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Leggendo i giornali nazionali o navigando nel web all’indomani dell’intervento di papa Francesco sui temi di fine-vita sarebbe stato arduo farsi un’idea dell’effettivo contenuto del suo messaggio. I numerosi titoli, spesso in prima pagina, si sono distribuiti su un ampio arco: da «Biotestamento, la svolta di Francesco»[1] a «Eutanasia, nessuna svolta del Papa»[2], passando attraverso varie formulazioni intermedie. Se poi il lettore si fosse inoltrato al di là del titolo, avrebbe potuto certamente incontrare singoli elementi presenti nel testo del Papa, ma raramente ricavare un quadro d’insieme dell’argomentazione, della sua dinamica interna e della sua prospettiva storica.
Il dibattito si è sviluppato nei giorni successivi, con interventi più ampi ed equilibrati. Rimangono tuttavia aspetti che vale la pena approfondire. Esamineremo quindi più da vicino il messaggio del Pontefice per individuarne gli snodi principali, facendo attenzione al loro complessivo articolarsi. Emergerà così come papa Francesco, appoggiandosi su alcuni punti salienti del Magistero, compia precisazioni e sottolineature innovative.
Destinatari e contesto: uno stile dialogico e sinodale
Anzitutto rileviamo che si è trattato di un messaggio ai partecipanti all’Assemblea regionale europea della World Medical Association (WMA, in italiano: Associazione medica mondiale), tenutasi nell’Aula vecchia del Sinodo il 16-17 novembre scorso, sul tema «Questioni di fine-vita», organizzata congiuntamente dalla stessa WMA, dalla Pontificia Accademia per la Vita (PAV) e dalla Bundesärztekammer (Associazione medica tedesca)[3]. Papa Francesco si è rivolto ai presenti attraverso una lettera destinata a mons. Vincenzo Paglia, presidente della PAV.
Già in questo dato possiamo cogliere un aspetto interessante. Si tratta infatti di un’assemblea costituita da medici con differenti opinioni e di diverse appartenenze religiose e concezioni del mondo. Il fatto che le due autorevoli Associazioni professionali abbiano chiesto per dibattere le questioni di fine-vita un coinvolgimento della PAV, svolgendo i loro lavori all’interno del Vaticano, ha un significato importante. La Chiesa viene riconosciuta come realtà capace di favorire un clima di dialogo sereno e autentico, che affronta con coraggio le domande difficili del nostro tempo. Del resto, l’esortazione apostolica Evangelii gaudium (EG) aveva proposto alla Chiesa il dialogo come componente irrinunciabile dell’evangelizzazione, delineando alcune piste su cui svolgerlo, anche con le scienze (EG 242-243).
Mons. Paglia lo ha messo in evidenza nell’intervento iniziale: proprio questo «è uno dei compiti essenziali che papa Francesco affida alla Pontificia Accademia, nella sua apertura all’orizzonte universale della sensibilità umana sui temi fondamentali della vita. Il nostro metodo non segue la logica del conflitto ideologico e della dittatura di un’opinione, bensì la ricerca condivisa di un terreno comune, su cui anche opinioni differenti possano trovare punti di convergenza in riferimento alla verità dell’essere umano»[4]. Si tratta quindi di un passo nella linea della Chiesa in uscita e di uno stile sinodale: «Occorre promuovere, a tutti i livelli della vita ecclesiale, la giusta sinodalità»[5]. E questo è un compito che supera i confini della comunità ecclesiale e diventa uno stile da praticare con tutti: la Chiesa «deve ascoltare e poi promuovere il dibattito» (Laudato sì’ [LS], n. 61).
Nuove conoscenze e impatto sul morire
In questo quadro, papa Francesco mette anzitutto in evidenza come le trasformazioni della società e della cultura incidano sui modi in cui oggi si muore. La medicina rende certamente un enorme servizio, grazie alle nuove conoscenze e tecnologie di cui dispone, sconfiggendo malattie e aumentando l’aspettativa di vita. Ma se la logica tecnocratica diventa prevalente, anche il corpo umano rischia di venire interpretato e amministrato come insieme di organi da riparare o da sostituire. Infatti, come afferma la Laudato si’ a proposito della tecnoscienza, sempre «più difficile è utilizzare le sue risorse senza essere dominati dalla sua logica» (LS 108). Una logica che spinge verso un «riduzionismo che colpisce la vita umana e la società in tutte le loro dimensioni» (LS 107).
