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Le drammatiche vicende di Giacobbe ed Esaù sono attraversate da manipolazione e inganno, da propositi di violenza e da separazioni forzate, da conflitti esacerbati e da inattesi riavvicinamenti. Per cui sembra lecito chiedersi: dov’è Dio in tutto questo? Come riconoscerlo nelle storie umane spesso controverse e poco lineari? Eppure, è proprio sul palcoscenico della vita che la Bibbia mette in scena il dramma delle relazioni familiari e dell’inattesa possibilità di trovare il volto di Dio nel volto del fratello (cfr Gen 33,10).
In lotta sin dal grembo materno
Il patriarca Isacco e sua moglie Rebecca non possono avere figli. Dopo una lunga attesa e tanta preghiera, il Signore concede loro una discendenza, più precisamente viene concepita la prima coppia di gemelli della storia biblica. La gestazione, per Rebecca, non risulta facile. Infatti, i due gemelli si urtano e sono in lotta sin dal grembo materno (cfr Gen 25,22). A causa della gravidanza travagliata, Rebecca consulta il Signore, il cui oracolo presenta un testo ambiguo e di difficile interpretazione sull’avvenire dei due gemelli, che può essere tradotto sia come «il maggiore servirà il minore» sia come «il minore servirà il maggiore»[1] (Gen 25,23). Questa ambiguità rimarrà importante per le vicende a seguire, perché la relazione fraterna sarà improntata non sulla solidarietà, ma sulla competizione e sul desiderio di rivalsa, aspetti fomentati dalle preferenze dei genitori.
Alla nascita, viene presentato un ritratto dei due gemelli che anticipa gli sviluppi futuri del racconto e forma le prime impressioni del lettore su Esaù e Giacobbe: «Uscì il primo, rossiccio, tutto come un mantello di pelo, e fu chiamato Esaù»[2] (Gen 25,25).
Il narratore offre una descrizione fisica di Esaù, che alla nascita presenta dei tratti quasi animaleschi e selvaggi. Egli, infatti, è un neonato rosso e irsuto. Il termine «rossiccio», adoperato nella descrizione, richiama «Edom», un vocabolo che ricorrerà poco più avanti (cfr Gen 25,30) e che fa riferimento alla nazione che nascerà da Esaù, mentre il sostantivo «pelo» suonerebbe in ebraico simile a «Seir», un toponimo che indica la zona montuosa dove gli abitanti di Edom si insedieranno (cfr Gen 33,16). Inoltre, i tratti esteriori del bambino anticipano quanto avverrà successivamente nel racconto. Infatti, la parola «rossiccio» richiama anche quella minestra rossa per la quale Esaù venderà la primogenitura (cfr Gen 25,30), mentre la villosità di Esaù ispirerà lo stratagemma di Rebecca, che coprirà Giacobbe di un vello di capra, affinché il vecchio Isacco lo identifichi per il primogenito e gli accordi la sua benedizione (cfr Gen 27). La presentazione di Giacobbe è altrettanto ricca: «Subito dopo, uscì suo fratello e la sua mano afferrava il calcagno di Esaù; fu chiamato Giacobbe» (Gen 25,26).
Mentre la descrizione di Esaù riguarda il suo aspetto esteriore, quella di Giacobbe invece è più dinamica, perché viene mostrata l’azione che egli compie all’uscita dal grembo materno, mentre afferra il tallone del fratello maggiore[3]. Il nome proprio Yakob, «Giacobbe», si basa sulla parola ebraica che indica il «tallone», ma al tempo stesso contiene in sé la radice di un verbo che vuol dire «insidiare», «soppiantare», «tallonare». Questo gesto darà il nome al nuovo nato e anticiperà lo scontro tra i due fratelli e le azioni che Giacobbe ordirà ai danni di Esaù.
In seguito, il narratore presenta due ritratti antitetici dei due gemelli, che crescono in maniera differente: «I fanciulli crebbero ed Esaù divenne abile nella caccia, un uomo del campo, mentre Giacobbe era un uomo onesto / integro / innocente, che dimora sotto le tende» (Gen 25,27).
