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Con il cardinale Jean-Marc Aveline respiriamo a pieni polmoni l’aria del «Mare Nostrum», dove si mescolano i profumi del Nord e del Sud, dell’Est e dell’Ovest. Già quando era responsabile dell’educazione nella sua diocesi di Marsiglia, la teologia era per lui uno strumento di dialogo con le diverse esperienze umane e religiose di cui la «cité phocéenne» è un concentrato cosmopolita.
Originario del sud del Mediterraneo – Sidi-Bel-Abbès, nell’allora Algeria francese –, divenuto sacerdote a Marsiglia, teologo – fondatore dell’«Institut de science et de théologie des religions», parte dell’«Institut catholique de la Méditerranée» –, è arcivescovo dal 2019 e creato cardinale nel 2022. Attraverso i suoi impegni e il suo pensiero, incarna la «Teologia del Mediterraneo», delineata da papa Francesco. Con la profonda semplicità di un pastore e il calore di un figlio del Sud risponde ad alcune domande.
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Lei ha invitato papa Francesco a Marsiglia il 23 settembre per concludere gli «Incontri del Mediterraneo» (18-24 settembre 2023). Sono arrivati alla loro terza edizione. Di che cosa si tratta?
Si tratta di un processo di comunione tra i vescovi delle diocesi che si affacciano sul Mediterraneo. Questo processo, avviato dalla Conferenza episcopale italiana, ha permesso a una quarantina di vescovi di incontrarsi a Bari nel febbraio 2020 e poi di nuovo a Firenze nel febbraio 2022. Ma più ampiamente, questo processo è in linea con lo spirito dei viaggi mediterranei di papa Francesco, che lo hanno portato da Lampedusa (2013) a Marsiglia (2023), passando per Tirana, Sarajevo, Lesbo, Il Cairo, Gerusalemme, Cipro, Rabat, Napoli, Malta… Il Pontefice è impegnato a fare di questo mare un messaggio di speranza per tutti. A Bari, il Papa ha detto qualcosa su cui dobbiamo continuare a riflettere: «Il Mediterraneo ha una vocazione peculiare in tal senso: è il mare del meticciato, “culturalmente sempre aperto all’incontro, al dialogo e alla reciproca inculturazione”».
Gli incontri che si sono già svolti, come quello che si terrà a Marsiglia, hanno lo stesso obiettivo: permettere ai vescovi del Mediterraneo di riunirsi per progredire insieme, meditando sulla parola di Dio, ascoltandosi gli uni gli altri riguardo alle sfide che le loro Chiese devono affrontare, ma anche sulle risorse a cui possono attingere, nel tentativo di discernere ciò che lo Spirito li chiama a fare a servizio dei popoli affidati al loro ministero.
Quali saranno le caratteristiche originali dell’Incontro di Marsiglia?
Innanzitutto, mentre a Firenze sono stati invitati i sindaci di circa 60 città del Mediterraneo per rendere omaggio a Giorgio La Pira, a Marsiglia abbiamo scelto di invitare studenti e giovani professionisti di tutto il Mediterraneo, di tutte le nazionalità e religioni, che hanno accettato di lavorare insieme e con i vescovi. Accoglieremo giovani israeliani e palestinesi, giovani greci e turchi, giovani algerini e marocchini, e così via. Ci saranno anche alcuni giovani migranti che parteciperanno al nostro lavoro. Questa settantina di giovani resterà a Marsiglia per un’intera settimana, da domenica 17 a domenica 24 settembre, con un programma educativo adattato, e da mercoledì sera accoglierà i vescovi – circa 70 –, anch’essi provenienti da quasi tutti i Paesi del Mediterraneo.
Giovani e vescovi arriveranno da tutte le sponde del Mediterraneo?
Sì, questa è un’altra caratteristica originale. Verranno dalle cinque sponde del Mediterraneo: Nord Africa, Vicino Oriente, Mar Egeo e Mar Nero, Penisola Balcanica ed Europa meridionale. Adotteremo un metodo sinodale: meditare la parola di Dio, ascoltarci, discernere insieme e sviluppare linee d’azione, in particolare raccogliendo le riflessioni degli studenti e dei giovani professionisti presenti con noi. Condividendo le nostre «buone pratiche», cercheremo anche di dotarci dei mezzi per un processo di riflessione e azione per gli anni a venire.