Inoltre, avviene frequentemente che le patologie non siano sconfitte, ma piuttosto arginate. Assieme alla vita, si allunga anche la convivenza con la malattia. Il pericolo è di concentrarsi sulle funzioni vitali da protrarre, perseguendo obiettivi parziali e perdendo di vista il «bene integrale» della persona.
Alla base di queste proposizioni ritroviamo una comprensione della vita umana identica a quella affermata da san Giovanni Paolo II: la chiamata fondamentale dell’uomo «consiste nella partecipazione alla vita stessa di Dio. […] Proprio questa chiamata soprannaturale sottolinea la relatività della vita terrena dell’uomo e della donna. Essa, in verità, non è realtà “ultima”, ma “penultima”»[6]. Queste sono le premesse da cui muove papa Francesco per entrare più direttamente negli interrogativi che i medici incontrano nel loro compito di prendersi cura della persona malata in situazioni di particolare gravità.
Appropriatezza clinica e proporzionalità delle terapie
Papa Francesco inizia il suo ragionamento richiamando il noto discorso in cui Pio XII rispondeva ad alcuni interrogativi sollevati dalla recente introduzione, in terapia intensiva, di apparecchiature per la respirazione artificiale[7]. La domanda era allora se fosse obbligatorio utilizzare in tutti i casi i nuovi macchinari disponibili e se fosse lecito astenersene o interromperne l’uso nell’eventualità di un mancato miglioramento del paziente. Papa Francesco riassume la risposta del suo predecessore affermando «che non c’è obbligo di impiegare sempre tutti i mezzi terapeutici potenzialmente disponibili e che, in casi ben determinati, è lecito astenersene».
Egli poi mette a fuoco alcuni termini che ancora oggi sono frequentemente equivocati, sia per l’uso impreciso che ne viene fatto nei discorsi correnti, sia per un’effettiva oscillazione di significato che si ritrova negli stessi documenti del Magistero[8]. Questo chiarimento si svolge attraverso due passaggi. Da una parte, il testo evita l’uso di espressioni che, pur presenti nella secolare tradizione della teologia morale, non sono agevoli da impiegarsi nel contesto della riflessione odierna. Notiamo, in particolare, che non compare il vocabolario dei mezzi ordinari o straordinari, su cui da lungo tempo si discute. D’altra parte, è valorizzato il linguaggio della relazione interpersonale, all’interno della quale soltanto si può rendere ragione dell’agire clinico: nella prospettiva etica, il trattamento medico è da comprendersi come forma della relazione di cura. Esso non è quindi separabile dalle circostanze complessive, come se si potesse valutare in modo isolato e indipendente dal rapporto tra medico e persona malata.
La centralità della persona
Quello che viene convenzionalmente chiamato «accanimento terapeutico» – talora anche detto, forse con più pertinenza, «eccesso» o «ostinazione» clinica – è definito come impiego di terapie sproporzionate. Subito dopo viene precisato come intendere il criterio di proporzionalità, sulla base di due componenti, distinte ma indissociabili.
La prima è l’appropriatezza clinica delle cure, il cui accertamento nella situazione concreta è compito dei medici. Essi dispongono infatti delle competenze per compiere questa valutazione: in base allo stato dell’arte nel campo della loro specializzazione, all’esperienza professionale e alla conoscenza della persona malata acquisita nella relazione clinica, sono in grado di giudicare la pertinenza del trattamento in esame – «il grado di difficoltà e di rischio che comporta, le spese necessarie e le possibilità di applicazione»[9] – in relazione agli effetti attesi sulla salute.
