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In occasione del trentennale della morte di Pier Vittorio Tondelli, rendiamo disponibile anche sul nostro sito il primo articolo dedicato all’autore di Correggio dalla nostra rivista, originariamente pubblicato da p. Antonio Spadaro il 7 ottobre 1995 nel numero 3487 de La Civiltà Cattolica.
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Occuparsi di Pier Vittorio Tondelli significa confrontarsi con una produzione letteraria intensa, anche se breve per la prematura morte nel 1991 dell’Autore, all’età di 36 anni[1]. L’avvio dell’opera del giovane scrittore emiliano ha suscitato scandalo sin dall’inizio a causa della censura e del sequestro dell’opera prima, Altri libertini, considerata dalla magistratura «opera luridamente blasfema» che «stimola violentemente i lettori alla depravazione e al disprezzo della religione» e questo, oltre che per il linguaggio, certamente anche per la tematica autobiografica dell’omosessualità, presente in essa come in molta parte della restante produzione. A noi qui interessa far emergere con discernimento, attraverso le luci e le ombre, lo specifico dell’esperienza personalissima di Tondelli scrittore, senza cedere alla tentazione dei giudizi in generale. Il nostro intento sarà dunque quello di cogliere i semi di religiosità e di appassionato appello alla trascendenza e alla dimensione del sacro presenti nell’opera dello scrittore emiliano.
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La sensibilità religiosa
La sensibilità per il fatto religioso è un motivo di sottofondo, che emerge tra le righe in vari luoghi della produzione tondelliana, anche se tematicamente non di frequente. Occorre porre in evidenza che in essa appare una svolta, determinata dal raggiungimento da parte dell’Autore del trentesimo anno di età, anno in cui sembra concludersi ogni ricerca di una identità immediata e istantanea, tipica delle prime opere, per lasciare il posto al ricordo, alla memoria, allo sguardo prospettico e riflessivo, in cui si delinea in modo determinante la figura dell’abbandono e della separazione. Qui intendiamo occuparci soprattutto di questa seconda parte della sua produzione, tuttavia già nelle prime opere troviamo quel filo di Arianna che conduce verso le opere successive.
Nelle sei storie di giovani «belli e dannati» di Altri libertini la cifra per comprendere il libertinaggio e le avventure «sulla strada» — per sentieri che hanno sempre la loro interruzione negli «Scoramenti» — è in modo esplicito la «salvezza»[2], che si fonde con il tema del ritorno a un Eden perduto[3]. In Pao Pao, romanzo sulla vita militare, domina il «vagare per sentieri che non conosciamo» alla ricerca disperata di una «misteriosa e armonica frequenza che schiude il senso e fa capire»[4]. L’ossimoro degli stili di una società illuminata in modo opaco e confuso da fari al neon, quale emerge nello spazio pubblico di Un Weekend postmoderno e in quello privato di Dinner Party, è un grido contro l’inautenticità[5] e la dannazione generazionale intrisa di una cultura della trasgressione che rende impossibile una parola di salvezza[6].
Ma la tematica religiosa emerge in termini sempre più espliciti con Pier a Gennaio, un racconto raccolto ne L’Abbandono e poi con i romanzi Rimini e Camere separate, oltre che con Biglietti agli amici e con le note rimaste per l’incompiuto Sante Messe. Vari sono, ad esempio, i libri religiosi che costituiscono un punto di riferimento sia per l’Autore sia per Leo, protagonista di Camere separate. Innanzitutto la Bibbia in traduzioni diverse: «La sua mano cerca nella libreria, automaticamente la Bibbia»[7]. E poi Le grandi correnti della mistica ebraica, l’Imitazione di Cristo, i mistici medievali, santa Teresa di Lisieux, il Libro tibetano dei morti, con il desiderio di possedere in casa tutti i volumi della Bibliotheca Sanctorum: «Mi affascina il poterli sfogliare, cercare, leggere storie, l’idea della santità. È un modo come un altro per rimanere, pur nell’inevitabile e anche contraddittorio divenire, attaccati al senso di una ricerca lunga quanto la nostra vita»[8].
Tondelli è dunque uno scrittore di intensi interessi religiosi[9] e Bonura lo ha inserito tra quei narratori cristiani (e dunque non «cattolici», nel senso di confessionali) «che magari non sanno neppure di esserlo» perché «vedono Cristo dove c’è l’uomo che soffre o che è innocentemente lieto»[10]. Nel 1989 del resto è lo stesso Tondelli a rivelare: «Credo che ognuno allevato o cresciuto in una religione abbia una propria religiosità. Io ho sempre cercato non tanto di fare un discorso sulla fede cattolica, ma di esprimere quello che è la mia religiosità, indubbiamente all’interno del cristianesimo che deve trovare o che cerca o che mette in discussione, soprattutto nel confronto con altri autori, le sue posizioni»[11].
