a cura di V. FANTUZZI
La captive (Francia, 2000). Regista: CHANTAL AKERMAN. Interpreti principali: S. Merhar, S. Testud, O. Bonamy.
Ariane vive in un grande appartamento parigino con Simon, uomo geloso e sospettoso, che non la lascia mai sola e la tempesta di domande. La giovane è costretta a mentire per poter conservare un margine, sia pur minimo, di libertà. Simon sa di sbagliare, ma non riesce a fare a meno di controllare Ariane… Il film che la nota regista Chantal Akerman — nata a Bruxelles nel 1950, presenza apprezzata in numerosi festival internazionali — ha ricavato liberamente dal romanzo La prisonnière di Marcel Proust, presentato a Cannes (Quinzaine des réalisateurs) nel 2000, giunto solo ora sugli schermi italiani, raccontato in questo modo potrebbe sembrare il resoconto di un rapporto morboso tra strani individui. Per capire il senso del film vale la pena di prestare attenzione alla qualità delle immagini che lo compongono.
I titoli di testa, bianco su nero, sono accompagnati dal rumore delle onde del mare. La prima immagine che si vede rappresenta giovani donne in costume da bagno sulla riva del mare. Si tratta di un film amatoriale (tipico prodotto vacanziero) realizzato con una cinepresa a 8 mm, gonfiato a 36 e proiettato su grande schermo con le sgranature e le imperfezioni che ciascuno può immaginare. Il film amatoriale è privo di sonoro. Si ode il rumore di un piccolo proiettore in azione. Successivamente si vedrà il volto di Simon, autore del film a 8 mm, che lo sta proiettando da solo su una parete della sua camera. Durante la proiezione, l’uomo interloquisce con le immagini delle ragazze che giocano sulla spiaggia: «Io… vi… amo… molto».
Il sonoro senza immagini (sotto i titoli di testa). Le immagini senza sonoro (nel film amatoriale). Le sgranature della pellicola a 8 mm gonfiata, contrapposta alla nitidezza delle immagini con il primo piano di Simon. Il sincronismo del rapporto voce volto, contrapposto all’uso asincrono del rumore del mare… Tutti questi elementi inducono lo spettatore a pensare che la vicenda apparentemente realistica, narrata dal film, sia soltanto il pretesto per un uso del linguaggio audiovisivo che ha legami molto deboli con il realismo, mentre ne ha di più forti con la metafora, il simbolo, l’allegoria… Un linguaggio ripiegato su se stesso, che riflette sulla propria natura e sulla propria funzione. Il cinema, in questo caso, non si identifica con le cose che fa vedere, ma parte dalle cose per andare al di là di esse.
La prisonnière altro non è che la quinta parte del celebre À la recherche du temps perdu, opera narrativa in sette parti, pubblicata da Proust tra il 1913 e il 1927, uno dei vertici della letteratura del XX secolo. Il film, nel riprenderne la situazione di base, sconfina nella parte precedente (Sodome et Gomorrhe) e nella successiva (Albertine disparue). Cambiano i nomi dei personaggi e i tempi dell’azione che, dai primi del XX secolo, viene spostata ai nostri giorni. Le immagini del film, di straordinario nitore, si confrontano con la musicalità diffusa nella prosa proustiana. Operazione stilistica compiuta a ridosso di un’altra operazione stilistica, che pertanto esercita una funzione critica nei confronti della precedente. Dal film affiora quello che, secondo la Akerman, è il succo della Recherche.
Simon, l’uomo che pretende di possedere Ariane come se fosse un oggetto, attraverso un gioco di interpretazioni reciprocamente sovrapposte (alle quali si aggiunge quella dello spettatore del film, che riflette su un’opera audiovisiva nata dalla riflessione su un’opera letteraria), diventa il simbolo dell’Occidente, ricco e colto, che pensa di poter possedere la realtà di questo mondo, controllandola in ogni manifestazione, conoscendone tutti i segreti, mentre invece è lui a essere posseduto da una perversione che gli impedisce di stabilire rapporti fecondi con tutto ciò che, proprio perché lo circonda, in un modo o nell’altro lo trascende. Ariane muore. Simon, che ha voluto farla sua al di là di ogni limite di ragionevolezza, resta con un pugno di mosche. La mania dello sfruttamento e dell’accumulo di beni materiali fa dell’uomo moderno un distruttore dell’ambiente in cui vive e, alla lunga, un suicida perché in un mondo desertificato non ci sarà posto nemmeno per lui.