Esaù è un abile cacciatore, un uomo che vive all’aperto, mentre Giacobbe sta in casa. Attraverso questa descrizione, Esaù è associato a un altro personaggio che prima di lui è definito come un valente cacciatore: Nimrod, il sovrano di Babele, Ninive e Assur (cfr Gen 10,8-12). La comparazione non è certo lusinghiera. Inoltre, la descrizione di Esaù è esterna e mostra i tratti e le abilità esteriori del primogenito di Rebecca, ma non altre qualità e attitudini più interiori[4]. Giacobbe, per contro, è descritto con una parola ebraica che può essere tradotta come onesto / integro / innocente. Forse c’è dell’ironia dietro la definizione di Giacobbe come giusto e innocente. Al contrario, egli si rivelerà furbo e scaltro.
Successivamente viene detto che Esaù è amato dal padre a causa della sua abilità nella caccia, mentre Giacobbe è amato dalla madre (cfr Gen 25,28). Esaù è strumentalizzato poiché è amato in funzione di ciò che fa per soddisfare gli appetiti paterni, mentre Giacobbe è il preferito della madre Rebecca forse per il suo stare vicino a lei sotto le tende, un ambiente meno selvaggio rispetto alle steppe frequentate dal primogenito.
Doppio inganno
Giacobbe, fedele al suo nome, alla prima occasione approfitta della debolezza del fratello. Esaù, infatti, sta tornando dalla campagna affaticato e sfinito, mentre Giacobbe ha appena preparato una minestra (cfr Gen 25,29). Le prime parole pronunciate da Esaù nel racconto sono come dei borbottii concitati e grossolani: «Disse Esaù a Giacobbe: “Lasciami mangiare da questa cosa rossa rossa, perché io sono sfinito”» (Gen 25,30).
Per la foga e la fame, Esaù non riesce nemmeno a trovare la parola giusta per indicare la minestra. Parimenti, il verbo mangiare da lui utilizzato designa il «cibarsi inghiottendo»[5]. Questi elementi offrono un ritratto animalesco e impulsivo di Esaù. Giacobbe, invece, con abilità e intelligenza, fa leva sulla debolezza e sullo stato di necessità in cui si trova il fratello per chiedergli la primogenitura in cambio della minestra. Esaù, preso dall’irruenza e dalla paura di morire (cfr Gen 25,32), giura e vende la primogenitura a Giacobbe. «Giacobbe diede a Esaù il pane e la minestra di lenticchie; egli mangiò e bevve, poi si alzò e se ne andò. Esaù disprezzò la primogenitura» (Gen 25,34).
Avviene lo scambio della propria condizione di figlio primogenito con la minestra di lenticchie. La rapida catena dei verbi, che si susseguono uno dopo l’altro, mostra ancora una volta la precipitosità e l’impulsività di Esaù[6], che sazia la propria fame e va via senza dire nemmeno una parola. La nota finale del narratore è determinante per la caratterizzazione. Mentre il racconto, nonostante tutto, indirizzava la simpatia del lettore verso Esaù, giocato e raggirato dal fratello, ora il sommario conclusivo si rivela decisivo per l’interpretazione dell’episodio, poiché il comportamento di Esaù viene deplorato e biasimato.
La narrazione mostra un Giacobbe astuto e freddo, calcolatore e manipolatore, mentre Esaù appare emotivo e rozzo, volubile e sconsiderato. Purtroppo, la competizione tra i due gemelli, che non potrebbero apparire più diversi, assume toni sempre più drammatici quando anche i genitori entrano in scena con le loro preferenze. Infatti, per una seconda volta Esaù verrà defraudato di qualcosa da parte del fratello. Il racconto di un secondo inganno allarga una frattura che non sembra più risanabile.
«Quando Esaù ebbe quarant’anni, prese in moglie Giuditta, figlia di Beerì l’Ittita, e Basmat, figlia di Elon l’Ittita. Esse furono causa d’intima amarezza per Isacco e per Rebecca» (Gen 26,34-35).
