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L’articolo cerca anzitutto di mostrare come lo scisma del 1054 abbia indebolito l’espressione storica e istituzionale dell’universalità della Chiesa, con grave danno sia per l’Occidente sia per l’Oriente, senza che tuttavia sia mai venuta meno la grazia divina dell’unità ecclesiale. Riflettendo poi sulla figura del vescovo di Roma quale segno visibile e garante ultimo di questa universalità, individua nella tradizionale relazione che lega tra loro Pietro e Paolo il luogo teologico adeguato dove poterla radicare. La relazione tra i due apostoli sembra infatti fare allusione innanzitutto al rapporto tra Israele e le nazioni, che è il modo specificamente biblico di esprimere l’universalità che il Nuovo Testamento non ha mai abolito, ma soteriologicamente subordinato a Cristo, «luce delle genti e gloria del popolo della prima alleanza».