in fondo basta che abbia qualcuno da amare, basta un territorio di diffusione d’affetto e sarò sempre salvo»[29]. Anche se adesso la terra è arida e brulla, semmai coperta da qualche macchia di capperi, e non vi sono visibili territori di affetto, Tondelli vi è abbarbicato in un abbraccio che sembra comprendere affettivamente la sua esistenza con le sue radici e i suoi abbandoni. Tutta intera.
Una ipotesi critica su «Sante Messe»
Basta aver notato il legame forte tra i suoi ultimi appunti e l’opera pubblicata a evitare l’obiezione secondo la quale si tratterebbe di materiali meramente extra-letterari. Non è così. È chiara la coerenza di questi ultimi con i temi della sua produzione letteraria. Ne sono anzi una riscrittura. Fanno anche comprendere quanto radicalmente lontano da una forma di travestimento sia Camere separate. Il messaggio a Tagliaferri, poi, per lo stile e il significato è assimilabile agli altri Biglietti agli amici. Esso è palesemente letterario nella forma e negli echi classico-mitologici. E non stupisce che Tondelli l’abbia inviato proprio a Tagliaferri, visto che nel primo biglietto, quello pubblicato cioè, già aveva scritto: «In realtà fugge per ricapitolarsi. Bisogno di silenzi, di solitudine, di ricordare. […] L’interiorità…»[30].
Ma possiamo anche andare oltre. Qual è la vera natura di questi appunti? Alcuni indizi (la ricerca formale; il carattere di abbozzo con l’uso di parentesi e puntini di sospensione che sembra alludere alla previsione di una stesura successiva; una sigla, cioè «G.», che, come in Biglietti, copre il nome, cosa del tutto inutile in appunti privati; la rielaborazione di materiali narrativi; l’esperienza personale che emerge prepotentemente tra le righe di una prosa poetica…) ci fanno pensare che questi non fossero soltanto appunti diaristici, note intime e personali non destinate, nella loro stesura finale, a un pubblico, ma anche, almeno in parte, un primo stadio di elaborazione di qualcosa di diverso.
In effetti Tondelli, nell’ottobre del 1991, aveva deciso di provare a scrivere un libro simile a Biglietti agli amici, in cui avrebbe descritto le messe a cui aveva partecipato di recente. Il titolo sarebbe stato Sante Messe e avrebbe dovuto chiudersi «con la messa ultima, quella in cui voi accompagnerete le mie spoglie»[31]. Tra gli appunti citati, lo abbiamo notato, ce n’è uno proprio dedicato a quest’ultima messa. In Sante Messe essa viene identificata come «Messa del Dies natalis»[32], esattamente come negli appunti. In essi si parla anche di «Via della Croce» e abbiamo anche notato lì la presenza di questa «via». Resta anche traccia dei suoi interessi per il buddismo e l’ebraismo. Per quest’ultimo adesso prova una simpatia fondamentale legata, significativamente, all’esperienza dell’esilio. Scrive: «Prima mi interessavano soprattutto i rapporti fra cristianesimo e Oriente, ora sempre di più con l’ebraismo»[33]. Tondelli conosceva bene i redattori della rivista di dialogo ebraico-cristiano Qol, nata nella sua terra e guidata da alcuni suoi amici, quali Brunetto Salvarani. Negli appunti fa seguire una piccola bibliografia tratta da questa rivista e un’indicazione preziosa, che potrebbe essere il senso della sua ricerca: «I miei territori d’esilio»[34]. Il legame tra il tema dell’esilio e l’immagine del «capro espiatorio» che emerge sia nel biglietto a Tagliaferri sia negli appunti sulla Traduzione testoriana appare chiaro. La tematica dell’abbandono e della separazione, così centrale nell’ultima parte dell’opera di Tondelli, avrebbe preso il volto dell’esilio biblico.
A questo punto possiamo ipotizzare quale sia la natura degli appunti annotati sulla Traduzione testoriana. Essi sono o il primo abbozzo di un progetto chiaro, cioè Sante Messe, o — se vogliamo essere più prudenti — alcune note sparse, che poi hanno generato l’idea del progetto.
