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Il Concilio Vaticano II ha ribadito nella costituzione dogmatica sulla Chiesa (Lumen gentium) la vocazione universale alla santità: «Il Signore Gesù, maestro e modello divino di ogni perfezione, a tutti e ai singoli suoi discepoli di qualsiasi condizione ha predicato la santità della vita, di cui egli stesso è l’autore e il perfezionatore» (n. 40). Ponendoci nella scia di innumerevoli uomini e donne che hanno posto in atto nella loro vita il comandamento di Gesù: «Siate dunque perfetti come è perfetto il vostro Padre celeste» (Mt 5,48), ci proponiamo di presentare la figura di Salvo D’Acquisto.
Il suo semplice nome rievoca infatti l’eroica offerta di sé che il vicebrigadiere dei carabinieri fece il 23 settembre 1943 per salvare la vita di 22 abitanti del sobborgo di Torrimpietra, a pochi chilometri a nord di Roma, presi in ostaggio dalle SS e ormai sicuri di essere fucilati. A Salvo, il 17 febbraio 1945, fu conferita la medaglia d’oro al valor militare alla memoria da Umberto di Savoia, allora luogotenente generale del Regno.
La fama di cui gode Salvo non solo in Italia ma anche in altri Paesi, come, ad esempio, Canada, Argentina, Cile e Stati Uniti, non è però dovuta unicamente né principalmente all’eroismo militare da lui dimostrato in occasione della sua fucilazione, quanto piuttosto allo spirito che lo spinse a sacrificare se stesso affinché non fossero uccise numerose altre persone innocenti[1]. Infatti l’atto di donazione di sé fu l’espressione di un autentico amore cristiano e della educazione ricevuta in famiglia, nella quale dominavano i valori del Vangelo, a cui si aggiunse poi la formazione dell’arma dei carabinieri, per i quali i valori fondamentali sono la difesa dei deboli, la tutela degli onesti, la lotta per la giustizia e la pacifica convivenza dei popoli[2].
La vita
Salvo nacque a Napoli il 17 ottobre 1920 in una famiglia numerosa e di condizioni economiche molto modeste, che sapeva però vivere con dignità nonostante la carenza di mezzi economici; l’onestà, le buone maniere, il rispetto del prossimo erano norma e prassi della casa. I genitori, umili di origine ma buoni cristiani, trasmisero ai figli valori autentici e insegnarono a pregare fin da quando erano piccoli. Inoltre la presenza in casa della nonna materna, cui Salvo era molto affezionato, contribuì notevolmente all’educazione del nipote. Lo stesso deve dirsi del prozio Peppino, nel laboratorio del quale Salvo lavorò fin da adolescente e insieme al quale si recava spesso a visitare i malati all’Ospedale della Vita (per i tubercolotici) come pure a quello degli Incurabili di Napoli, portando ad essi un po’ di conforto con piccoli regali e soprattutto con la sua bontà di ragazzo dagli occhi limpidi e vivaci.
Salvo ebbe dunque la fortuna di crescere in un ambiente che rispecchiava i princìpi religiosi del Vangelo, fatto di carità, di generosità e di pace. Si deve anche tener presente che il suo nonno materno era stato maresciallo maggiore dei carabinieri, tra i quali avevano militato pure due suoi zii; perciò lo spirito dell’Arma permeava l’atmosfera familiare favorendo, fra l’altro, in Salvo lo sviluppo del senso del dovere.
Fra i 12 nuclei familiari che risiedevano nel palazzo di quattro piani in cui abitava la famiglia D’Acquisto esisteva una tranquilla atmosfera di intesa e collaborazione, con la condivisione di tutte le ricorrenze liete e dolorose di ogni famiglia. Sotto la guida della nonna Erminia, come per un rito tradizionale rispettato e onorato da tutti, gli inquilini del palazzo si riunivano ogni sera per la recita del Rosario. Naturalmente di questa atmosfera di cordialità e di buoni rapporti beneficiavano i ragazzi, che, con tutta la loro vivacità, condividevano giochi, scherzi e birichinate.
