|
«Quando Henry Preston Standish precipitò a capofitto nell’Oceano Pacifico, il sole stava sorgendo all’orizzonte». Non fosse che per questo incipit fulminante, i lettori si precipiteranno su questa formidabile novella (1937), nell’edizione italiana curata da Marco Rossari.
Non diremo dell’esito della storia, sebbene il suo avvincente dipanarsi tra mare e cielo non sia che una delle molte ragioni – dissacrante critica sociale, manifesto esistenziale, denuncia antesignana dei sintomi della depressione – della risonanza di questo libro tra le anime inquiete del nostro tempo.
Un libro memorabile, e quasi perduto; sepolto per decenni, come il suo sfortunato autore newyorchese, Herbert Clyde Lewis (1909-50), morto stremato, solo e forse suicida. Irrequieto e in fuga, sempre ai margini, pieno di debiti, avido di alcol e barbiturici. Brevi e rarefatti i suoi successi, anche a Hollywood, come sceneggiatore di film, fino alla micidiale proscrizione maccartista e all’oblio. Grazie a un insieme di circostante fortuite, di lettori appassionati, di passaparola e di editori virtuosi – in particolare quello inglese, Boiler House Press, con la collana dedicata a scritti sommersi, di cui Gentiluomo in mare è il primo titolo –, il libro viene riscoperto. E viene letto avidamente e ristampato, fino a trovare un nuovo pubblico sulle due sponde dell’Oceano e un rinnovato apprezzamento critico.
Tre gli scenari di questo romanzo, cinematografico quant’altri mai, troviamo: un postale in lenta crociera tra le Hawaii e Panama, un uomo in mare, la New York alto-borghese degli anni Trenta; un microcosmo ignaro, la nave, e una società modellata sul privilegio e sulle convenzioni, quella della metropoli; quel destino da cui Standish fugge, in un moto di compulsiva ribellione, fino a ritrovarsi su quel bastimento, fino al tragicomico scivolone fuori bordo.
E in quel vasto vuoto marino, lo scrittore inscena il dramma, con una narrazione tersissima, nell’affabulazione allucinata del naufrago, e di bruciante realismo, nella descrizione della lotta tra Standish e gli elementi: tra spasimi e il vomito di bile e acqua salata, la mente «era un gingillo del corpo; le idee funzionavano soltanto finché il corpo non aveva un qualche bisogno e piegava la mente al proprio volere».
Ma da dove fugge Standish? Dalla pena moderna del vivere. Egli soffre della malattia del puro rifiuto: «Non aveva voglia di mangiare, non aveva sete, non aveva brame sessuali, ne aveva abbastanza di alcol e nicotina. Non aveva voglia di fare ginnastica e di sicuro non aveva voglia di poltrire o dormire». La fuga da quell’inerzia si tramuta, beffardamente, in dramma e in farsa. Nella solitudine del nulla oceanico, la mente del naufrago è prodiga di rappresentazioni indulgenti, di nostalgie, di risentimenti e illusioni: «Sarebbe diventato il superuomo della propria epoca: i cronisti sarebbero accorsi a Panama o a New York, ovunque lui andasse […]. Gli avrebbero conferito onorificenze per l’audacia, per la resistenza, per il coraggio e per l’incrollabile speranza». Mentre, proprio in quel mondo e in quel momento, la famiglia e i soci d’affari a New York, gli ufficiali e i passeggeri della nave, insomma l’intero consorzio umano prosegue e, quel che è peggio, proseguirà la sua marcia indifferente alla sua sventura, proprio come la nave, la cui sagoma si rimpicciolisce sotto il sole implacabile e inesorabilmente calante.
E si fa strada, atroce, la consapevolezza di quanto il destino gli sta apparecchiando: «Era una marionetta: penzolava in modo grottesco sul palco dell’Oceano Pacifico, appeso a corde che arrivavano fino in cielo, solo per il loro perverso divertimento». Alla fine, è lo spettro dell’abbandono, evocato dal vecchio marinaio di Coleridge, a sommergere corpo e spirito: Solo, solo, me solo, / Solo, solo in mezzo a un mare immenso! / E non un santo che prendesse pietà / Dell’anima mia moribonda.