Un luogo particolarmente significativo in cui emerge l’interesse religioso è una intervista che Tondelli ha realizzato con Carlo Coccioli un anno dopo la pubblicazione di Camere separate. Chi è il Coccioli che ha affascinato Tondelli? Si può considerare forse l’unico narratore italiano contemporaneo in cui il discorso religioso appaia decisivo elemento ispiratore[12]. In Coccioli, Tondelli forse cercava un modello di ordine spirituale e di ricerca religiosa e F. Panzeri, che ha concordato l’intervista, registra un Tondelli «timido, vergognoso, a volte anche imbarazzato»[13], atteggiamenti in cui sembra di leggere una particolare devozione. Non teme così di affermare che «la tematica esistenziale e religiosa di Coccioli certo non poteva essere accettata dall’establishment culturale di sinistra degli anni cinquanta. […] in nessun autore italiano contemporaneo, è presente una così grande tensione interiore, un’irrequietezza spirituale che poi si traduce in un nomadismo culturale e metafisico assolutamente originale, per non dire eccentrico»[14]. Il «tormento esistenziale di natura teologica»[15] rende Coccioli «un uomo in fuga, poiché gli è chiaro che la dimensione dello spazio e del tempo in cui vive è solamente una parodia, un vago riflesso del paradiso terrestre, per cui, nel fondo, l’uomo religioso è colui che cerca di sfuggire alle costrizioni del presente, che vuole tornare a una dimensione sacrale, di cui avverte la nostalgia»[16]. Tondelli riflette, «per gran parte della notte, solo, al computer, con un po’ di musica in sottofondo»[17] sulle parole e la religiosità di Coccioli, per il quale la vera distinzione è tra gli uomini religiosi e quelli che non lo sono.
Molto dell’animo di Tondelli, nei suoi desideri e nelle sue paure, confluisce nell’ultimo romanzo, dal titolo Camere separate. Al centro della narrazione è la relazione amorosa tra Leo e Thomas vissuta nella «separazione», vero tema del libro: Thomas è morto e Leo vive in una mai esaurita e definitiva elaborazione di questo lutto, nella continua memoria del passato, tesa alla ricerca del tempo perduto. Camere separate è del 1989, ma già dal 1986 Tondelli si dedica a una ricerca letteraria nuova per costruire esplicitamente una «fenomenologia dell’abbandono», «abbandono d’amore, abbandono della persona amata, abbandono delle cose o forse anche della realtà»[18]: «Lo scenario non è più in primo piano, ma diviene una quinta, contro la quale si stagliano i dettagli di una ricerca intorno al tema del sentimento, intuito come estrema nostalgia, ritrovato in quanto affermazione di un mito dell’interiorità che scava dentro il pudore»[19]. Le parole di Tondelli sulla solitudine sono penetranti e colgono «quei momenti […] in cui sai perfettamente di essere in balia della tua storia e che, a parte te, nessuno riuscirà a drizzarla e a portarla sui binari giusti»[20].
All’ombra dell’abbandono-separazione le luci policrome della cultura della trasgressione si spengono perché incapaci di pronunciare una parola di salvezza, come Tondelli lucidamente scriveva nel 1988 alla morte dell’amico Andrea Pazienza: «È questo che la morte di Andrea mi mette davanti, spietatamente: il lato negativo di una cultura e di una generazione che non ha mai, realmente, creduto a niente, se non nella propria dannazione»[21].
Il linguaggio innamorato di Dio e le cifre del sacro
La cifra dell’abbandono è quella con cui il Leo di Camere separate legge i Vangeli, che gli appaiono come «tableaux di una fiaba che non comprende»[22]. Ama invece il linguaggio innamorato e adirato di Dio in Osea, riflette «sulla metafora per cui Dio sceglie di concepire il suo popolo dal ventre di una prostituta» e «considera il fatto che Dio si rivolge al figlio con il linguaggio dell’innamorato, quando lo vede chinarsi sul piccolo Israele per insegnargli a camminare, tenendo lo per mano»[23] o anche percepisce l’ira di Dio per il tradimento e la sordità con cui il suo amore viene ricambiato. In questi momenti Leo «avverte in sé la propria vocazione religiosa come qualcosa di irrinunciabile». E affiorano alla memoria «la sua giovinezza, le ore di meditazione, le discussioni con i sacerdoti». Leo «celebra come liturgia la vita stessa» e la sua devozione consiste in un atteggiamento di osservazione, contemplazione e ascolto delle cose e degli uomini, «un osservare e contemplare, che ha a che fare con il suo stesso modo di essere». Questo è preghiera: egli avverte «la presenza del sacro come qualcosa di tangibile nella realtà, qualcosa su cui il suo sguardo si posa con devozione»[24].