La crescita di Salvo avvenne perciò in modo sano e graduale, favorita dal clima in cui la famiglia era inserita e dallo spirito degli altri ambienti da lui frequentati: per alcuni anni l’Istituto diretto dai salesiani fomentò in lui lo spirito cristiano e le doti di bontà; l’Apostolato della preghiera e il servire la Messa nella chiesa dei gesuiti contribuirono allo sviluppo del suo amore per Gesù presente nell’Eucaristia.
La passione per la lettura lo accompagnò lungo tutta la sua breve esistenza: negli anni seguiti all’adolescenza passava ore e ore nella biblioteca pubblica a leggere per arricchire le sue conoscenze. Pur essendo dotato di buona intelligenza, Salvo non proseguì gli studi del ginnasio appena iniziati, perché il latino gli riusciva difficile. Andò allora a lavorare sino ai 17-18 anni, al tempo della visita di leva, nel laboratorio del prozio Peppino, che era confezionatore e commerciante di bambole.
Salvo crebbe quindi come un ragazzo del tutto normale; con il passare degli anni si andarono rivelando alcune note tipiche della sua personalità: piuttosto riservato e forse anche timido ma forte di carattere, profondamente buono e compassionevole specie nei confronti di chi soffre, attento a chi ha bisogno di protezione e aiuto. Già da piccolo, di ritorno da scuola, imbattendosi in una vecchietta carica di sporte, Salvo si affrettò a toglierle dalle mani quei pesi. Un’altra volta, percorrendo la strada di ritorno a casa dall’Istituto dei salesiani, accompagnò uno studente, gobbo, per proteggerlo dagli scherni di compagni poco caritatevoli che lo deridevano per la sua deformità. Siccome essi dileggiavano pure «una povera ragazza bruttina che aveva un occhio di vetro», Salvo si interpose e non esitò ad avvicinarsi a lei per dare un bacio all’occhio di vetro.
In quegli anni giovanili non mancano episodi che mettono in rilievo come già allora egli sapesse mettersi dalla parte di chi era meno fortunato o anche esporre se stesso per proteggere chi era in pericolo: ricordiamo almeno due di questi episodi. Un giorno d’inverno, ritornando a casa da scuola, egli vide, come già altre volte, un ragazzo infreddolito e scalzo che chiedeva l’elemosina all’angolo di una strada. Salvo, mosso a compassione, non poté sopportare quella scena, si tolse le scarpe e le donò a chi ne aveva tanto bisogno. Alla madre che lo rimproverò, disse che lo aveva fatto d’istinto per soccorrere un bisognoso, senza riflettere sul fatto che poi egli stesso sarebbe rimasto senza scarpe. E aggiunse anche questo commento: «Io sono robusto e ho da mangiare, invece il poveretto era mingherlino e tremava dal freddo»[3].
Un altro giorno, mentre, con il prozio Peppino, era diretto al Vomero, si accorse che un ragazzo, caduto sulle rotaie, stava per essere investito da un tram. Prima ancora che lo zio potesse rendersene conto, vide Salvo che si precipitava verso quel suo coetaneo e con un gesto fulmineo riusciva a trarlo in salvo, appena in tempo per evitare che fosse schiacciato. Poiché Salvo aveva corso un grave pericolo, lo zio gli chiese perché lo avesse fatto senza neppure fargli un cenno. Egli rispose che, come spinto da una forza interiore, si era lanciato a salvare quel ragazzo e poi aggiunse: «Non potevo lasciarlo morire così».
Si può quindi affermare che gli anni giovanili di Salvo sono caratterizzati dalla spontaneità di un ragazzo napoletano, schietto e sorridente, aperto alla vita e desideroso di apprendere, semplice e retto, rispettoso e amante dei rapporti familiari, buono e attento agli altri. Si può anche capire perché, quando nel 1939 giunse il tempo del servizio militare, Salvo presentò la domanda per entrare tra i carabinieri.