La seconda componente attiene invece alla persona malata, toccandone la dimensione propriamente esistenziale: occorre qui tener conto «delle condizioni dell’ammalato e delle sue forze fisiche e morali»[10]. L’unico modo per acquisire questi elementi è la consultazione della persona malata, perché essi non possono essere adeguatamente conosciuti se non da chi li vive direttamente. Si tratta però non solo di un parere, ma di un vero e proprio giudizio, come sottolinea il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC): «Le decisioni devono essere prese dal paziente, se ne ha la competenza e la capacità, o, altrimenti, da coloro che ne hanno legalmente il diritto, rispettando sempre la ragionevole volontà e gli interessi legittimi del paziente» (CCC 2278).
Per giudicare sulla proporzionalità delle cure, dunque, occorre integrare due ordini di fattori. Sul primo – che costituisce in realtà una sorta di premessa – hanno competenza i medici, e riguarda l’accertamento dell’appropriatezza clinica delle cure. Il secondo dipende dalla persona malata, senza la cui valutazione non si può porre un giudizio di proporzionalità: a lei spetta la parola decisiva su ciò che concerne la propria salute e gli interventi medici sul proprio corpo. Se ciò non avviene, essa non è più riconosciuta come soggetto delle cure, ma ridotta a oggetto di cui si dispone.
Saranno quindi necessari un’informazione il più possibile completa, una comunicazione aperta e un dialogo collaborativo sia con l’équipe curante, sia con le persone care che accompagnano il malato. Dunque, le cure, anche se fossero appropriate clinicamente, potrebbero risultare sproporzionate, qualora la persona malata non le ritenesse sostenibili nelle circostanze in cui si trova. Astenersi o sospendere tali cure è, a questo punto, non solo possibile, ma, come dice papa Francesco, «doveroso».
Il giudizio della coscienza morale
Il fatto di presentare l’astensione da cure sproporzionate come «doverosa» costituisce decisamente una novità. Infatti, nei precedenti documenti essa risultava un’opzione lecita, cioè facoltativa[11], ma non obbligatoria, come invece la parola «doveroso» lascia intendere. Per comprendere meglio questo passaggio può essere utile soffermarsi sul significato che rivestono le circostanze nel contesto considerato.
Quando la Dichiarazione sull’eutanasia del 1980 ha introdotto la categoria di proporzionalità, ha anche indicato come istanza ultima di decisione il riferimento «alla coscienza del malato o delle persone qualificate per parlare a nome suo, oppure anche dei medici», sempre considerando la situazione «alla luce degli obblighi morali e dei diversi aspetti del caso». Ora ci si può interrogare su quale sia la materia propria di tale giudizio, di cui la coscienza del malato viene prioritariamente incaricata, nella misura in cui è competente.
Infatti, possiamo ritenere che le «forze fisiche e morali» siano da valutare in termini strettamente medici, cioè riguardanti il carico di sofferenza causato dagli effetti collaterali della cura e dal protrarsi della malattia stessa. Tuttavia, è anche possibile includere elementi non immediatamente riconducibili a una motivazione medica. Già alcune espressioni di Pio XII si orientano verso una visione più allargata delle circostanze, quando egli menziona come criterio di valutazione dei mezzi terapeutici anche l’onerosità per altri e le «circostanze delle persone, dei luoghi, dei tempi e delle culture»[12].
Del resto, tali elementi possono anche avere un impatto sulla capacità del paziente di affrontare le cure stesse, così da fargliele risultare meno onerose, cioè sulla dimensione propriamente medica. In effetti, per riprendere un esempio spesso impiegato in questo contesto, è molto comprensibile che la possibilità di partecipare a un evento familiare atteso e appagante, come il matrimonio di un figlio, possa rendere la sofferenza collegata alla terapia che consente di prolungare la vita fino alla data fissata più tollerabile di quanto non sarebbe in altre circostanze.
Certo, le situazioni cliniche possono essere molto differenziate, diversi piani di cura possono avere gradi poco diversi di appropriatezza, l’accertamento della volontà del paziente è molto laboriosa. Inoltre, è delicata l’interazione tra le preferenze del paziente e fattori propriamente medico-sanitari. Quindi, come vedremo anche parlando dell’autonomia, occorre procedere senza fretta, con attenzione e profondità nella comunicazione per giungere a un convincimento stabile nel formulare un giudizio ben ponderato.