Esaù sposa donne straniere provenienti da altri popoli e ciò suscita dolore e tristezza nei genitori. Il doppio matrimonio pagano di Esaù potrebbe aver confermato Rebecca in un’interpretazione dell’oracolo di Gen 25,23 a favore di Giacobbe, il figlio da lei amato, che si dimostrerebbe più meritevole di ereditare la benedizione paterna, perché non contaminato da legami con mogli straniere. Al tempo stesso, queste informazioni influenzano anche l’interpretazione del lettore, che si avvicinerà al racconto successivo con una disposizione negativa verso Esaù.
Isacco è ormai vecchio e cieco, ed Esaù è il figlio a cui è destinata la benedizione. Il lettore sa bene che Isacco ama Esaù per la cacciagione che il figlio gli procura. In questa direzione va l’ultimo comando del padre: «Ora prendi le tue armi, la tua faretra e il tuo arco, esci in campagna e caccia per me della selvaggina. Poi fa per me un piatto saporito come io amo. Io lo mangerò affinché possa benedirti prima di morire» (Gen 27,3-4).
Esaù è il figlio obbediente che compie le volontà di Isacco, ignaro di quanto Rebecca e Giacobbe ordiranno contro di lui. Infatti, la madre, non vista, ascolta la conversazione e manipola Giacobbe affinché con inganno sia lui a ereditare la benedizione paterna al posto di Esaù. Giacobbe appare restio a compiere tale azione, ma viene persuaso dalla madre, che fa preparare una pietanza per Isacco, riveste il figlio minore degli abiti di Esaù e le braccia e il collo con le pelli di capretti, affinché Giacobbe assuma il rustico odore del fratello e al tatto rassomigli al villoso Esaù.
«Giacobbe rispose a suo padre: “Io sono Esaù, il tuo primogenito. Ho fatto come tu mi hai ordinato. Alzati, dunque, siediti e mangia la mia selvaggina, perché tu mi benedica”. Isacco disse al figlio: “Come hai fatto presto a trovarla, figlio mio!”. Rispose: “Il Signore tuo Dio me l’ha fatta capitare davanti”» (Gen 27,19-20).
Giacobbe mente, presentandosi al padre come Esaù, e dice il falso sull’origine della selvaggina, chiamando in causa Dio in modo inopportuno. Dall’altro lato, per Isacco, che è cieco, due sensi sono in conflitto. Secondo l’udito, la voce è quella di Giacobbe; secondo il tatto, invece, la pelosità delle braccia sarebbe la prova che è proprio Esaù quello che gli sta di fronte. Isacco è ancora nell’incertezza, perché non sa se ha davanti un impostore o se si tratta del figlio giusto. La vista non può aiutare il vecchio padre, mentre l’udito e il tatto sono in contrasto tra loro. Eppure, nonostante l’anzianità, Isacco rimane lucido e con intelligenza interroga ancora un altro dei suoi sensi; alla fine sarà l’olfatto a dirimere la questione. La vicinanza di Giacobbe consente a Isacco di annusarne gli abiti:
«Ecco, l’odore del mio figlio,
come l’odore di un campo
che il Signore ha benedetto.
Dio ti conceda rugiada dal cielo,
terre grasse, frumento
e mosto in abbondanza.
Popoli ti servano
e genti si prostrino davanti a te.
Sii il signore dei tuoi fratelli
e si prostrino davanti a te i figli di tua madre.
Chi ti maledice sia maledetto
e chi ti benedice sia benedetto!» (Gen 27,27b-29).
Il ritorno di Esaù, dopo che Giacobbe ha rubato la benedizione (vv. 5-30), assume toni drammatici sia per il padre che per il figlio. L’intensità della narrazione è resa attraverso l’accentuazione degli elementi emotivi e affettivi. «Gli disse suo padre Isacco: “Chi sei tu?”. Rispose: “Io sono il tuo figlio primogenito, Esaù”» (Gen 27,32).
Quando Esaù arriva a pronunciare il proprio nome, si apre l’infelice riconoscimento da parte di Isacco. L’espressione qui adoperata è molto forte: «Isacco tremò di terrore estremamente grande» (Gen 27,33a).
Il vecchio padre, seppur ingannato, non può far altro che sancire l’irrevocabilità della benedizione accordata a Giacobbe (cfr v. 33b). Così la compostezza di Esaù si rompe e si tramuta in un grido di dolore: «Quando Esaù sentì le parole di suo padre, scoppiò in alte, amarissime grida. […] Disse: “Forse perché si chiama Giacobbe mi ha soppiantato già due volte? Già ha carpito la mia primogenitura ed ecco ora ha carpito la mia benedizione!”» (Gen 27,34.36).