Infine, la terza caratteristica originale dei Rencontres Méditerranéennes de Marseille è che saranno accompagnati da un festival per portare l’evento a un pubblico più ampio, con una vasta gamma di concerti, spettacoli teatrali, incontri interreligiosi, dibattiti, veglie di preghiera, tra cui uno Shabbat aperto a tutti nella principale sinagoga di Marsiglia, nonché un grande banchetto di solidarietà nella cattedrale per le persone in situazioni precarie e i migranti, e così via.
Come si inserirà la presenza del Papa?
Il 23 settembre, papa Francesco concluderà l’Assemblea dei vescovi e l’incontro dei giovani con una sessione di lavoro al Palais du Pharo. Prima di ciò, si recherà alla basilica di Notre-Dame-de-la-Garde per affidare l’intero processo all’intercessione della Madonna. Parteciperà anche a un momento di meditazione davanti a una stele dedicata ai marinai e ai migranti scomparsi in mare, alla presenza di rappresentanti di altre confessioni e religioni. Sabato pomeriggio, celebrerà una Messa aperta a tutti presso lo stadio Orange Vélodrome. La domenica successiva, «Giornata mondiale dei migranti e dei rifugiati», il cardinale Michael Czerny, prefetto del Dicastero per il Servizio dello sviluppo umano integrale, presiederà la Messa di chiusura nella cattedrale.
Diceva che state procedendo in modo sinodale. In che senso?
Voglio davvero che il popolo di Dio sia coinvolto in questo evento. Innanzitutto, attraverso la preghiera: l’8 settembre lancerò una novena di preghiera che si concluderà poco prima dell’apertura delle Assemblee. Questa novena, sostenuta tra l’altro dall’applicazione Hozana, permetterà a molte persone di partecipare all’evento attraverso la preghiera. Cercheremo di lasciare che lo Spirito Santo vesta i nostri cuori affinché siano al servizio di ciò che Dio vuole dare alla sua Chiesa e al mondo attraverso ciò che potremo sperimentare durante questa settimana.
Poi, per giovedì sera, abbiamo organizzato una ventina di incontri tra le parrocchie della diocesi e i partecipanti del Mediterraneo, giovani e vescovi, perché tutti si possano sentire concretamente interessati a ciò che le persone e le Chiese del Mediterraneo stanno vivendo, a volte in modo molto doloroso. Perché la sinodalità si impara prima di tutto con gli incontri, non con le idee!
Infine, la celebrazione della Messa con papa Francesco presso lo stadio Orange Vélodrome sarà senza dubbio un grande momento di meditazione e di gioia, di comunione e di pace. Quasi duemila volontari sono già al lavoro per garantire che tutto si svolga nel modo più semplice possibile.
Il vostro metodo si confronta con problemi e sfide locali, che tuttavia hanno un impatto universale, come nel caso dell’Amazzonia?
Esattamente. Nel Mediterraneo si incontrano tre Continenti. Queste sponde sono il luogo di nascita delle tre grandi religioni monoteiste, e nel corso della storia sono state testimoni di numerosi scambi, ma anche di gravi e ricorrenti conflitti. Oggi i Paesi del Mediterraneo si trovano ad affrontare problemi socio-politico-religiosi la cui ombra si estende ben oltre l’area geografica del Mediterraneo. Penso al conflitto israelo-palestinese, agli scontri sunniti-sciiti, alle tensioni tra Armenia e Turchia o tra Marocco e Algeria. Si devono anche citare la drammatica situazione dei migranti, le difficoltà economiche e sociali che incontrano le popolazioni di molti dei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo, le minacce poste all’intera area dall’attuale cambiamento climatico, con tutti i problemi ambientali che questo comporta, in particolare l’accesso all’acqua, e l’indebolimento delle relazioni tra credenti di religioni diverse ecc.
Tutte queste situazioni sono vissute nel Mediterraneo, ma riguardano l’intera umanità.
Quali sono le preoccupazioni comuni dei Paesi intorno al Mediterraneo alle quali i cristiani possono contribuire ed essere fermento al servizio di una fraternità che si fa solidale con i più vulnerabili?