Però, quando esso è maturato come frutto di un percorso della coscienza che abbraccia nel discernimento tutte le dimensioni rilevanti della vita – cioè, sia le proprie risorse interiori, sia i valori concorrenti circa la salute e le relazioni familiari e sociali –, allora si giunge a un imperativo concreto finale, tradizionalmente definito come «dettame ultimo pratico» o «norma prossima» dell’agire. In questo senso, la sospensione non è facoltativa: definirla «doverosa» significa esplicitarne il collegamento con il patrimonio comune e costante della tradizione morale cattolica sulla valenza obbligante del giudizio della coscienza.
Accettare il limite, ma non abbreviare la vita
Il Papa sottolinea che evitare l’accanimento terapeutico significa accettare il limite proprio della condizione mortale, riconoscendo con responsabilità l’impossibilità di combatterlo ulteriormente. «Non si vuole così procurare la morte: si accetta di non poterla impedire»[13]. Tutt’altro significato etico ha invece l’eutanasia, che rimane sempre illecita, «in quanto si propone di interrompere la vita, procurando la morte». La formula qui utilizzata esprime in sintesi la più estesa definizione di eutanasia: «un’azione o un’omissione che di natura sua e nelle intenzioni procura la morte, allo scopo di eliminare ogni dolore. L’eutanasia si situa, dunque, al livello delle intenzioni e dei metodi usati»[14].
Richiamiamo questa definizione più estesa, perché ci consente di precisare che il rifiuto del paziente non è sufficiente per dichiarare un mezzo «sproporzionato». I fattori in gioco sono infatti molteplici, e occorrono ragioni di rilievo, oltre a una precisa qualificazione dell’intenzione, per giustificare la rinuncia a un mezzo terapeutico appropriato clinicamente, che consentirebbe di prolungare la vita per un tempo congruo. Se mancano ragioni valide, pur appellandosi all’autonomia della decisione individuale, un simile rifiuto si può configurare come eutanasia omissiva. Questo ci introduce al passo successivo.
Significato dell’autonomia nella pratica medica
Il forte richiamo alla centralità della persona malata e al giudizio della sua coscienza richiede alcune precisazioni sulla nozione di «autonomia». Essa infatti è una nozione fondamentale in bioetica[15]: fin dal Codice di Norimberga (1947) viene riconosciuta indispensabile nella sperimentazione clinica, per poi entrare come legittimazione dell’atto medico nei Codici deontologici professionali e negli ordinamenti delle Costituzioni nazionali. La possibilità di esercitare consapevolmente la propria libertà nelle scelte che riguardano la salute e il corpo diventa così un valore irrinunciabile. Ma il significato che viene attribuito a tale assunto non è univoco, perché dipende dalle differenti concezioni della libertà che si presuppongono.
Tra autodeterminazione e responsabilità
In una prima accezione, l’autonomia svolge una funzione difensiva, per tutelare l’individuo dalle invasioni del potere nelle sue molteplici manifestazioni: religioso, politico, medico. Per proteggersi dai rischi d’abuso che ne derivano, viene enfatizzata l’indipendenza dell’individuo, come soggetto autosufficiente e indipendente. Si afferma così l’autodeterminazione come piena disposizione della propria vita. È una prospettiva che ha una sua validità storica e certamente intende tutelare valori rilevanti, ma che interpreta le relazioni interpersonali e la complessità del soggetto umano in modo riduttivo. Il rischio è che prevalga la logica del contratto, che da una parte considera come bene materiale l’oggetto in questione e dall’altra è stabilito o rescisso sulla base di una valutazione di costi e benefici.
Ma la relazione con gli altri non è qualcosa che, come il contratto, si aggiunge a un soggetto già previamente costituito. La persona è piuttosto attraversata e costituita dalle relazioni, come possiamo rilevare se consideriamo l’esperienza della vita fin dal suo inizio. Il Papa aveva già orientato lo sguardo in questa direzione in un precedente discorso all’Assemblea generale della PAV, richiamando il tema della differenza tra uomo e donna e il suo nesso con la generazione. «L’immagine della generazione irradia […] una sapienza profonda riguardo alla vita. In quanto è ricevuta come un dono, la vita si esalta nel dono: generarla ci rigenera, spenderla ci arricchisce»[16].