Il servizio di carabiniere
Diventato allievo carabiniere, Salvo si impegnò nel lavoro di formazione: si trattò non solo di un addestramento fisico e militare, ma anche di un approfondimento di quei valori insiti nell’essere umano che, se vissuti, rendono la società ordinata e civile. Fra questi fu sempre vivo in lui un cristianesimo autenticamente vissuto e privo di ogni condizionamento derivato da rispetto umano, che lo rese capace di farsi partecipe di ogni dolore altrui come se fosse stato proprio. Anche quando l’Italia fu travolta dalla sconfitta, egli mantenne fede alla propria vocazione, ai propri princìpi morali e anzitutto al senso del dovere.
Ai mesi da lui trascorsi frequentando il corso allievi carabinieri (15 agosto 1939-15 gennaio 1940)[4] seguirono quelli del primo servizio da lui reso come carabiniere a Roma (15 gennaio-fine ottobre 1940) e poi i quasi due anni trascorsi nell’Africa del Nord come membro della Compagnia addetta alla sorveglianza dei campi di aviazione fra Tripoli e Bengasi. Fu questo un periodo pesante, vissuto costantemente nel pericolo, che richiese continui sacrifici a causa del clima, del vento del deserto che soffiando portava la sabbia ovunque, sotto la tenda e anche nel povero vitto e nella poca quantità d’acqua assegnata come razione giornaliera. Ma Salvo non si lamentava: in una lettera scritta alla madre il 12 febbraio 1942 egli dice: «C’è il dovere che chiama e di fronte al quale non c’è da opporre nessuna opposizione».
Anche allora la sua vita morale non ne soffrì, anzi si intensificò: ufficiali e commilitoni lo apprezzavano sempre più come uomo di princìpi, di fede e di esempio per gli altri. Sotto la tenda Salvo non esitava a pregare, pur essendo alla presenza di altre persone; durante gli attacchi aerei era lui a invitare i suoi commilitoni a pregare. Costretto a rimpatriare in Italia a motivo di una enterocolite che lo costrinse ad essere ricoverato nell’Ospedale militare, una volta guarito frequentò a Firenze il corso allievi sottufficiali carabinieri dal 15 settembre al 15 dicembre 1942. Anche allora fu apprezzato per il suo senso di responsabilità nei riguardi degli altri, la serietà nell’applicazione allo studio, la vita esemplare: il tutto come frutto dei princìpi cristiani che permeavano la sua vita ed erano da lui vissuti con profonda convinzione. Alla fine del corso, nel manifestare le sue preferenze nei riguardi di una futura destinazione, espresse il desiderio di essere assegnato a una stazione periferica per rendersi utile alla povera gente. E fu così: alla fine di dicembre 1942 fu inviato a Torrimpietra, piccolo centro situato sul litorale tirrenico a nord di Roma. Qui gli abitanti della zona ben presto lo conobbero e apprezzarono per la sua disponibilità, come persona umile e cordiale che trattava tutti senza alterigia, sempre pronto ad aiutare coloro che avevano bisogno, buono con tutti, presente regolarmente alla Messa durante la quale riceveva la Comunione.
In quel periodo così tormentato e difficile della storia del nostro Paese, il vicebrigadiere della stazione di Torrimpietra nei limiti del possibile andava incontro ai bisogni della popolazione, dando consigli e utili orientamenti, componendo diverbi e litigi tra la gente del luogo, distribuendo tra le famiglie più numerose quel poco che veniva offerto ai carabinieri. Dopo 1’8 settembre 1943 — data dell’armistizio tra il generale Badoglio e gli Alleati — nella situazione caotica che era venuta a crearsi, consigliato di nascondersi a Roma, si rifiutò di dare ascolto a tale suggerimento: «Il mio dovere è di essere con la gente che è stata affidata a noi». Questa fu la sua netta risposta, espressione di un animo fedele e di un cuore ricco di amore per il prossimo, cioè per coloro per i quali egli avrebbe poi sacrificato la vita.