Le preoccupazioni sono quelle di cui abbiamo appena parlato, anche se forse se ne aggiungeranno altre nel corso della settimana. Per quanto riguarda il contributo dei cristiani, mi sembra che debba essere soprattutto di speranza. Pur essendo consapevoli dei periodi dolorosi, delle ferite tra popoli e religioni che hanno segnato la storia e ancora il presente dell’area mediterranea, non vogliamo che essi siano l’unico prisma attraverso cui leggere il passato e affrontare il futuro: il Mediterraneo, per molti versi, è ancora oggi un luogo di scambio, di dialogo e di incontro. Quest’area, infatti, è impregnata di un immenso patrimonio antropologico e filosofico, di una saggezza e di una comprensione dell’essere umano che derivano dalle grandi civiltà e tradizioni spirituali che sono nate e si sono sviluppate sulle sue sponde. C’è una memoria felice della convivialità mediterranea, la memoria di una convivenza pacifica e fruttuosa. Molti vorrebbero cancellare questa memoria felice e sostituirla con la paura, per meglio imporre il loro dominio e la loro ideologia. Ma noi siamo testimoni del fatto che, mentre le minacce sono reali, anche il bene è all’opera, attraverso un mosaico di persone e di azioni.
Quale può essere il contributo dei cristiani di fronte alla paura?
Di fronte alla tentazione della paura, il contributo dei cristiani consiste soprattutto nel testimoniare la speranza che ricevono dalla loro fede in Gesù Cristo. Una speranza non ingenua, ma concreta e attenta. Una speranza che non è evasione, ma presenza e spesso resistenza. Una speranza che non è utopica, perché porta con sé fede e carità. Secondo l’autore della lettera agli Ebrei, la speranza è come un’ancora marina (cfr Eb 6,19) che la fede nella risurrezione di Cristo ci invita a gettare nell’al di là del tempo, affinché, saldamente attaccati ad essa in questi ultimi giorni, possiamo testimoniare l’amore con cui Dio ama il mondo e accogliere l’audacia e la libertà che derivano da questo amore. La speranza è ciò che costruisco oggi proiettandomi in un futuro migliore; la speranza, teologicamente, è un’altra cosa: è imparare a guardare il mio presente a partire dalla fine e adattare le mie azioni per correggere ciò che deve essere corretto. Questa è dunque la missione del cristiano: andare nel mondo «come se vedesse l’invisibile» (Eb 11,27) e attirare con sé, con la preghiera e la testimonianza della sua speranza, tutti coloro che il Signore gli dà come compagni di viaggio.
Lei ha incontrato il successore di Pietro per preparare questa ulteriore tappa del suo lungo pellegrinaggio mediterraneo. Come è andato lo scambio tra il Vescovo di Roma e il Vescovo di Marsiglia?
Durante i colloqui che ho avuto con papa Francesco ho potuto spiegargli l’originalità di Marsiglia, le sue ricchezze e le sue povertà, e discutere con lui le sfide pastorali che stiamo affrontando e il modo in cui, umilmente, stiamo cercando di andare avanti. Egli si è reso conto che Marsiglia si trova in una delle periferie a lui tanto care, tra l’Europa e il Mediterraneo, porta d’Oriente e porta d’Occidente, segnata da una grande povertà e da una grande speranza. Da parte sua, l’ex presidente della Conferenza episcopale italiana, il card. Gualtiero Bassetti, che ha avviato gli incontri di Bari e Firenze, mi ha detto che voleva che il processo continuasse fuori dall’Italia. Così, insieme al suo successore, il card. Matteo Zuppi, abbiamo pensato di ospitare questi incontri a Marsiglia, e il Papa mi ha assicurato il suo sostegno e la sua disponibilità.
Ma il Pontefice non viene a Marsiglia per farsi guardare: viene perché, con lui, possiamo guardare il Mediterraneo, le sue sfide, le sue risorse e la missione che spetta ai discepoli di Cristo in questa parte del mondo.
A Napoli (giugno 2019) e a Bari (febbraio 2020) papa Francesco ha proposto una «Teologia del Mediterraneo». Come si colloca Marsiglia in questo contesto?