Se allora consideriamo il nostro trovarci in vita, diveniamo consapevoli del fatto che lo siamo per iniziativa di altri, da cui la vita è ricevuta. Un’evidenza tanto ovvia quanto trascurata, che indica l’originaria passività che caratterizza la (generazione della) vita umana. Il nostro radicamento nel corpo ne è la prima e più immediata attestazione. Se nel riflettere sulla libertà teniamo conto di questo dato, emerge una prospettiva secondo cui noi siamo fin dall’inizio inseriti in un contesto di relazioni che ci rende solidali gli uni con gli altri: la nostra identità personale è strutturalmente relazionale.
La vita umana non è pertanto riducibile solamente a oggetto di una decisione che riguarda la sfera privata e individuale, poiché ne siamo responsabili verso altri, su cui le nostre scelte hanno un impatto. La libertà umana, per esercitarsi correttamente, deve tener conto delle condizioni che le hanno consentito di emergere e assumerle nel suo operare: in quanto preceduta da altri, è responsabile di fronte a loro[17]. Questo non significa ritornare al paternalismo medico, bensì introdurre nello specifico contesto delle decisioni di fine-vita un’interpretazione dell’autonomia non assoluta, ma relazionale e responsabile.
Situazioni concrete e «prossimità responsabile»: le cure palliative
Per situare meglio l’autonomia occorre anche considerare che la libertà non viene mai praticata in astratto, ma in situazioni concrete, che possono influire su di essa pesantemente. Proprio per valorizzare la libertà e consentirle di esercitarsi al meglio occorre essere consapevoli dei condizionamenti a cui essa è esposta da parte della società, e dei vincoli psicologici che ne comprimono gli spazi. La sensazione di essere di peso ai propri cari o la percezione di non corrispondere agli standard d’immagine e di efficienza prevalenti nella società possono surrettiziamente provocare decisioni che riflettono più la mentalità corrente che le convinzioni personali profonde.
Tutto ciò fa capire come la chiarezza teorica del criterio di proporzionalità sopra illustrato richieda percorsi laboriosi per essere praticato – per quanto possibile – nella complessità delle circostanze concrete. Sono in gioco fattori sia intellettuali sia emotivi. Non tutti hanno la capacità di comprendere gli aspetti specialistici delle terapie e delle alternative possibili. Come anche la competenza decisionale delle persone può essere parziale (pensiamo ai minori o al caso dei decadimenti cognitivi).
Per di più, è sempre molto forte la carica emotiva di scelte che toccano la corporeità; essa si intensifica ulteriormente quando la persona è fragile per il dolore, la colpevolezza, l’impotenza o la ribellione che la malattia suscita. L’esperienza assai faticosa del consenso informato nella pratica o nella sperimentazione cliniche rende l’idea di quanto sia delicato arrivare a decisioni effettivamente libere e responsabili. Quindi, è bene avere chiari i criteri, ma al contempo occorre la consapevolezza che si procede per approssimazioni progressive, che richiedono tempo e disponibilità nella comunicazione.
In questo contesto – in cui la relazione terapeutica, già per sua natura asimmetrica, si fa sempre più frammentata per i molti specialisti coinvolti e complessa per le crescenti esigenze tecnologiche e organizzative – anche la consulenza di un Comitato etico indipendente può essere prezioso.
Si capisce allora l’importanza dell’accompagnamento della persona malata e l’insistenza di papa Francesco sulla «prossimità responsabile», nel momento in cui le decisioni da prendere sono molto delicate e riguardano non solo i trattamenti medici, ma tutte le dimensioni dell’esistenza. Infatti, nell’ultimo passo della vita terrena, la libertà è messa in gioco proprio nel momento in cui viene persa la possibilità di disporre di sé, compiendo il gesto conclusivo che sigilla irreversibilmente il percorso della vita. La ricerca di tutti i modi di prossimità e di accompagnamento va quindi incoraggiata. Le cure palliative e la terapia del dolore sono una valida espressione di tale accompagnamento. L’assistenza che esse forniscono all’ammalato, e anche alle famiglie, indica infatti che commisurare le cure all’effettiva condizione del malato non comporta un abbandono, ma anzi una prossimità nell’accoglienza del limite.