Il martirio
Nove mesi dopo il suo arrivo alla stazione di Torrimpietra[5], il 22 settembre 1943, accadde l’episodio che fu occasione della rappresaglia compiuta dalle SS per un’esplosione avvenuta alla Torre di Palidoro, che aveva provocato la morte di un militare tedesco e il ferimento di altri due. L’edificio era presidiato dai militari della Guardia di Finanza, e proprio per questo le SS cercavano il maresciallo che comandava il piccolo nucleo di finanzieri, ritenendolo responsabile dell’atto di sabotaggio. Essendo venuti a sapere che egli sarebbe ritornato da Roma con il treno in arrivo verso le 16,00, alcune SS si recarono alla stazione di Torrimpietra, pronte ad arrestarlo; ma il maresciallo della Finanza, avvertito preventivamente, con dei segni, da un suo conoscente, poté uscire dalla parte opposta del vagone e dileguarsi.
Poiché le SS non erano riuscite ad arrestare colui che era al comando dei militari che presidiavano la Torre di Palidoro e quindi era ritenuto responsabile dell’esplosione, il mattino del 23 settembre giunsero nella borgata di Torrimpietra diversi militari tedeschi armati di mitragliatrici, che rastrellarono la piazzetta e le viuzze dell’abitato procedendo al fermo di parecchie persone. Dopo averle caricate su un autocarro, si avviarono verso Palidoro; in un secondo tempo però ne fecero una selezione, rilasciando anziani, donne e ragazzi; invece arrestarono e costrinsero a salire sul camion anche alcuni uomini incontrati lungo la strada mentre il camion procedeva verso Palidoro. Una volta giunti alla Torre, sul litorale, interrogarono i 22 ostaggi, i quali però si dichiararono innocenti ed estranei all’esplosione, aggiungendo di non essere in grado di fornire informazioni.
Nel frattempo i militari tedeschi si erano recati alla locale stazione dei carabinieri, giacché, secondo gli accordi presi fra le autorità tedesche e quelle italiane, i carabinieri avevano il compito di mantenere l’ordine pubblico e tutelare i militari e i civili tedeschi[6]. Nella caserma si trovava Salvo D’Acquisto, che quel giorno era al comando della stazione dei carabinieri, a causa dell’assenza del maresciallo per ragioni di servizio. I tedeschi arrestarono quindi il vicebrigadiere, lo costrinsero a salire in un side-car e, dopo averlo percosso sul capo con il calcio della rivoltella, lo condussero alla Torre di Palidoro, dove fu messo insieme agli ostaggi. Furono quindi dati loro dei badili con l’ordine di scavare una fossa in cui sarebbero caduti una volta fucilati. Si trattava evidentemente di una rappresaglia per vendicare la morte del militare tedesco e il ferimento degli altri due[7].
Quando Salvo e gli altri ostaggi avevano già scavato la fossa, il giovane vicebrigadiere chiese di parlare con un sottufficiale delle SS: egli sapeva che, secondo le norme del diritto internazionale, una rappresaglia non può essere messa in atto se viene catturata la persona responsabile dell’atto di sabotaggio. Nel breve tempo intercorso tra il suo arresto e l’essersi ritrovato tra quegli uomini che erano in attesa dell’esecuzione, Salvo aveva riflettuto circa il modo in cui doveva agire in base ai princìpi che avevano sempre ispirato la sua vita. Egli allora, attraverso un interprete, dichiarò al sottufficiale delle SS di assumersi la responsabilità di quanto era accaduto e chiese che fossero messi in libertà gli altri 22 ostaggi, perché erano completamente innocenti ed estranei a ciò che era accaduto.
Gli ostaggi, parecchi dei quali erano padri di famiglia, avevano vissuto ore di panico ed erano terrorizzati per ciò che stava per accadere. Con le lacrime agli occhi avevano supplicato Salvo D’Acquisto di fare di tutto per salvarli. Con la serenità e la calma che gli erano proprie, ritornato fra gli ostaggi, il vicebrigadiere «rivolse parole di incoraggiamento, manifestando la speranza di una felice risoluzione della vicenda, che tutt’al più avrebbe potuto comportare una deportazione in Germania»[8]. A uno degli ostaggi, Nando Attili, che Salvo conosceva meglio, disse con calma: «Senti, Nando, il mio dovere l’ho fatto. Per quanto io ho detto penso che voi sarete salvi. Io devo morire. Una volta si nasce e una volta si muore»[9].