Nel discorso di Napoli a cui lei si riferisce, il Papa ha posto le domande che deve affrontare una teologia cristiana sviluppata sulle sponde del Mediterraneo e adattata al contesto in cui si svolge: «Come possiamo prenderci cura gli uni degli altri all’interno dell’unica famiglia umana? Come coltivare una convivenza tollerante e pacifica che si traduca in autentica fratellanza? Come possiamo rendere prioritaria nelle nostre comunità l’accoglienza degli altri e di coloro che sono diversi da noi perché appartengono a una tradizione religiosa e culturale diversa dalla nostra? Come possono le religioni essere vie di fratellanza invece che muri di separazione?». Queste domande, che sono anche alla base del documento sulla fratellanza umana che il Papa ha firmato insieme al Grande Imam di Al-Azhar, riguardano anche i cristiani di una città come Marsiglia. Tutto il lavoro dell’Institut de sciences et théologie des religions, che ho fondato nel 1992 su richiesta del card. Robert Coffy, è guidato da queste domande[1].
Questa teologia «nel contesto mediterraneo» è soprattutto una teologia dell’accoglienza, dell’ascolto e della misericordia. Lontana dalla riflessione astratta, dà spazio alla pietà popolare?
In una lettera al Rettore della Pontificia Università Cattolica Argentina, papa Francesco, ispirandosi alla parabola del Buon Samaritano, ha spiegato che «anche i buoni teologi, come i buoni pastori, odorano di popolo e di strada e, con la loro riflessione, versano olio e vino sulle ferite degli uomini». Questa osservazione vale in particolare per coloro che esercitano il ministero di teologi sulle sponde del Mediterraneo. Il mare è comune a tutti noi, ma le situazioni sono spesso molto diverse. Questo mare di incroci è anche un mare di grande violenza, tanto più pericoloso perché le divisioni identitarie si fanno più micidiali. Per questo il lavoro teologico nel Mediterraneo è anche un lavoro forgiato nella compassione, cioè un lavoro che non si fa «in ufficio», ma nella vita reale, nella vicinanza concreta agli oppressi, ai nuovi schiavi del nostro tempo, alle tante vittime dell’ingiustizia sociale. La buona teologia cristiana, come ci ricorda spesso il Papa, va fatta «in ginocchio», non solo per pregare, ma anche per lavare i piedi. Il popolo di Dio lo sa istintivamente. Ho notato spesso che i giovani di oggi hanno capito, come per istinto, che è passando attraverso la porta del servizio ai poveri che hanno le migliori possibilità di trovare il cammino della loro vita e forse quello per seguire Cristo. Questo è il fiuto e la fede del popolo, espressa nella pietà popolare.
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | ARTE, TRA PASSATO E PRESENTE
Le opere d’arte possono rappresentare ancora uno stimolo per una riflessione sulle tematiche di oggi? Un viaggio in 10 episodi tra le opere di alcuni dei più grandi artisti della storia passata e contemporanea.
A Marsiglia, una venerabile e antica tradizione fa di coloro che il Vangelo indica come «amici» di Gesù – san Lazzaro e santa Maria Maddalena – i fondatori della prima comunità cristiana della nostra città. Ancora oggi, ogni mattina del 2 febbraio, per la festa della Candelora, drammatizziamo l’arrivo del Vangelo a Marsiglia via mare. E la gente sa che questa tradizione ci obbliga a ricordare che non solo riceviamo sempre il Vangelo da altri, da altrove, ma anche che, soprattutto a Marsiglia, dobbiamo testimoniare che l’amicizia, quella che Gesù ha condiviso con i suoi ospiti a Betania, è il miglior veicolo per annunciare il Vangelo, perché apre le porte al dialogo e alla compassione.
Nell’agosto del 2012, l’allora cardinale Bergoglio ha intitolato uno dei suoi discorsi «Gesù è nella città». Il suo desiderio di coinvolgere i marsigliesi in questi incontri è anche un modo per testimoniare che «Dio è vivo nella città, intimamente coinvolto con tutti e tutto», come scrisse allora?