Per questo le cure palliative possiedono una portata anche culturale, perché esplicitano, proprio nel momento della massima fragilità, l’aspetto di reciproco affidamento che è al centro della condizione umana. Inoltre, unite a una chiara posizione contro l’accanimento terapeutico, le cure palliative e la terapia del dolore possono ridurre la pressione da parte di chi chiede di legalizzare l’eutanasia.
«Disuguaglianza terapeutica» e bene comune
Un ultimo accenno meritano due punti che riguardano la promozione del bene comune. Il primo è il riferimento al «crescente divario di opportunità, favorito dall’azione combinata della potenza tecnoscientifica e degli interessi economici». L’aumento delle terapie disponibili e dei loro costi introduce una dinamica di sperequazione nell’accesso alle cure, non solo a livello internazionale, ma anche all’interno dei Paesi «più ricchi». Sia dove l’erogazione delle prestazioni sanitarie dipende dalle possibilità economiche dei singoli, sia dove ci si avvale di risorse pubbliche, si pone la domanda di come favorire una maggiore parità di trattamento, senza compromettere la sostenibilità dei sistemi sanitari[18].
Il Papa ha più ampiamente trattato l’argomento nel discorso tenuto alla 32a Conferenza internazionale sul tema «Affrontare le disparità globali in materia di salute», promossa dal Dicastero per lo Sviluppo umano integrale[19]. In quella sede egli ha sottolineato l’esigenza di contemperare diritto alla tutela della salute e diritto alla giustizia.
Nel testo alla WMA, egli però sembra stabilire un collegamento tra divario delle opportunità e processo valutativo della proporzionalità delle cure. È una nuova angolatura, ancora una volta più relazionale e sistemica, in cui viene visto quanto Pio XII esprimeva menzionando le «spese necessarie» per l’impiego dei trattamenti. Questo comporta anche l’esigenza di orientare gli investimenti verso una più equa distribuzione delle risorse e delle conoscenze, e verso una maggiore attenzione alla prevenzione.
Infine, papa Francesco riserva un pensiero alla necessaria mediazione che nelle società democratiche è richiesta per giungere a posizioni condivise, anche sul piano normativo, per promuovere il bene comune. Ciò significa da una parte riconoscere le legittime differenze, e dall’altra non erodere il nucleo di valori che garantisce la convivenza in società, basandosi sul reciproco riconoscimento come eguali di tutti coloro che vi appartengono.
Il ruolo dei credenti in questo percorso era già stato enunciato da Francesco parlando al Comitato nazionale per la bioetica, e ci sembra di aiuto per concludere il nostro itinerario: «È noto a tutti quanto la Chiesa sia sensibile alle tematiche etiche, ma forse non a tutti è altrettanto chiaro che la Chiesa non rivendica alcuno spazio privilegiato in questo campo, anzi, è soddisfatta quando la coscienza civile, ai vari livelli, è in grado di riflettere, di discernere e di operare sulla base della libera e aperta razionalità e dei valori costitutivi della persona e della società. Infatti, proprio questa responsabile maturità civile è il segno che la semina del Vangelo – questa sì, rivelata e affidata alla Chiesa – ha portato frutto, riuscendo a promuovere la ricerca del vero e del bene e del bello nelle complesse questioni umane ed etiche»[20].
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[1]. la Repubblica, 17 novembre 2017.
[2]. www.famigliacristiana.it/articolo/eutanasia-nessuna-svolta-del-papa-che-ribadisce-il-no-all-accanimento-terapeutico.aspx
[3]. Il tema non è nuovo per la PAV, che ha affrontato più volte la questione e aspetti affini: cfr J. Vial Correa – E. Sgreccia (eds), The Dignity of the Dying Person, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 2000; I. Carrasco de Paula – R. Pegoraro (eds), Assisting the Elderly and Palliative Care, Città del Vaticano, PAV, 2015.