Il sottufficiale delle Waffen SS aveva però risposto a Salvo di non essere autorizzato a prendere una decisione simile: era quindi necessario attendere l’arrivo di un ufficiale, che giunse poco dopo. Secondo la deposizione di uno degli ostaggi sopravvissuti, «forse si era verso le sei del pomeriggio»[10], «quando arrivarono due macchine davanti al casale adiacente la torre. Scesero degli ufficiali»[11]. «Scende il Maggiore, un uomo di mezza età piuttosto piccolo, croce di ferro al collo, stivali lucidi, monocolo e frustino»[12].
Un altro degli ostaggi, Vincenzo Meta, ha rivelato ciò di cui fu testimone perché si trovava a pochi metri di distanza: «L’interprete parlottò con il comandante riferendogli presumibilmente che il vicebrigadiere aveva chiesto di conferire con lui. La cosa divenne chiara perché venne fatto cenno con la mano verso Salvo D’Acquisto e subito dopo il Maggiore lo chiamò con un cenno del dito. Salvo, uscito dalla fossa, si avvicinò al comandante, dicendogli tramite l’interprete, come io stesso ho potuto sentire perché il Maggiore si era fermato a 4 o 5 metri da noi: “Se trovate il responsabile dell’atto di sabotaggio lasciate liberi gli ostaggi?”. Alla risposta affermativa del Maggiore, Salvo soggiunse: “Il responsabile sono soltanto io” […] Alla risposta di S. D. il comandante tedesco, evidentemente incredulo, agitò a lungo il frustino davanti al viso di S. D., quindi lo rimandò nella fossa».
Non suscita stupore il fatto che l’assunzione della responsabilità dell’attentato da parte di Salvo abbia suscitato incredulità e perplessità nel Maggiore delle SS. Essa infatti lo poneva dinanzi a un dilemma: fucilare un carabiniere italiano soltanto perché si era assunto pubblicamente tutta la responsabilità del fatto della Torre di Palidoro, il che avrebbe vendicato l’uccisione di un soldato tedesco, ovvero compiere una clamorosa rappresaglia con l’uccisione di numerosi ostaggi innocenti, la quale comportava il rischio, tutt’altro che ipotetico, di inasprire la tensione già esistente fra italiani e tedeschi, e quindi provocare reazioni che avrebbero creato gravi pericoli per i militari tedeschi, che già stavano ritirandosi verso il nord.
Il Maggiore consultò gli ufficiali che lo avevano accompagnato e discusse con loro il da farsi. Come si apprende dalla testimonianza rilasciata da Vincenzo Meta, «poco dopo dette l’ordine all’interprete di farci uscire dallo scavo. Anche Salvo fece l’atto di uscire ma l’interprete gli ingiunse di rimanere nella buca e a noi disse le parole del comandante: “Per questa volta siete tutti liberi, perché qualcuno si è assunta la responsabilità dell’atto di sabotaggio […]. Mentre tutti gli ostaggi avevano ripreso la strada di Torrimpietra, io da solo mi avviai per i campi verso Maccarese. A circa 300 metri mi fermai presso un casale che aveva annesso un fontanile per lavarmi. Fu allora che sentii tre raffiche di mitra che erano quelle che uccisero il S. D. A mio giudizio Salvo D’Acquisto ha offerto la sua vita in un gesto eroico di carità cristiana per salvare gli ostaggi da lui conosciuti nella quasi totalità. Sapeva che essi erano padri di famiglia e ne aveva ascoltato in quelle ore di attesa angosciosa le invocazioni di pietà e di disperazione. Tutti sono convinti che il S. D. con il sacrificio della sua vita ha salvato quella degli ostaggi»[13]. Egli è dunque il cristiano che, come autentico discepolo del Maestro, si conforma a lui: come Gesù Cristo, pienamente innocente, ha preso su di sé le nostre colpe ed è morto per ridarci la vita, così Salvo, assolutamente innocente di ciò che era accaduto, se ne è assunto la «responsabilità» in quanto tutore dell’ordine ed è morto perché gli altri ostaggi avessero la vita.
