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Nella breve presentazione del gesuita Giuseppe Pittau fatta dal fratello Angelo – anch’egli sacerdote – vi è una scheggia di incisiva verità: «Sorrideva quando gli dicevano che era un giapponese che parlava bene l’italiano o che era un italiano che parlava bene il giapponese» (p. 8). Qui vengono citate le due terre di elezione di p. Pittau: l’Italia e il Giappone. Ma se l’Italia gli era stata donata dai genitori, il Giappone fu la sua scelta d’amore.
Costante segno nel cammino di p. Pittau restò sempre il sorriso. Sorridendo, egli stendeva gli occhi, consegnando all’interlocutore la traccia nipponica che serbava in sé. Consacrato vescovo nel 1998, incise sul suo stemma episcopale la sua intera esistenza: «Nel centro il sigillo della Compagnia di Gesù, nella parte inferiore le onde del mare che circonda la Sardegna, e nella parte superiore i ciliegi in fiore, che ricordano il Giappone» (p. 135).
Il libro presenta gran parte delle lettere che p. Pittau spediva a Natale a tutti i suoi amici. Esse erano testimonianza di un tempo di grazia che egli aveva ricevuto, vissuto e donato. Seguendo le lettere, si individuano i sentieri della sua formazione e del suo lavoro apostolico (umano, spirituale, intellettuale): Italia, Spagna, Giappone, Usa; ancora Giappone, Italia; e infine Giappone, terra che accoglierà la sua ultima «lotta di samurai».
Ci sembra un segno di amore la chiusa delle lettere iniziali dal Giappone, in cui p. Pittau si firma sempre «missionario del Giappone», «dal Giappone», «in Giappone». Un’identica attestazione di scelta anche alla fine, quando, «compiuti i miei 75 anni, ho chiesto di poter tornare al mio posto di missione, il Giappone» (p. 144).
In tutte queste lettere si percepisce come la vita di questo gesuita sia sempre stata dedicata a un costante conseguimento di umanità e a una sempre più intensa gloria di Dio. In tutti i momenti e luoghi del suo essere missionario p. Pittau ha guardato in avanti, positivamente, credendo nella capacità dell’uomo di perseguire il bene, il giusto, il bello: sia come professore, o rettore, o provinciale, o arcivescovo segretario della Congregazione per l’educazione cattolica. Prima di tornare definitivamente nella Terra del Sol Levante, ci dà l’immagine dell’uomo posseduto da Dio e volto verso l’uomo tout-court: «Il campo dell’educazione e della cultura è tra i più importanti per costruire comunità cristiane mature e preparate ed anche per predisporre il terreno all’annuncio del Vangelo. Forse l’unico mezzo di evangelizzazione, indiretto se si vuole, ma molto efficace, nei paesi a grande maggioranza non cristiana è l’apostolato dell’educazione» (p. 142).
In questi scritti non v’è retorica, non vi sono apologie di apparati istituzionali, ma la gioia e la persistenza in un’amata missione di profonda umanizzazione. Questa tensione resta anche alla fine della vita, non nel movimento, ma nel raccogliere tutti nell’unità della preghiera: «La mia attività pastorale – egli scriveva – è diventata la preghiera» (p. 156).
La lettura di queste pagine lascia la mente serena, accresciuta in umanità e in letizia: si è combattuta una battaglia e si è incrementata la fede iniziale. P. Pittau amerebbe sentirsi sussurrare ancora uno haiku da lui ben conosciuto: «Suona la campana / della sera della mia vita. / Ebbene, io gioisco del crepuscolo» (Issa).