a cura di V. FANTUZZI
Twentynine Palms (Francia-Germania, 2003). Regista: BRUNO DUMONT. Interpreti principali: K. Golubeva, D. Wissak.
Un uomo e una donna (David e Katia), lui americano, lei russa. Comunicano reciprocamente con un francese un po’ stentato. A volte si capiscono, a volte no. Viaggiano in automobile. Dopo aver lasciato la città, con il suo traffico congestionato, si avviano verso il deserto. Siamo in California. Un villaggio con poche case, un centro commerciale, un distributore di benzina, un motel… Uno dei tanti abitati, dall’aspetto informe, disseminati lungo un orizzonte che non ha confini. Il villaggio ha un nome, Twentynine Palms, ma chi lo ricorda? Può darsi che in altri tempi, quando non c’erano né strade asfaltate, né automobili che passano ad alta velocità, qui ci fosse una piccola oasi. Una falda acquifera, proveniente da chissà quale profondità del sottosuolo, alimentava poche palme dal ciuffo polveroso. Qualcuno le ha contate: 29. D’ora in avanti quelle palme saranno ricordate forse, assieme al luogo al quale hanno dato il nome, per via di uno strano film che un regista francese è venuto a girare da queste parti.
Prima di Twentynine Palms, Bruno Dumont, ex professore di filosofia originario di Bailleul nel Nord della Francia, aveva realizzato altri due lungometraggi ambientati nella sua regione, una zona mineraria ai confini con il Belgio. In entrambi i casi si era trattato di film, alla loro maniera, mineralogici: L’età inquieta (titolo originale La vie de Jésus, 1997, cfr Civ. Catt. 1998 III 211 s) e L’umanità, 1999 (cfr ivi, 2000 II 269-275). Non c’è che da ammirare il coraggio con il quale questo cineasta di provincia, giunto a un momento decisivo della sua carriera, ha saputo tagliare gli ormeggi per lanciarsi in una grande avventura. Il lembo di terra al quale è approdato non potrebbe essere più lontano, sotto tutti i profili, da quello dove è cresciuto e nei confronti del quale ha dimostrato di nutrire un attaccamento quasi morboso. Dai cieli cupi alla Bresson (maestro dal quale deriva la sua concezione dello stile cinematografico) Dumont passa, con il terzo film, al paesaggio che fa da sfondo a tanti western del cinema americano classico. Può darsi che gli abbia fatto da guida l’Antonioni di Zabriskie Point (1970) che, seguendo la scia dei «figli dei fiori», aveva preso la via del deserto americano in un tentativo estremo di fuga dalla civiltà.
Nel cambiare ambiente, Dumont non abbandona le sue abitudini di scrutatore attento della realtà. In un momento nel quale la donna rimane sola nell’automobile, assorta nei suoi pensieri, il regista si avvicina con la macchina da presa al suo volto, come se si trattasse di un oggetto da osservare con una lente d’ingrandimento. L’espressione della donna cambia impercettibilmente attimo dopo attimo. Un vago sorriso, un’increspatura della pelle, una tristezza sconfinata che sale dal profondo e inonda di lacrime gli occhi… Dumont dice di non aver spiegato all’attrice quello che doveva fare, prima di girare questa scena ripresa con un solo spezzone di pellicola. Ha approfittato della situazione che era venuta a determinarsi tra loro due dopo che la donna gli aveva confidato le difficoltà nelle quali si stava dibattendo la sua vita. Il regista si è valso di ciò che aveva appreso nel colloquio riservato per stabilire davanti alla macchina da presa un rapporto di tensione tra lui e lei. Il resto era venuto da solo.
Il deserto, il vuoto, il silenzio, la solitudine, la paura. David e Katia si amano, ma non riescono a stabilire tra loro un rapporto armonioso. Il viaggio attraverso il deserto dovrebbe coincidere, per ciascuno dei due, con una ricognizione del proprio essere profondo. Lasciata la strada principale, la vettura (un robusto fuoristrada) s’inoltra per viottoli impervi. David viaggia per motivi di lavoro. Deve eseguire non meglio precisati sopralluoghi (si tratta forse di un regista cinematografico, di un fotografo o di un videoamatore, qualcuno comunque che ha che fare con le immagini). Katia lo segue per stare con lui. Lasciata la vettura, si inerpicano entrambi tra rocce che sembrano sculture gigantesche. Provano il contatto diretto con la natura. I loro corpi, visti da lontano, sono come granelli di sabbia perduti nell’immensità del creato.
Eppure, dentro i corpi palpita una vita che non si limita a un dato biologico. La paura del vuoto, dal quale David e Katia si sentono circondati, suscita dentro di loro uno stato di angoscia che produce effetti devastanti. La sofferenza che li attanaglia è diversa da quella che si può sperimentare con i sensi. La tentazione, dalla quale si sentono attratti, consiste nel regredire dall’umano al subumano. Ma non è questa la strada giusta. Il deserto è un luogo pieno di insidie. La paura indistinta, che si avverte nell’aria, può concretizzarsi da un momento all’altro in incontri spaventosi. È ciò che accade a David e a Katia. Non c’è limite all’abbruttimento e all’abiezione. Il loro viaggio si trasforma in agghiacciante disavventura. L’uomo e la donna (novelli Adamo ed Eva) si imbattono nell’origine del male. Il film si conclude con scene di violenza che, con rapido crescendo, giungono all’omicidio e al suicidio. Si ristabilisce così lo stesso clima di tragedia (dal quale scaturisce per contrasto la necessità di un riscatto) che aveva caratterizzato le precedenti pellicole di Dumont.