Una chiave del sacro in Tondelli è legata all’esperienza della sessualità. Al di là delle innegabili ambiguità di un sacro inteso in ambito sessuale, qui il sentimento religioso appare incarnato nel mistero della corporeità e della sessualità, in quanto luoghi in cui la vita si rivela ancora come sacra o comunque rinviante a una dimensione sacrale, orante, di cui anche l’armonia del cosmo partecipa[25].
L’«imbarazzante finitezza» della corporeità diviene richiamo implicito a un infinito che non è anelato oscurando la fisicità finita, ma godendo di una finitezza condivisa in modo eccedente, generoso e gratuito. Questo è il valore che occorre registrare: siamo qui all’opposto di un erotismo segnato dal principio del consumo e del valore di scambio. Il personaggio Leo — ma come non vedere l’autore alle sue spalle? — dice della propria religiosità: «Se ha abbandonato la pratica della religione in cui è cresciuto e attraverso la quale ha imparato a segnare il mondo, il suo ambiente, i suoi sentimenti, l’ha fatto per l’inconciliabilità di fondo fra la sua vita e il suo misticismo. L’ha fatto perché portava non solo la propria emotività, ma anche la sua sensualità, nella ricerca di Dio. Nello stesso tempo vedeva la religione vissuta in modo sdilinquito, atrocemente svirilizzato senza la passione feconda, la recettività violenta della femminilità o l’esuberanza della virilità. Una religione senza sesso per uomini che hanno paura delle passioni e della forza dell’amore. Una religione accomodante, borghese, il più delle volte ipocrita. Mentre invece, anche nella sua silenziosa preghiera, lui era consapevole di mettere in gioco tutta la propria sessualità. Per questo leggeva Osea. Perché in quelle pagine non c’era una visione esclusivamente mentale del rapporto fra Dio e il suo popolo, ma una rappresentazione di corpi, di prostituzione, di abbandono, di delirio della separazione, di rabbia, di paterna protezione»[26].
Su questa linea per Tondelli assume valore la castità: «La castità è una virtù mistica, per quanti l’hanno scelta, e forse l’uso sovrumano della sessualità»[27]. La castità come valore non è qui astrazione dalla sessualità, svilimento e rinuncia. Quest’ultima uccide, confinando l’uomo «in una zona incattivita e sterile dalla quale è sempre più difficile uscire», rendendolo «un grumo irrisolto di rancore e di odio»[28]. La castità vera è invece l’uso sovrumano e soprannaturale della sessualità: «La mistica ha il cuore caldo dell’eros» e ciò significa «imparare a ascoltare la divina attrazione»[29].
La chiesa
Per il Bruno di Rimini la figura di saggezza e confronto è rappresentata da un sacerdote, padre Anselme, così che in una lettera. scriverà: «Ho sempre cercato “tutto” nella vita: la verità e l’assoluto. Ho sempre detestato la gente soddisfatta»[30]. Una cosa accomuna Bruno e padre Anselme: è lo stesso religioso a constatarlo in una delle pagine più belle di Tondelli: «Sei uno sradicato come me. Non abbiamo casa, ma ne abbiamo tantissime. Non abbiamo soldi, ma viviamo nel lusso, non pensiamo al domani ma siamo continuamente alla ricerca di qualcosa. Per questo il cattolicesimo ci va stretto da un certo punto di vista. Perché è fatto di oratori, di stanze chiuse, di paura del mondo. Noi invece abbiamo bisogno di aria e di girare. Amiamo quello che può darci il mondo. Non credo sia in sé un fatto negativo. Quello che fa di noi degli apolidi è l’inquietudine di amare Dio. Ma c’è un fatto […] che cerchi Dio e non ti accontenti di averlo trovato. Vorresti una vita diversa, vorresti fermarti a riposare in Dio, ma non lo farai perché niente ti basterebbe mai. Molti vedono solo una piccola fessura dove tu trovi invece crepe e abissi. Cercherai Dio per tutta la vita e questo basterà a salvarti. Non smettere mai di cercare, ma sappi che, ovunque tu vada, ti guiderà sempre la sua Grazia»[31].