Dopo la scossa emotiva, Esaù formula un amaro ragionamento su Giacobbe, il cui nome viene collegato etimologicamente alla sua reiterata azione di soppiantare il fratello: prima prendendogli la primogenitura e adesso sottraendogli la benedizione. Per tre volte, in un crescendo drammatico, Esaù chiederà invano di essere benedetto a sua volta (cfr 27,34.36b.38). Egli, come un bambino addolorato, prorompe in un ultimo e disperato tentativo: «Esaù disse a suo padre: “Hai una sola benedizione, padre mio? Benedici anche me, padre mio!”. Esaù alzò la voce e pianse» (Gen 27,38).
Da questo momento Esaù comincerà a perseguitare suo fratello a causa della benedizione che gli è stata sottratta: «Esaù osteggiò Giacobbe a causa della benedizione con cui suo padre lo benedisse. Disse Esaù nel suo cuore: “Si avvicinano i giorni del lutto per mio padre; allora ucciderò mio fratello Giacobbe”» (Gen 27,41).
Non viene utilizzato il verbo «odiare», ma il verbo «osteggiare», che indica un rancore e un’ostilità che si prolungano nel tempo. Esaù cova dentro di sé il proposito di uccidere suo fratello. Per questo motivo Rebecca ordina a Giacobbe di fuggire lontano, a Carran (cfr Gen 27,42-45). La palese preferenza della madre per Giacobbe, a detrimento di Esaù, condurrà il figlio tanto amato a vivere lontano da lei, per evitare una escalation di violenza che avrebbe potuto privare la madre di entrambi i suoi figli. Successivamente, con grande strategia e abilità manipolatoria[7], la matriarca fa leva sul vecchio marito, manifestando in maniera accorata la sua disapprovazione per le donne ittite e la sua paura per un eventuale matrimonio di Giacobbe con donne straniere, come è già accaduto a Esaù (cfr Gen 26,34-35). L’intervento di Rebecca su Isacco si rivela decisivo e prepara la nuova benedizione che l’anziano patriarca impartirà a Giacobbe prima della sua partenza verso la terra di suo zio Labano, dove cercherà moglie tra la sua parentela. Esaù vede che Giacobbe è stato benedetto nuovamente ed è a conoscenza del comando di Isacco – a cui Giacobbe obbedisce – di prendere una moglie in Paddan-Aram e di non sposare le figlie dei cananei (cfr Gen 28,6). Tuttavia, la reazione di Esaù è diversa da quanto il lettore potrebbe immaginarsi: «Esaù vide che le figlie di Canaan erano cattive agli occhi di suo padre Isacco» (Gen 28,8).
Esaù finalmente si rende conto e comprende che al padre non piacciono le cananee, e va presso Ismaele, fratello di Isacco, a prendere una sua figlia come moglie. Esaù riconosce la connessione tra benedizione e matrimonio e l’amarezza che le mogli ittite generano nei suoi genitori (cfr Gen 26,35)[8]. Egli non appare schiavo dell’odio, ma sa ancora riflettere e fare scelte sensate per compiacere suo padre.
Vedere Dio faccia a faccia
Esaù viene reintrodotto più avanti nel racconto attraverso il punto di vista di Giacobbe, il quale, dopo molti anni di assenza, sta ritornando verso la casa di suo padre (cfr Gen 32–33). Se si esclude la prospettiva di Giacobbe, segnata dal timore di una vendetta, il lettore non ha altre fonti di informazione su Esaù, il quale, dopo i fatti legati alla benedizione sottratta, era scomparso dal racconto. Ciò aumenta la tensione narrativa in vista dell’incontro imminente tra i due gemelli. Giacobbe sa bene che tornare alla terra dei padri vuol dire affrontare il proprio fratello, quel fratello che nutriva verso di lui sentimenti di rivalsa e progetti di vendetta, fino a minacciare la sua stessa vita. Il lettore viene informato che Giacobbe manda dei messaggeri al fratello (cfr Gen 32,4). Il loro ritorno apre prospettive drammatiche per Giacobbe, mentre la storia sembra volgere verso un esito tragico. Esaù, infatti, sta andando incontro al fratello con 400 uomini. Il numero è considerevole: forse Esaù sta pensando in questo modo di realizzare la propria vendetta? Riuscirà Giacobbe a giungere sano e salvo alla terra di suo padre? Le premesse non sembrano incoraggianti.