Questa convinzione era condivisa da uomini e donne con intuizioni profetiche, come Madeleine Delbrêl, naturalmente, ma anche Jacques Loew, un confratello di Marsiglia che lei andava a trovare a La Cabucelle. Anche Karol Wojtyła, quando era studente a Roma, volle incontrarlo per il suo contributo al rinnovamento della missione della Chiesa in Francia. Ma vorrei ricordare soprattutto Jean Arnaud, che ho conosciuto quando era parroco alla Belle-de-Mai e che ha avuto un grande impatto su di me[2]. Secondo questo sacerdote di Marsiglia, ogni pastore è chiamato a essere un «teologo di quartiere», uno «starez dei crocevia», nelle strade e nelle piazze, purché sia disposto a collocare la sua esperienza pastorale nella lunga tradizione teologica e spirituale della Chiesa. E Jean Arnaud ha aiutato molti sacerdoti a rileggere il loro ministero alla luce dei Padri della Chiesa. Fondamentalmente, la pastorale è tutto ciò che non ha altro scopo che lavorare nella vigna del Signore, secondo la missione ecclesiale che abbiamo ricevuto, e nel piccolo spazio in cui è chiamata a svolgersi, in comunione con tutti gli altri lavoratori, anche quelli «che non sono dello stesso ovile», o quelli dell’«ultima ora», perché, se «lo Spirito si manifesta in maniera particolare nella Chiesa e nei suoi membri, tuttavia la sua presenza e la sua azione sono universali, senza limiti né di spazio né di tempo», ha scritto san Giovanni Paolo II nella Redemptoris missio (n. 28).
La nostra missione di cristiani, non solo nel cuore delle città ma ovunque, è quella di collaborare con questo Spirito Santo, piuttosto che esaurirci cercando di respirare al suo posto, come troppo spesso siamo tentati di fare. Per questo, nell’ambito degli Incontri del Mediterraneo, abbiamo voluto riunire persone impegnate in altre confessioni cristiane e in altre religioni, così come nel mondo associativo, dell’economia e della cultura, tutti coloro che si impegnano, ciascuno a modo suo, al servizio della fraternità e della pace a Marsiglia e nel Mediterraneo. La Chiesa è l’iniziatrice di questo evento, ma non può considerare la sua missione in modo isolato.
Al centro di questo dialogo avviato dalla Chiesa c’è la convinzione che lo Spirito è già all’opera in tutti i Paesi del Mediterraneo?
Intorno al Mediterraneo… e altrove: ogni donna e ogni uomo è una sorella, un fratello, per il quale Cristo è morto e nel quale opera lo Spirito di quello stesso Cristo. Cito ancora dalla Redemptoris missio: «La presenza e l’attività dello Spirito non toccano solo gli individui. ma la società e la storia, i popoli, le culture, le religioni». Per questo la Chiesa deve imparare a cooperare con lo Spirito Santo. È lui il primo responsabile della missione. Questo non sminuisce in alcun modo il mandato missionario che Cristo ci dà: lo Spirito Santo ha bisogno di una Chiesa di testimoni. Avendo dovuto fornire un sostegno teologico all’impegno della Chiesa nel dialogo interreligioso, ho imparato ad apprezzare l’importanza di questa Chiesa di testimoni. Perché se il dialogo, frainteso, fosse solo un paravento per rifiutare l’annuncio del Vangelo con il pretesto di relativizzare tutte le religioni, dovremmo prenderne le distanze. Ma se l’evangelizzazione, fraintesa, diventasse il vessillo di una volontà di conquista, per imporre «valori cristiani», trascurando la presenza e l’azione dello Spirito, dovremmo ugualmente prenderne le distanze! L’evangelizzazione non è un metodo di marketing! È un incontro nella verità, nella profondità della vita. Evangelizzare è affidare il Vangelo a qualcuno, come si affida un tesoro, come si affida il proprio cuore. Non si fa con gli slogan, ma attraverso il lungo apprendimento dell’amicizia.
… e che la Chiesa è al servizio dell’amore con cui Dio ama il mondo?
«Dio ha tanto amato il mondo da dare il proprio Figlio», leggiamo nel Vangelo di Giovanni. Per me questo è decisivo, perché indica che la missione della Chiesa è quella di essere al servizio dell’amore con cui Dio ama il mondo. L’evangelista non dice: «Dio ha tanto amato la Chiesa», ma «il mondo». Questo chiama la Chiesa a un incessante lavoro di decentramento, che è il luogo della sua conversione. Infatti, se la Chiesa è al servizio della relazione tra Dio e il mondo, ciò significa che il suo baricentro non è in sé stessa, e nemmeno nella relazione privilegiata che può avere con Dio. Il suo centro di gravità è nella relazione di Dio con il mondo. E questo la mette fuori centro. Per questo essa è, come dice il Concilio, «il sacramento universale della salvezza»: una salvezza che va oltre – è solo il segno –, ma che anche lo richiede – è il mezzo –, secondo la definizione di sacramento: sia segno che mezzo della grazia di Dio.