Anche il Leo di Camere separate ha avuto nella sua vita contatti con sacerdoti. Ricorda, sorridendo, ciò che gli disse un suo amico sacerdote: You have been bitten by the metaphysical bug («Tu sei stato punto dalla cimice metafisica»), frase ripresa nelle ultime righe del romanzo. Non sempre tuttavia è contento dei colloqui avuti con loro: «Io non posso amare la religione del cilicio e della pena. Io vorrei amare la religione della pienezza. Vorrei essere felice nella mia religione, perché la sto sentendo come un bisogno biologico, come mangiare, come bere, come fare l’amore. Ma voi sembrate non capire questo»[32]. Perciò ha attenuato il suo «bisogno di Dio», rivolgendosi a una religiosità e ad una sacralità dell’umano.
La sua religiosità si fa così solitaria e interiore e avverte con sospetto la soluzione comunitaria. Della chiesa-edificio e del rito invece rimangono abbondanti ricordi nelle pagine di Rimini. Bruno, sul filo della memoria della visione di un film sui monaci buddisti, ricorda una basilica romana con intense percezioni musicali in una chiesa «deserta, silenziosa e buia», dove «solamente una luce calda proveniva dall’ultima cappella laterale della navata»[33]. In Camere separate si assiste a una composizione di luogo, nella quale da una basilica spagnola esce un corteo, «preceduto dalle litanie che gli altoparlanti diffondono lungo il percorso. […]. Vede arrivare le due file parallele di chierichetti, con la cotta bianca e la veste nera, che sfilano ai lati della croce gigantesca, alta parecchi metri e portata a spalla da tre uomini. La croce è nera e dai suoi bracci pende una stola viola. […]. L’immagine sacra si staglia fra una selva di grandi aste che innalzano le insegne della passione. Altri chierichetti, più grandi, reggono queste lance, ognuna con un simbolo diverso: i chiodi, la corona di spine, la spugna di aceto, i dadi, la frusta, la tunica bianca dell’eterno bambino…»[34].
Il gusto dei particolari dell’arredo e degli oggetti svela un interesse carico di devozione e cura. Nell’immaginario religioso di Tondelli alla musica, agli odori e all’arredo si associa un altro elemento particolarmente legato alla liturgia: le candele. Racconta Filippo Betto che per l’amico Pier Vittorio ogni visita in chiesa era l’occasione per sistemare almeno un paio di candele «davanti agli altari più sguarniti e dimenticati»[35]. In Camere separate c’è una suggestiva descrizione della cattedrale di Barcellona, dove all’ingresso della navata principale «stava un candeliere enorme sul quale ardevano grossi ceri bianchi decorati di simboli sacri. Tutto attorno ai fedeli avevano posto dei lumi, migliaia di piccole fiammelle che ardevano e si scioglievano una nell’altra»[36].
Nell’ottobre del 1991, appena due mesi e mezzo prima della sua morte, all’ospedale di Reggio Emilia in cui era ricoverato, aveva messo giù delle note su un volume che avrebbe voluto un po’ underground. Si tratta di Sante Messe da pubblicare con le edizioni L’Obliquo di Brescia. L’educazione cattolica dell’Autore lo aveva segnato con l’oratorio e il gusto per la liturgia, che già abbiamo notato. Adesso il desiderio è quello di raccontare in «prosa poematica» alcune messe: quella solenne e patriottica di Budapest, la messa ad Amsterdam con il caffè e i toast, la messa beat, la messa solenne in San Pietro, quella gregoriana, ambrosiana e piccole messe di campagna, volendo chiudere con «quella in cui voi accompagnerete le mie spoglie»[37]. Nei pochi appunti si parla di santità e di illuminazione, di «Via della Croce» e di carità e testimonianza. In particolare di un interesse per i rapporti tra cristianesimo ed ebraismo, ma soprattutto colpisce l’ultima frase: «La Preghiera continua, le suore che alle 3 dicono le lodi, c’è qualcuno che prega per te…»[38].
L’ultima tremante lettera all’amico Fulvio Panzeri si conclude con «Tuo fratello in Cristo, Pier»[39]: «Mentre questa morte, lenta, lo invadeva, lo spazio di Dio, in lui, s’allargava e ritornava ad essere quel grembo della giovinezza, vissuta tra oratori, gruppi di Azione Cattolica e movimenti per il rinnovamento»[40]. Ricorda ancora Panzeri: «E poi il segno della croce a invadere la nudità anonima della “stanza”. Solo le sue mani. Sì, un procedere verso la “santità”. Ma c’era anche uno strazio: il suo di mostrarsi allo stremo delle forze, ma con sempre l’assillo dei suoi libri delle sue carte […]; il mio, nel disagio di ricondurre ad una speranza che sentivo, sì incoerente, ma necessaria, pur se strozzata da un groppo in gola. Forse protetti, certo dalle rose — il loro annuncio — di Santa Teresina…»[41].