Qui il narratore ci comunica i sentimenti di Giacobbe: «Giacobbe ebbe molta paura e si sentì angustiato» (Gen 32,8). Dopo aver ascoltato le parole dei messaggeri, egli è spaventato e angosciato[9]. Così Giacobbe mette in atto una strategia disperata, dividendo la sua gente in due accampamenti (cfr Gen 32), nella speranza che almeno uno si salvi. Successivamente, forse per la prima volta, egli prega con quella sincerità che gli viene dal sentirsi in pericolo mortale: «Salvami dalla mano di mio fratello, dalla mano di Esaù, perché io ho paura di lui: che egli non arrivi e colpisca me, la madre e perfino i bambini!» (v. 12). Lo spavento e l’angoscia lo spingono a adoperarsi per trovare una soluzione per salvare la sua famiglia e sé stesso. Giacobbe prepara i doni per il fratello, mandandoli avanti a sé divisi in diversi gruppi (cfr vv. 14-22). Se Esaù rifiuterà il primo dono, ne arriverà un secondo, un terzo ecc. La strategia di marketing è molto fine. Se Esaù accoglierà i doni, vorrà dire che le sue intenzioni sono pacifiche e Giacobbe non avrà nulla di cui preoccuparsi.
Il racconto che segue, però, si svolge sotto il peso incombente di una minaccia mortale su Giacobbe e sulla sua famiglia. Alla luce degli eventi, che in passato lo hanno opposto al fratello, il suo sguardo è intriso di terrore. L’incontro con Esaù viene lungamente preparato da Giacobbe, e questo aumenta la tensione narrativa. Anche la lotta con una figura misteriosa durante l’attraversamento dello Iabbok diventa mimesi di quanto Giacobbe si aspetta e anticipazione di quella lotta con il fratello che egli attende con angoscia.
«Durante quella notte egli si alzò, prese le due mogli, le due schiave, i suoi undici bambini e passò il guado dello Iabbok. Li prese, fece loro passare il torrente e portò di là anche tutti i suoi averi. Giacobbe rimase solo e un uomo lottò con lui fino allo spuntare dell’aurora» (Gen 32,23-25).
Tutti passano il fiume, solo Giacobbe rimane dall’altra parte e incontra un uomo contro il quale combatte. Chi è costui? Sono diverse le spiegazioni possibili. Secondo alcune credenze popolari, i guadi dei fiumi sono custoditi da trolls, spiriti magici contro cui occorre lottare per acquisire il diritto di attraversarli. Un’altra interpretazione è più psicologica: Giacobbe prepara nella sua mente, dentro di sé, la lotta che dovrà intraprendere col fratello. Egli è terrorizzato dalla prospettiva di doversi scontrare con Esaù. L’uomo che lotta con lui nella penombra potrebbe essere una sorta di proiezione psicologica della sua paura. Dopo tante lotte, sin dal grembo materno, adesso Giacobbe sta lottando per acquisire una nuova identità, duellando non più contro gli altri, ma contro sé stesso[10]. Quest’uomo misterioso non riesce ad avere il sopravvento su Giacobbe e per questo lo colpisce all’articolazione del femore.
«Quello disse: “Lasciami andare, perché è spuntata l’aurora”. Giacobbe rispose: “Non ti lascerò, se non mi avrai benedetto!”. Gli domandò: “Come ti chiami?”. Rispose: “Giacobbe”. Riprese: “Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele, perché hai combattuto con Dio e con gli uomini e hai prevalso!”» (Gen 32,27-29).
Questo personaggio misterioso non è semplicemente uno spirito che difende i guadi dei fiumi, ma si rivela come Dio stesso, perché è il Signore che ha il potere di cambiare il nome e, dunque, l’identità di qualcuno. Il termine «Israele» ha un’etimologia incerta: probabilmente vuol dire «colui che ha combattuto Dio». Inoltre, solo Dio può rivelare a Giacobbe di aver combattuto contro Dio.