Inoltre, ogni volta che la Chiesa, nella sua storia, è stata troppo egocentrica, troppo preoccupata della propria sopravvivenza, troppo preoccupata della persistenza delle sue strutture, si è esaurita e ha fallito nella sua missione. Quando vedo sacerdoti o laici che rincorrono le ricette di ciò che «funziona bene», che guardano le curve di crescita delle loro assemblee domenicali, come il re Davide aveva guardato con orgoglio la gloria di un censimento, quando vedo comunità religiose che fanno del loro apparente successo numerico il criterio di una presunta fedeltà evangelica, consiglio loro di non dimenticare questo lavoro di decentramento, essenziale per la salute della Chiesa e per la sua continua opera di conversione. Una povertà offerta è molto più feconda di una prosperità orgogliosa! Questo è il messaggio insuperabile del Mistero pasquale.
«Sono venuto a portare un fuoco sulla terra, e come vorrei che fosse acceso!» (Gv 12,49). «Cari fratelli Cardinali, nella luce e nella forza di questo fuoco cammina il Popolo santo e fedele, dal quale siamo stati tratti noi, da quel popolo di Dio, e al quale siamo stati inviati come ministri di Cristo Signore. Che cosa dice in particolare a me e a voi questo duplice fuoco di Gesù, il fuoco irruente e il fuoco mite?». Come lei vive questa domanda di vita posta da papa Francesco nel Concistoro del 27 agosto 2022?
Questa omelia mi ha toccato profondamente, non solo perché è stata pronunciata in un momento importante della mia vita, ma anche perché per molti versi era simile al modo in cui il Signore, lentamente e senza mai stancarsi delle mie debolezze e dei miei peccati, ha rivestito il mio cuore per questo grande giorno della mia vita. Il Papa fa una distinzione tra il fuoco potente, la fiamma luminosa che viene da Dio come una violenta folata di vento, purificando, rigenerando e trasfigurando ogni cosa, e il fuoco di brace che Gesù stesso prepara, come un falò, per creare per i suoi discepoli l’ambiente familiare e intimo di una relazione amichevole. Nella mia vita ho sperimentato spesso che abbiamo bisogno di questi due fuochi per vivere nell’atmosfera del Vangelo e trasmetterlo agli altri: i fuochi d’artificio, che attirano lo sguardo, come un «primo annuncio» visibile e bello, che si espone e invita: «Venite e vedrete» (Gv 1,39); e il fuoco, che scalda i cuori, accompagna i lunghi silenzi, raccoglie le confidenze e consolida l’amicizia: «Che cosa vuoi che io faccia per te?» (Lc 18,41). Ciò che si deve respingere, perché disturba la Chiesa, è il fuoco di paglia, il fuoco della seduzione, che non produce mai ciò che sembra promettere e quindi non è altro che orgoglio e inganno, fonte di tanti abusi!
Ho anche notato, leggendo il Vangelo di Giovanni, che la parola anthrakia, con cui l’evangelista designa il fuoco di brace che Gesù accende in riva al lago (cfr Gv 21,9), è usata anche per designare il fuoco con cui Pietro si riscaldava quando, per tre volte, rinnegò Cristo (cfr Gv 18,18). Come per unire il peccatore e il perdono nello stesso sguardo d’amore. Come a dire che non ci può essere ardente zelo apostolico senza il ricordo della calda dolcezza del perdono di Dio. O, per dirla con san Giovanni della Croce, non c’è «fiamma viva» che non sia «d’amore»!
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Questo lavoro è accessibile grazie alla rivista semestrale Chemins de Dialogue, che è stata creata nel giugno 1993 e che il card. Aveline ha diretto per molti anni. Giunta al suo sessantunesimo numero, è uno strumento di riferimento riconosciuto su tutte le questioni teologiche e pastorali relative al dialogo interreligioso. Nel 1996 il cardinale ha deciso di integrare la rivista con dei libri, fondando la Chemins de Dialogue. Publications (quasi 40 libri pubblicati fino ad oggi). Successivamente, nel 2018, oltre alla rivista e alle pubblicazioni, sono nati i Cahiers de Chemins de Dialogue (quattro opuscoli all’anno). ↑
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Cfr J.-M. Aveline, Jean Arnaud, théologien de quartier à Marseille, Publications Chemins de dialogue, 2013. ↑