Dall’«epos» alla storia
Sante Messe dunque probabilmente avrebbe toccato, come fanno gli abbozzi citati, il senso dell’essere scrittore, il rapporto con la letteratura, e non da una posizione estranea, ma proprio interna ad essa. Tondelli pare non uscire mai dalla dimensione letteraria: è il suo punto di osservazione. Proprio dal suo interno però, dichiara che la letteratura non salva. Ecco allora emergere il suo vero compito: essa interpreta, aiuta a capire «le occasioni della vita» che non «stupiscono mai abbastanza nella loro insensata frammentarietà»[35]; raccoglie i «fili intrigati e sparsi»[36] della propria vita.
Dalla lettura degli appunti si ricava la figura di uno scrittore che fino alla fine ha vissuto un rapporto dialettico con la scrittura, in una relazione vitale, intensa. Comprendiamo come essa avesse assunto per Tondelli un valore tendenzialmente soteriologico: essa, cioè, veniva investita della possibilità di sublimare epicamente la storia personale, garantendo una sorta di «divinizzazione», cioè la fama e l’elevazione delle vicende umane in un «olimpo». L’ultimo biglietto a Tagliaferri è anche l’ultimo tentativo di mitizzazione. Il clima del messaggio, così intriso di suggestioni mitiche, ci consegna un Tondelli che prova ad abitare l’isola ripida, arida e disabitata. Non resta ormai che questo lembo di terra, infatti. Bastano pochi giorni perché anche questo abbarbicato abbraccio cada: il canto epico non serve a salvare, semmai a interrogarsi e, forse, a capire.
A vincere contro il forte «assoluto» della «finzione più alta» resta la «vergogna della carne», cioè la percezione della fragilità e della contingenza, ma soprattutto l’Amore, la fede, la Grazia e il patto della redenzione: una manciata di parole, che sono, per parafrasare una bella espressione tondelliana, come un seme di vita sepolto nella propria mortalità[37].
Nel maggio del 1990 Tondelli aveva scritto che alle «tre del mattino, come insegnano Bergman e Cohen, si tirano i conti con la propria vita, ma non burocraticamente, bensì attraverso intuizioni poetiche e sofferte immagini interiori: il sé bambino, la madre, il padre, l’andare, il tornare, il senso impossibile della vita, della felicità, il peso della propria storia»[38]. In Sante Messe abbiamo, a distanza di alcuni mesi, come un sommesso e allusivo richiamo: «La Preghiera continua, le suore che alle 3 dicono le lodi, c’è qualcuno che prega per te…»[39]. Sempre alle tre del mattino.
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[1] P. V. TONDELLI, Camere separate, Milano, Bompiani, 1989, 95.
[2] Cfr ID., Opere, a cura di F. PANZERI, 2 voll., ivi, 2000-01.
[3] Cfr A. SPADARO, «La religiosità dell’attesa nell’opera di Pier Vittorio Tondelli», in Civ. Catt. 1995 IV 30-43. Per approfondire cfr anche il nostro Pier Vittorio Tondelli. Attraversare l’attesa, Reggio Emilia, Diabasis, 1999.
[4] P. V. TONDELLI, Altri libertini, Milano, Feltrinelli, 1980, 195.
[5] L’anno successivo alla condanna l’imputato e l’editore furono assolti dal tribunale di Mondovì «con formula ampia».
[6] Ma Tondelli, nel corso degli anni Ottanta, è anche autore di un considerevole numero di articoli e brevi racconti poi confluiti in un progetto realizzato in due volumi: Un weekend postmoderno (1990) e L’abbandono, pubblicato postumo nel 1993.
[7] G. SUSANNA, «Candid camere», in Music, giugno, 1989, 62.
[8] P. V. TONDELLI, Camere…, cit. 107.
[9] Il messaggio è riportato col consenso dello stesso Aldo Tagliaferri, che qui cordialmente ringraziamo. Ringraziamo anche la famiglia Tondelli e F. Panzeri per la disponibilità alle esigenze della mia ricerca.
[10] Cfr G. TESTORI, Traduzione della prima lettera ai Corinti, Milano, Longanesi, 1991.
[11] Segnaliamo pertanto l’errore di attribuzione che si legge in F. PANZERI, «Tondelli e gli anni che ha attraversato», in Famiglia Cristiana, 2001, n. 45, 127. Cfr A. SPADARO, Pier Vittorio, cit., 184 s.
[12] P. V. TONDELLI, Un weekend postmoderno. Cronache dagli anni ottanta, Milano, Bompiani, 1990, 125.
[13] ID., L’abbandono. Racconti dagli anni ottanta, ivi, 1991, 35.