[4]. V. Paglia, Saluto di apertura, in www.academyforlife.va/content/pav/it/notizie/2017/AulaVecchiadel SinodoconlaWMA.html
[5]. Francesco, Discorso ai partecipanti alla plenaria della Congregazione della Dottrina della Fede, 29 gennaio 2016, in w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2016/january/documents/papa-francesco_20160129_plenaria-dottrina-fede.html
[6]. Giovanni Paolo II, s., Evangelium vitae (EV), n. 2.
[7]. Pio XII, Risposta a tre domande di morale medica sulla rianimazione, 24 novembre 1957, in w2.vatican.va/content/piusxii/fr/speeches/1957/documents/hf_pxii_spe_19571124_rianimazione.html
[8]. Cfr le rassegne presentate in P. Taboada, «Mezzi ordinari e straordinari di conservazione della vita: l’insegnamento della tradizione morale», in E. Sgreccia – J. Lafitte (eds), Accanto al malato inguaribile e al morente. Orientamenti etici ed operativi, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 2009, 77-88; e nello stesso volume, M. Calipari, «Il principio di adeguatezza etica nell’uso dei mezzi di conservazione della vita: tra eccesso terapeutico e abbandono del paziente», 100-113. Si veda inoltre D. P. Sulmasy, «The Clinical Decision Making Process for the Elderly Patient at the End of Life: Upholding Tradition», in I. Carrasco de Paula – R. Pegoraro (eds), Assisting the Elderly…, cit., 83-102.
[9] . Congregazione per la Dottrina della Fede, Dichiarazione sull’eutanasia Iura et bona, 5 maggio 1980, p. IV.
[10]. Ivi.
[11]. Si veda, ad esempio, CCC 2278; EV 65.
[12]. Pio XII, Risposta a tre domande di morale medica sulla rianimazione, 24 novembre 1957, in w2.vatican.va/content/piusxii/fr/speeches/1957/documents/hf_pxii_spe_19571124_rianimazione.html
[13]. CCC 2278.
[14]. EV 65.
[15]. T. L. Beauchamp – J. F. Childress, Principles of Biomedical Ethics, New York – Oxford, Oxford University Press, 2004.
[16]. Francesco, Discorso all’Assemblea generale della PAV, 5 ottobre 2017, in w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2017/october/documents/papa-francesco_20171005_assemblea-pav.html
[17]. Cfr G. L. Brena (ed.), La libertà in questione, Padova, Messaggero, 2002; M. Chiodi – M. Reichlin, Morale della vita. Bioetica in prospettiva filosofica e teologica, Brescia, Queriniana, 2017, 203-214.
[18]. Si vedano le interessanti osservazioni di D. Callahan, Taming the Beloved Beast. How Medical Technology Costs are Destroying Our Health Care System, Princeton, Princeton University Press, 2009; e più in generale, H. Ten Have, Global Bioethics: an Introduction, London – New York, Routlege, 2016.
[19]. Francesco, Messaggio ai partecipanti alla XXXII Conferenza internazionale sul tema «Affrontare le disparità globali in materia di salute», 16 novembre 2017, in w2.vatican.va/content/francesco/it/messages/pont-messages/2017/documents/papa-francesco_20171118_conferenza- disparita-salute.html
[20]. Francesco, Discorso al Comitato Nazionale per la Bioetica, 28 gennaio 2016, in w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2016/january/documents/papa-francesco_20160128_comitato-nazionale-bioetica.html
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LIVING THE MOMENT OF DEATH WITH HUMANITY AND SOLIDARITY
Pope Francis’ message to the World Medical Association (WMA) has given rise to varying and sometimes divergent interpretations. The Pope confirmed his no to euthanasia and to «therapeutic obstinacy». However, with a new tone did he present the «dutiful» suspension of disproportionate care and the centrality of the judgment of the sick person. Contrary to all forms of abandonment, he insisted on «responsible proximity» and palliative care. In conclusion, he pointed out that «therapeutic inequality» is an injustice and of which end-of-life decisions must take into account; also, the need to seek shared solutions – even normative ones – in a democratic society.