«Giacobbe allora gli chiese e disse: “Ti prego, dimmi il tuo nome”. Gli rispose: “Perché mi chiedi il nome?”. E lì lo benedisse. Allora Giacobbe chiamò quel luogo Penuèl [faccia di Dio]: “Davvero – disse – ho visto Dio faccia a faccia, eppure la mia vita è rimasta salva”. Spuntava il sole, quando Giacobbe passò Penuèl e zoppicava all’anca» (Gen 32,30-32).
Mentre Giacobbe lasciava la sua terra e fuggiva, il sole tramontava (cfr Gen 28,11). Invece, adesso che ritorna a casa, il sole sorge. Eppure, questa lotta lascia dei segni indelebili. Da questo momento in poi, insieme a un nuovo nome, un claudicante Giacobbe porterà sulla propria carne le cicatrici della lotta.
Un incontro inaspettato
Giacobbe/Israele va incontro al fratello prostrandosi sette volte fino a terra, ma le aspettative di Giacobbe vengono disattese. Né lui, né il lettore, che è assorbito dalla prospettiva terrorizzata di Israele[11], si sarebbero aspettati un tale esito per l’intera vicenda: «Ma Esaù gli corse incontro, lo abbracciò, gli si gettò al collo, lo baciò e piansero» (Gen 33,4).
Il rancore covato persistentemente da Esaù e il desiderio di vendetta trattenuto nella coscienza di Giacobbe lasciano all’improvviso spazio a gesti generosi e carichi di affetto. Esaù va incontro al fratello, lo abbraccia e lo bacia. Entrambi piangono, commossi e stravolti dalla modalità inattesa di questo incontro. Chi andava meditando progetti di vendetta contro colui che gli aveva carpito la primogenitura e la benedizione, adesso è pronto ad accogliere e a perdonare. Esaù, che era stato descritto come peloso, quasi animalesco, mosso dagli istinti, deprecabile nel suo anteporre un piatto di minestra alla primogenitura, il cui destino sembrava seguire i passi di Caino, adesso appare radicalmente trasformato. La sorpresa è grande sia per Giacobbe sia per il lettore: un tale esito, infatti, era imprevedibile[12].
Giacobbe appare ossequioso verso Esaù, mostrandosi come suo servo. Le schiave e i loro figli, Lia e i suoi figli, Rachele e Giuseppe si fanno avanti e si prostrano davanti a Esaù (cfr Gen 33,6-7). Tutti partecipano all’omaggio verso colui che Giacobbe chiama più volte «mio signore». Diversamente da quanto ci si potrebbe aspettare, il «signore» non è Giacobbe, ma Esaù[13]. Israele, infatti, non si rivolgerà mai a Esaù chiamandolo «fratello», ma sempre «signore» (vv. 8.12.14.15). La benedizione di Isacco è ribaltata e il racconto dà forza a questo rovesciamento. Giacobbe, infatti, dice al fratello: «[…] “Se ho trovato grazia ai tuoi occhi, accetta dalla mia mano il mio dono, perché ho visto la tua faccia come si vede la faccia di Dio e tu mi hai gradito. Prendi la mia benedizione [birḵāṯî] che ti è stata presentata, perché Dio mi ha favorito e sono provvisto di tutto!”. Così egli insistette e quegli accettò» (Gen 33,10-11).
Giacobbe riconosce nel volto del fratello il volto di Dio, come sul guado di Penuèl aveva riconosciuto la faccia di Dio nello scontro con un uomo misterioso. Ma c’è di più: questa volta Giacobbe non sta offrendo a Esaù un dono tra tanti, ma sta restituendo idealmente la benedizione che aveva sottratto al fratello con l’inganno. Così abbiamo assistito al mutamento radicale di Esaù, che non vuole più uccidere Giacobbe, e ora viene anche mostrata la conversione di Giacobbe, che restituisce quanto aveva strappato con frode. Giacobbe farà tesoro della lezione appresa. Infatti, al termine della sua vita egli concederà la benedizione a ciascuno dei suoi discendenti, senza limitarsi a darla a un solo figlio (cfr Gen 49,28).