Una «ossessione di assoluto»
A questo punto non possiamo non sentire, come ha notato Geno Pampaloni, una ossessione di assoluto, continua, urgente o nostalgica, che attraverso il passato si radica nel presente. Tondelli non è mai stato un cantore della leggerezza, ma l’interprete di una dialettica tra la libertà individuale fino alle pastoie dell’arbitrio e un destino soprannaturale dal sapore sempre più intenso della fede. In ogni caso il giovanilismo e l’arbitrio libertino delle prime opere è radicalmente messo in discussione su quella via di Damasco che è l’«abbandono», quasi figura del deserto biblico: «Dopo le terre d’esilio, nelle quali la fede può sembrare lontana, anche se avvolge come nutrimento interiorizzato, il richiamo all’origine ha agito su di lui, portando a compimento il lento cammino del ritrovamento»[42].
Ciò che Tondelli esprime in modo più intenso è la lacerazione di una «vita separata» espressa con garbo, anche se potentemente nostalgica di una dimensione «totalmente altra», in cui ogni muro di separazione crolla e con esso l’angoscia di una vita senza pienezza. E tuttavia, al di là del raggiungimento che non è dato, vibra la situazione dell’attesa: la malinconia non ha pronunciato l’ultima parola. Il vuoto aperto dalla separazione non sprofonda in se stesso, ma rimane, nel desiderio, cifra di un futuro, di ciò che può colmarlo: «Ho sempre cercato “tutto” nella vita: la verità e l’assoluto. Ho sempre detestato la gente soddisfatta»[43]. Questa tensione genera nelle pagine tondelliane una «grammatica teologica» che si scopre nell’ambito della creatività linguistica, della forza espressiva, della sincerità e della spregiudicatezza. È una grammatica che offre parole, forme verbali, metafore, figure di stile e suggestioni di valenza anche teologica: si tratta delle figure della separazione tra l’atteso e il perduto, in una dialettica non risolta[44].
È la ricerca nell’attraversamento di ogni separazione che afferma la «qualità» dell’uomo tondelliano, al di là di ogni vano nomadismo: «Bisogna raggiungere e passare l’inferno dell’azzeramento e della perdita di senso totale e completa»[45]. Si tratta in qualche modo di una «discesa agli inferi», figura di una vita che trova nel «sabato santo» il suo significato. Nello scenario evangelico della «settimana santa», evocato proprio al centro di Camere separate[46], la luce si separa dal sole, le pietre si spezzano, il velo del tempio è lacerato, le vesti di Cristo sono divise e il suo fianco divelto. È in questa separazione di tutto e di tutti che la Divinità si nasconde, cioè proprio nell’Abbandonato e nel Separato che è Cristo stesso. La vita personale può essere fatta di questi lunghi sabati santi, nei quali né l’acuta sofferenza della passione né la gioia sconvolgente della festa pasquale segnano i giorni e le notti; è piuttosto la dura e paziente attesa, nella più nuda fede, di un Signore che si fa tanto attendere che sembra non venga più[47]. Il bisogno di una risalita da questo «mistero di “separazione”»[48] è quello provato dal profeta Giona, imprigionato nel grembo della balena — «camera separata» — luogo dell’oscurità, ma anche della rimeditazione, che attende una salvezza, capace di sfondare le porte di questi inferi.
Il lutto così può tramutarsi in accoglienza virtuale e la disperazione in speranza. Il tempo verbale che esprime questa situazione è il futuro anteriore, che è certamente il tempo dello struggimento e della sentimentalità[49], il ritmo di un’anatomia della malinconia; ma si tratta in fondo non di uno scoramento disperato, ma di uno struggimento che si proietta su un futuro ulteriore, assoluto, che ne cambia il senso: da «scacco» in «attesa».
Il percorso notturno di una teologia negativa risulta congeniale al percorso tondelliano, che la costante perdita rende un itinerario ascetico, il quale conduce dall’incertezza del desiderio alla calma e al riposo. Quello che Tondelli ha definito l’«attraversamento dell’addio» si configura allora come un cammino nella notte oscura, affine a quello che la tradizione spirituale chiama «desolazione», che è oscurità, turbamento, inquietudine, in cui l’anima è sfiduciata, senza speranza, senza amore e si trova triste e separata. In tale condizione si rimane affidati alle proprie forze naturali, dovendo personalmente curare la propria risalita in superficie, afferma Tondelli[50]. Ma questo attraversamento incide profondamente nell’anima un desiderio di grazia e di amore.