[14] Citiamo la sua relazione al Convegno di Reggio Emilia.
[15] Non deve stupire l’efficace riferimento al temporale come metafora della discesa della Grazia. C’è infatti una spiegazione contingente: in un appunto (che qui non trascriviamo) del giorno 8, che riferisce della gioia per la frescura ricevuta da un po’ di ghiaccio, Tondelli parla dell’imminente scatenarsi di un temporale, appunto. Ma l’immagine è comunque intensamente biblica. Tondelli aveva ricevuto in regalo in quei giorni da don Romano Messori, che era stato suo parroco, un commentario al libro di Giobbe — libro che egli aveva letto precedentemente nella versione di Ceronetti — (A. BONORA, Giobbe: il tormento di credere. Il problema e lo scandalo del dolore, Padova, Gregoriana, 1990) e i quattro volumi della Liturgia delle ore. Proprio in Giobbe Dio appare mentre parla durante una tempesta (Gb 38,1) e si fa riferimento a Dio che fa scendere pioggia abbondante come una benedizione sul popolo esausto (Gb 5,10). E così anche i Salmi (cfr Sal 68,10; 72,6; 84,6; 147,8). Senza dimenticare i profeti così cari a Tondelli, tanto che egli li cita in Camere separate, e soprattutto Osea (Os 6,3; 10,12) e Geremia: «Al rombo della sua voce rumoreggiano le acque nel cielo./ Egli fa salire le nubi dall’estremità della terra,/ produce lampi per la pioggia/ e manda fuori il vento dalle sue riserve» (Ger 10,13).
[16] Si può notare qualche differenza tra il testo dell’unico appunto pubblicato nell’opera omnia, quello della notte tra il 7 e l’8 settembre, e quello qui citato. Ciò è dovuto certamente al fatto che il primo risale a una trascrizione ancora provvisoria del testo, che è di non immediata decifrabilità. La presente trascrizione dunque corregge anche le nostre precedenti versioni.
[17] J. COCTEAU – J. MARITAIN, Dialogo sulla fede, Firenze, Passigli, 1988, 56.
[18] Altri versi, altrettanto emblematici di una sensibilità, recano la data del 14 settembre 1973: Noi siamo i vinti./ Noi che non sappiamo amare/ e viviamo di sogni/ e il tempo dell’illusione svanisce/ lasciandoci tentennanti nel nostro dolore./ Noi che affidiamo ogni nostra/ decisione al bizzarro rotolare di una moneta/ incapaci di ergerci./ Noi siamo i vinti/ che ci crogioliamo nella nostra malinconia/ e ci inebriamo di dolcezze struggenti/ nel pensiero del passato e del futuro./ Sì noi che ancora/ non abbiamo capito che/ Dio è dalla nostra parte/ e non nutriamo speranza.
[19] Cfr W. STEVENS, Note verso la finzione suprema [1942], Venezia, Arsenale, 1987.
[20] P. V. TONDELLI, Camere separate, cit., 135.
[21] Cfr ivi, 131-138.
[22] ID., Camere…, cit., 137.
[23] Ivi.
[24] Ivi, 135.
[25] Ivi, 32.
[26] Cfr Gn 6,3; Sal 56,6; Is 40,6; Ger 17,5. È utile al riguardo leggere E. ROSSIN, «“Caro salutis cardo”. Una promessa di salvezza a partire dalla “carne” in Tertulliano», in A. N. TERRIN (ed.), Liturgia e incarnazione, Padova, Messaggero – Abbazia di Santa Giustina, 1997, 113-164.
[27] P. V. TONDELLI, Biglietti agli amici, Milano, Bompiani, 1997, 47.
[28] ID., Camere…, cit., 137.
[29] ID., Pao Pao, Milano, Feltrinelli, 1982, 95-96.
[30] ID., Biglietti…, cit., 11.
[31] «Sante Messe», in Panta, cit., 173.
[32] P. V. TONDELLI, «Frammenti su “Sante Messe”», ivi, 175; ora anche in ID., Opere. Romanzo, teatro, racconti, Milano, Bompiani, 2000, 1.205.
[33] Ivi.
[34] Ivi.
[35] ID., Pao Pao, cit., 157.
[36] Ivi.
[37] Cfr ID., Camere…, cit., 96.
[38] ID., Un weekend…, cit., 215. Il corsivo è nostro.
[39] ID., «Frammenti su “Sante Messe”», cit., 175.