Tuttavia, nonostante questa inattesa riconciliazione, in Giacobbe rimarrà ancora una certa diffidenza verso il fratello. Infatti, egli non seguirà Esaù a Seir, come gli aveva annunciato, ma prenderà un’altra strada, separandosi da lui (cfr Gen 33,14.17). Più avanti nel racconto i due gemelli si incontreranno nuovamente per seppellire insieme il padre Isacco (cfr Gen 35,29). Quest’ultimo episodio conferma il persistere di un buon rapporto e di un solido legame tra di loro anche se le loro strade si sono separate.
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Le vicende di Esaù e Giacobbe ci immergono nel realismo dei racconti biblici, dove l’incontro con Dio non avviene in una realtà celeste o astratta, ma nelle vicende spesso controverse di uomini e donne che, attraverso i conflitti e le contraddizioni della vita, possono scoprire Dio proprio laddove sono aperte quelle ferite che sanguinano e hanno bisogno di essere sanate. Per questo motivo è sorprendente come Giacobbe, al termine di un lungo cammino, arrivi a riconoscere il volto di Dio nel volto del fratello, quello stesso fratello da lui raggirato e che gli si era rivoltato contro. Nell’accogliere una salvezza inattesa e un’insperata possibilità di riconciliazione da colui che credeva suo nemico, Giacobbe fa esperienza del Dio delle benedizioni che ricostruisce le relazioni spezzate.
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[1]. L’assenza della particella dell’accusativo rende difficile capire quale sia il soggetto e quale l’oggetto del verbo «servire». Cfr R. E. Friedman, Commentary on the Torah, San Francisco, Harper Collins, 2001, 88.
[2]. La traduzione dei testi biblici è a cura dell’autore.
[3]. Cfr J. P. Fokkelman, Narrative Art in Genesis: Specimens of Stylistic and Structural Analysis, Eugene, Wipf & Stock Publishers, 19912, 90.
[4]. Cfr R. J. Clifford, «Genesis 25:19-34», in Interpretation 45 (1991/4) 399.
[5]. Nell’ebraico rabbinico tale verbo è adoperato per gli animali (cfr R. Alter, Genesis: Translation and Commentary, New York, W. W. Norton & Company, 1997, 129).
[6]. Cfr R. Alter, Genesis…, cit., 130.
[7]. Rebecca esprime la propria repulsione per i matrimoni ittiti, conseguendo un doppio effetto: da un lato, ottiene la partenza di Giacobbe; dall’altro, senza nominarlo, discredita Esaù, che ha sposato donne ittite (cfr R. Alter, Genesis…, cit., 145).
[8]. Fokkelman sottolinea come i vv. 6 e 8 offrano al lettore per due volte il punto di vista di Esaù, che da un lato «vede» la benedizione accordata a Giacobbe, dall’altro «vede» che Isacco non è disposto favorevolmente verso le donne cananee. In tal modo i due elementi della benedizione e del matrimonio appaiono connessi nel pensiero di Esaù (cfr J. P. Fokkelman, Narrative Art in Genesis…, cit., 105).
[9]. Secondo un midrash, Giacobbe «si spaventò molto, cioè ebbe paura di essere ucciso; si sentì angosciato di dover forse uccidere altri» (Berešit Rabbȃ, 66b).
[10] Cfr R. Alter, Genesis…, cit., 181.
[11]. Cfr J. P. Sonnet, «“J’ai vu ton visage come on voit le visage de Dieu” (Gn 33,10). Un comble: la surprise entre jumeaux», in G. Van Oyen – A. Wénin (edd.), La surprise dans la Bible. Hommage à Camille Focant, Louvain, Peeters, 2012, 25.
[12]. Le parole al v. 4 richiamano l’episodio di un’altra persona, protagonista di una parabola lucana, che torna a casa dopo una lunga assenza e che, immaginando per sé un futuro da servo, si scopre figlio del padre, il quale, «mentre era ancora lontano, lo vide e ne ebbe compassione; corse, gli si gettò al collo e lo baciò» (Lc 15,20).
[13]. Cfr R. Alter, Genesis…, cit., 185.