a cura di V. FANTUZZI
La città proibita (Cina – Hong Kong, 2006). Regista: ZHANG YIMOU. Interpreti principali: G. Li, C. Yun-Fat, J. Chou, L. Ye, C. Jin, Q. Jungien.
I gialli petali di crisantemo che cadono al rallentatore nella prima inquadratura del film La città proibita prefigurano la carneficina finale nella quale i soldati con armature giallo oro cadono a migliaia, come fiori recisi, sotto i colpi di altri soldati che, protetti da armature brune, difendono la sede del plurimillenario potere imperiale della Cina. Siamo nell’anno 928 della nostra era. Dopo la fine della dinastia Tang, cinque distinte famiglie si avvicendano in un breve periodo (907-960) sul trono cinese. Per l’imperatore non è facile destreggiarsi sottraendosi alle influenze del palazzo e a quelle del gineceo e prevenendo i complotti sempre pronti a serpeggiare nell’ambiente infido degli eunuchi di corte.
La prima sequenza del film mostra la schiera delle damigelle al servizio dell’imperatrice, che si abbigliano seguendo ordini precisi, per partecipare a una cerimonia, mentre una scorta di soldati a cavallo accompagna l’imperatore che si sposta in lettiga da un luogo a un altro del suo dominio. Le due azioni — quella delle damigelle e quella dei soldati — sono montate in parallelo. Contrasto di ambienti (interno-esterno) e di colori (tonalità calde – tonalità fredde). L’accostamento suggerisce l’idea di un codice di comportamento applicato con rigore nelle stanze del palazzo come tra i ranghi dell’esercito. La cerimonia che si prepara è l’accoglienza ufficiale dell’imperatore che torna da un viaggio. All’ultimo momento il rientro è rinviato e la cerimonia annullata. Accompagnando il messaggero che reca questa notizia attraversiamo «a volo di pipistrello» gli spazi della città proibita.
Dettaglio delle mani tremanti dell’imperatrice, che fruga tra i gioielli del suo tesoro personale per scegliere le pietre preziose con le quali completare il suo ornamento. L’imperatrice vacilla, tossisce, respira affannosamente… Ha il volto non più giovane di Gong Li, l’attrice scoperta da Zhag Yimou 20 anni fa con Sorgo rosso, che ha trascorso con lui un decennio di affiatamento nell’arte e nella vita. Dopo essere assurta al rango di icona della nuova Cina lavorando anche con altri registi in patria e all’estero, Gong Li torna a farsi dirigere dal suo «Pigmalione» in un film dove non nasconde le prime rughe che, come incrinature appena percettibili, segnano il suo collo di alabastro.
Se Bernardo Bertolucci ha avuto il privilegio unico di girare L’ultimo imperatore (1987) all’interno della città proibita, Zhang Yimou ha dovuto accontentarsi di ricostruirla con l’uso di scenografie posticce, alle quali conferiscono ampio respiro le risorse della computergrafica, negli studi cinematografici non lontani da Shanghai. Portali, muraglie, colonnati evocano un ambiente di sogno lontano dal film di Bertolucci (nel quale un sogno sognato da altri era rivissuto a occhi aperti) e vicino la suntuosa coreografia inventata per la Turandot di Puccini, che Zhang Yimou ha messo in scena qualche anno fa per conto del maggio musicale fiorentino.
Nel palazzo si prepara la festa dei crisantemi, celebrazione pubblica della suprema armonia che regna tra i contrari. Il sole si congiunge con la luna, il cielo con la terra, yin si unisce con yang. Ma tra Lui e Lei (l’imperatore e l’imperatrice) l’armonia è soltanto apparente. Da tre anni lei accoglie Wan (il figlio primogenito che l’imperatore ha avuto da un’altra donna) nella sua alcova. L’imperatore lo sa e fa avvelenare la moglie con un farmaco che, somministrato a piccole dosi, dovrebbe farle perdere l’uso delle facoltà mentali. Quanto al primogenito, pensa di rimpiazzarlo nella successione al trono con il secondogenito Jai.
Scoprendo che Wan la tradisce con un’ancella (figlia della stessa donna che ha dato alla luce il principe, ritenuta morta, ma in realtà gettata in una prigione dalla quale è riuscita a fuggire), l’imperatrice seduce il secondogenito, al quale affida il compito di guidare la ribellione da lei ordita contro l’imperatore. C’è un terzo principe (Yu) poco più che adolescente, il quale sotto l’aspetto di una serenità apparente nasconde rancori accumulati da tempo contro gli altri componenti della famiglia. Yu, in uno scatto d’ira, uccide Wan sotto gli occhi del padre. Questi, abbandonando per qualche momento la calma alla quale sono improntate le sue azioni e le sue reazioni, si avventa con furore sul terzogenito e, dopo averlo ucciso, infierisce sul suo cadavere. La rivolta, come si diceva all’inizio, è soffocata nel sangue.
Ripulito il luogo della battaglia, l’imperatore vuole che la festa dei crisantemi venga celebrata secondo il rito previsto. L’imperatore, l’imperatrice e il principe Jai (che è stato risparmiato nel corso dei combattimenti) siedono alla stessa tavola. L’imperatore, che mastica imperturbabile un boccone, vuole che il principe serva all’imperatrice la tazza avvelenata. Al suo rifiuto, Jai cade colpito a morte. Nel cielo esplodono i fuochi d’artificio che coronano la festa. Ancora una volta il potere ha vinto. Ma quale vittoria può essere quella di un padre costretto a uccidere i propri figli? Per chi ritiene che al cinema il presente si rispecchia nel passato è facile ricordare che piazza Tienanmen non è lontana.