Lo sguardo rimane sempre puntato sulla soglia e gli occhi che, essendo talmente «tesi non vedono quasi più»[51], «spaziando si fanno magnetici»[52]. La soglia è anche l’immagine che il teologo J.-P. Jossua offre della condizione del credente: «Un uomo, una donna, ferma davanti a una soglia — porta, finestra, muretto, siepe, parapetto — o su una frontiera — un limite, un colle, un confine, il margine di un deserto o la riva del mare —; come uno che veglia, che attende, in un agguato senza fine»[53]. E in Tondelli un Eden sospirato c’è sempre: dai libertini «belli e dannati» dei primi testi fino a Camere separate e oltre. Ora è confronto-scontro con la Legge («primo» Tondelli), ora con il lutto e la morte («secondo» Tondelli), ma la radice comune è la paura e lo smarrimento, che spinge ora a fare gruppo, «tribù», ora a viaggiare disperatamente, ma sempre ad anelare a una salvezza. Si tratta di una salvezza cercata nell’amore: «Basta un territorio di diffusione d’affetto e sarò sempre salvo»[54]; è il grido di chi fa parte di una generazione «che non ha mai, realmente, creduto a niente, se non nella propria dannazione»[55]. E l’amore diventa cifra del bisogno di assoluto[56], fino alla felicità di vivere la propria imbarazzante finitezza come un valore che può dare pace agli altri[57]. «Finitezza» rimane la parola chiave: si potrebbe leggere l’opera di Tondelli come una esplorazione di questa finitezza, fin nei suoi angoli più riposti, nelle sue pieghe più intime, nei vicoli ciechi dello smarrimento, ora con potenza, ora con raccoglimento, sempre con timidezza. Fuori da questo Eden si rimane nella condizione di sradicato.
L’itinerario di Tondelli è stato definito come «il sofferto cammino di uno scrittore verso la redenzione»[58]: non si possono dimenticare le parole di padre Anselme in Rimini: «Ovunque tu vada, ti guiderà sempre la sua Grazia»[59]. L’immagine di salvezza e di redenzione dalla «voragine dell’abbandono»[60] non è presente in modo chiaro: «Ancora lui non sente la redenzione arrivata nella sua vita»[61], tuttavia si delinea un orizzonte, che è quello della croce. Il corpo crocifisso e «avvolto nel sudario»[62] di Thomas è incollato misticamente alla pelle di Leo, come stimmate che invocano tacitamente il grido di Cristo in croce: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?». È, quello di Leo, un grido, strettamente unito a quello di Thomas, un grido di dolore e di abbandono.
La croce e un seme di risurrezione
Il linguaggio religioso più alto esprime la sofferenza di Thomas nei termini della croce di Cristo. La processione del Venerdì Santo, rivissuta nella memoria di ciò che accadeva al proprio paese al tempo dell’infanzia, porta Leo a riconoscere nella statua di Cristo Morto il corpo di Thomas e «ha la certezza che in quel giorno lontano lui stava già assistendo al funerale del suo compagno»[63]. La pietà per il Cristo, pietà contadina, cruda e senza fiori, fa tutt’uno con quella straziante per Thomas, Al suo paese, da adolescente, portava in processione la statua della Madonna, ma non ha mai portato in processione Cristo Morto, perché «la vita lo ha spinto ad abbandonare poco prima di accedere alla parte della processione da sempre riservata agli uomini e all’età adulta»[64], Leo non porta la croce sulle spalle, ma alla figura di Cristo «con le ferite sanguinanti, la corona di spine, i buchi dei chiodi, il costato lacerato»[65] si sovrappone non solo l’immagine di Thomas, ma anche la propria, associato totalmente nel mistero del dolore e dell’abbandono, «insozzato di dolore e di angoscia»[66], fino a non percepire alcuna speranza di risurrezione. Non siamo affatto tuttavia alla soglia della dannazione. Infatti in modo sottile ma certo, proprio l’angoscia è il filo che tiene uniti Leo, Thomas e il Cristo stesso, il filo dell’eredità dell’affetto e di una fratellanza di compassione.
Tuttavia Thomas non è solo un cadavere che Leo si sente incollato addosso, ma «un seme di vita sepolto nella propria mortalità»[67]. La speranza è viva e di questa grazia Leo è custode attivo: «Lui culla, nel profondo, questo seme, lo scalda, assiste alla sua crescita cercando di crescere con lui»[68]. È ancora il «sabato santo» di chi attende che domani germogli la messe, anche se al presente il chicco di grano, caduto in terra (Gv 12,24) e in essa sepolto, non vede ancora ciò che sarà di lui.
Gli ultimi giorni di Tondelli danno luce e ragione a una speranza più intensa nel ricongiungimento con il Dio della gloria: «Ha richiesto questo ricongiungimento al Dio della gloria, offrendo la sua pena straziata, non alla vanità del soffrire, ma all’irrompere di quella Grazia che sembrava illuminare il suo viso assorto e tenero, quasi ritornato bambino, quando, con estrema fatica, tutti i giorni si accostava alla particola consacrata. È proprio in questa memoria che ha voluto lasciare l’ultima immagine, a nulla può servire il resto: la sua onestà, la sua fedeltà, si sono dimostrate totali, fino al voler, pur negli stenti, correggere i propri libri, in particolare Altri libertini, togliendo tutte quelle parole che potevano offendere il nome di Dio, proprio per lasciare di sé l’immagine di una purezza, di quella generosità che lo hanno sempre caratterizzato»[69].
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Pubblicato originariamente in Civ. Catt. 1995 IV 30-43
Copyright © La Civiltà Cattolica 1995
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[1] P. V. Tondelli nasce a Correggio nel 1955. Studia al DAMS di Bologna e nel 1980 pubblica la sua prima opera, Altri libertini, generando scandalo e condanna per le sei storie di giovani narrate in presa diretta in un linguaggio immediato ed emotivo. Nel 1982 esce Pao Pao, romanzo sentimentale sulla vita in caserma. Due anni dopo scrive la sua unica opera teatrale, Dinner Party. Nel 1985 scrive un romanzo di ampio respiro — Rimini — in cui si intrecciano sei vicende di personaggi «senza qualità», ambientato in una città che diviene «palude bollente di anime», in cui la gente «cuoce e rosola». L’anno seguente pubblica Biglietti agli amici, in una edizione limitata un po’ underground, un «distillato di “posizioni sentimentali”» rivolte a pochi in uno spazio intimo e riservato. Nel 1989 esce Camere separate, il romanzo dei sentimenti sul filo della memoria di cui è chiave di comprensione l’esperienza della separazione, dell’abbandono e del desiderio di addomesticare una solitudine ineluttabile.
Ma Tondelli nel corso degli anni Ottanta è anche autore di un considerevole numero di articoli e brevi racconti, poi confluiti in un progetto realizzato in due volumi: Un Weekend postmoderno (1990) e L’Abbandono, uscito postumo a cura di F. Panzeri nel 1993. Nel primo il cine-occhio tondelliano registra attraverso il filtro del discernimento, fine quanto pienamente e inoggettivamente coinvolto, frammenti, reportage, illuminazioni sulla realtà degli anni Ottanta. Nel secondo volume lo sguardò attraversa paesaggi umani e frammenti umani in forma di racconto interiore. Tondelli è anche l’ideatore di un progetto che intendeva sondare lo spazio inesplorato della scrittura giovanile, progetto che lo ha visto curatore di tre antologie di testi di giovani narratori inediti (Giovani Blues del 1986, Belli & perversi del 1987, Papergang del 1992), curatore di una serie editoriale non molto fortunata di Mondadori dal titolo «Mouse to Mouse» e ideatore della rivista di narrativa Panta.
Indicheremo le citazioni con le sigle che segnaliamo e nelle edizioni qui indicate: «Libertini» sta per Altri libertini, Milano, Feltrinelli, 1994. «Pao» sta per Pao, ivi, 1993. «Weekend» sta per Un Weekend postmoderno. Cronache degli anni Ottanta, Milano, Bompiani, 1993. «Abbandono» sta per L’Abbandono. Racconti degli anni Ottanta, ivi, 1993, «Party» sta per Dinner Party, ivi. «Biglietti» sta per Biglietti agli amici, Bologna, Baskerville, 1986. «Camere» sta per Camere separate, Milano, Bompiani, 1994. Rimini, ivi, 1985 è indicato per esteso.
[2] Cfr «Libertini», 98.
[3] Cfr ivi, 178.
[4] «Pao», 157.
[5] Cfr «Party», 110.
[6] Cfr «Weekend», 211 s.
[7] «Camere», 97.
[8] F. PANZERI – G. PICONE, Tondelli. Il mestiere di scrittore. Una conversazione-autobiografia, Ancona, Transeuropa, 1994, 68.
[9] Che comunque rifiuta in modo categorico di diventare o essere etichettato come «scrittore cattolico». Cfr G. BONURA, «Scrittori cattolici, razza mancata?», in Avvenire, 24 febbraio 1995.
[10] In compagnia di Calvino, Mannuzzu, Erri De Luca, Lodoli, la Tamaro, la Capriolo, Camon, Biamonti e Tabucchi. Cfr ivi.
[11] Citato in F. PANZERI, «E alle tre del mattino c’è qualcuno che prega per te», in Avvenire, 25 novembre 1992.
[12] Fede e inquietudine attraversano le opere di questo scrittore, che passa dal cattolicesimo all’ebraismo, al buddismo, scrivendo opere di grande spessore come Il cielo e la terra, riecheggiante i grandi Bernanos e Greene, e Davide, storia di un intenso itinerario di fede percepito ora come tormento, ora come consolazione. Tondelli avverte questa intrinseca religiosità che si esprime in «quei tormenti e quegli entusiasmi per una religiosità pura e incorrotta» («Weekend», 481). Cfr in proposito F. CASTELLI, «“Il cielo e la terra” di Carlo Coccioli», in Civ. Catt. 1951 I 430-436; ID., «Davide nostro contemporaneo», ivi, 1976 III 222-235; ID., «Il sincretismo dell’ultimo Coccioli», ivi, 1981 II 262-266; ID., «I casi della vita. Panoramica della narrativa italiana», ivi, 1983 II 147-149.
[13] F. PANZERI, «“Devo ammetterlo, di Dio non so nulla!”», in L’Esagono, 25 febbraio 1990·
[14] «Weekend», 479.
[15] Ivi, 481.
[16] Ivi, 487.
[17] Ivi, 488.
[18] «Abbandono», 301.
[19] Citato in F. PANZERI, «Postfazione», ivi, 294.
[20] «Abbandono», 28.
[21] «Weekend», 211 s.
[22] «Camere», 97.
[23] Ivi.
[24] Ivi.
[25] Cfr Rimini, cit., 200 e «Camere», 98 s. Quest’ultimo testo è significativamente citato in Inquietum cor nostrum. Pagine di un cristianesimo ritrovato, supplemento al n. 56 (1994) della rivista Appunti di Padova.
[26] «Camere», 98.
[27] Ivi, 191. Cfr G. BAGET Bozzo, «Castità è possedere», in Il Sabato, 13 marzo 1993.
[28] «Camere», 191.
[29] G. BAGET BOZZO, «Castità è possedere», cit.
[30] Rimini, cit., 204.
[31] Ivi, 224.
[32] «Camere», 100.
[33] Rimini, cit., 225.
[34] «Camere», 131-134.
[35] F. BETTO, «Viaggi, riti, ritorni», in Panta, cit., 313.
[36] «Camere», 123.
[37] F. PANZERI, «Naturale altro», in Panta, cit., 353.
[38] P. V. TONDELLI, «Messe cantate», in Panta, cit., 175.
[39] F. PANZERI, «Naturale…», cit., 353.
[40] ID., «Il sofferto cammino di uno scrittore verso la redenzione», in Avvenire, 17 dicembre 1991.
[41] Ivi.
[42] Ivi.
[43] Rimini, cit., 204.
[44] Ci sembrano particolarmente significative a questo riguardo le parole di Gianni De Martino circa la visione della scrittura come desiderio insopprimibile di una salvezza teologica: «La fedeltà alla letteratura è ciò che resta della fede quando la si è perduta. È ciò che chiamo disperazione, che è anche la verità del Calvario: Dio ci ha abbandonati, non ci resta più che l’amore per la scrittura. Che in Pier è apprendistato della morte, di ciò che da sempre ci separa e tuttavia pervade tutto, anche la felicità e la gioia del linguaggio, o della creazione dell’architettura di un testo. “Forse la letteratura”, mi disse una volta a proposito di Camere separate, “non è altro che una lunga elaborazione di un lutto”, Quelle parole mi stupirono, mi sembravano una sfida, un enigma. Non sapevo che fosse così malato, né che aveva ricominciato a pregare», in Panta, cit., 218 s.
[45] «Weekend», 471.
[46] «Camere», 130-135.
[47] Cfr P.-H. KOLVENBACH, «“Cristo … discese all’inferno” (ES 219)», in Saggi di spiritualità ignaziana, Roma, ADP, 1993, 8.
[48] Ivi, 11.
[49] Cfr F. PANZERI – G. PICONE, Tondelli…, cit., 42
[50] «Abbandono», 28.
[51] «Biglietti», 103.
[52] Hadke, citato ivi, 45.
[53] J.-P. JOSSUA, La condition du témoin, Paris, Cerf, 1984, 34.
[54] «Pao», 96.
[55] «Weekend», 211.
[56] «Abbandono», 130.
[57] Cfr «Camere», 98 s.
[58] F. PANZERI, «Il sofferto… », cit.
[59] Rimini, cit., 224.
[60] Ivi, 173.
[61] «Camere», 97.
[62] Ivi.
[63] Ivi, 134.
[64] Ivi.
[65] Ivi, 137.
[66] Ivi.
[67] Ivi, 96.
[68] Ivi.
[69] F. PANZERI, «Il sofferto… », cit., 34.