Salvo D’Acquisto è dunque un laico esemplare, che con la spontanea offerta di se stesso e l’accettazione del martirio dà «la suprema testimonianza di carità» (cfr Lumen gentium, n. 42). Il messaggio che egli ci trasmette è quello che l’evangelista Giovanni inviava ai primi fedeli: come Gesù «ha dato la sua vita per noi, anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (1 Gv 3,16). Lo stesso nostro Signore ha affermato che «nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13); tale donazione di sé costituisce dunque la suprema testimonianza di quella carità che Gesù ci ha raccomandato come «suo comandamento». In base alle parole del Signore essa supera di per se stessa la cosiddetta «eroicità delle virtù» che deve essere riconosciuta in un cristiano, non martire, prima che, secondo la Chiesa, questi possa essere dichiarato beato. Questa constatazione ci induce a fare una ulteriore considerazione: il termine «martirio» secondo la perenne tradizione della Chiesa è stato usato in riferimento a coloro che hanno dato una inconcussa «testimonianza» della loro fede dinanzi ai persecutori che la rigettano; ci sembra di poter affermare che quando esso viene preso nel suo senso primario di «testimonianza», può e anche deve appropriatamente essere usato anche per coloro che hanno dato la «più grande» testimonianza di amore e possono perciò essere denominati «martiri della carità».
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[1] Già nel 1993 l’allora ordinario militare per l’Italia, mons. Gaetano Bonicelli, indirizzava una lettera alla Congregazione delle Cause dei Santi nella quale, fra l’altro, diceva: «È indice molto chiaro della stima e venerazione che Salvo D’Acquisto gode il fatto che, alla fine del 1983, ben 21 caserme, 55 scuole, 355 strade, 52 piazze e 18 monumenti erano dedicati a Salvo D’Acquisto»; e aggiungeva: «È vero che in alcuni di questi casi si è voluto forse ricordare soprattutto l’eroe, ma non è meno certo che in numerosissimi altri il motivo determinante della venerazione del Servo di Dio consiste nella ferma convinzione che egli sacrificò la sua vita per i più puri motivi di carità verso Dio e il prossimo» (Congregatio de Causis Sanctorum, Beatificationis Servi Dei Salvii D’Acquisto [1920-1943] Positio super vita, martyrio et fama martyrii. Positio Suppletiva, Romae, 1999, 43).
[2] Numerose sono le pubblicazioni esistenti su Salvo D’Acquisto: esse, pur riportando sostanzialmente i dati principali della sua vita e della fase conclusiva di essa, sono però talvolta carenti, tanto da condurre a una errata interpretazione dei fatti. Di conseguenza ci pare di dover indicare la Positio sulla vita, sul martirio e sulla fama di martirio come il lavoro più attendibile: essa tiene conto di tutti gli atti processuali e quindi non solo delle deposizioni in essi raccolte da testimoni oculari dei fatti, ma anche dei documenti dell’Archivio storico dell’arma dei carabinieri e di numerosi archivi militari tedeschi, in particolare il Bundesarchiv-Militärarchiv di Freiburg e quello di Aachen. Cfr anche D. Mondrone, «Salvo D’Acquisto. Un carabiniere verso la gloria degli altari», in Id., I Santi ci sono ancora, vol. IX, Roma, Pro Sanctitate, 1985, 228-246.
[3] Congregatio de Causis Sanctorum, Beatificationis et Canonizationis Servi Dei Salvii D’Acquisto, Viri laici (1920-1943), Romae, 1996, Positio, vol. II, teste 10, p. 73.
[4] Alla fine del corso, nella scheda di valutazione, circa le «attitudini all’avanzamento», è scritto: «Nessuna per ora»: cfr Positio, vol. I, 78.
[5] Va tenuto conto che il 10 settembre 1943 fu concluso un trattato fra il Comando Supremo tedesco nell’Italia centrale e meridionale e il primo Ufficiale di Stato Maggiore della Divisione Centauro. Il documento fu firmato, per parte tedesca, dal Capo di Stato Maggiore del maresciallo Kesselring, generale Westphal, e per parte italiana dal tenente colonnello dello Stato Maggiore Giaccone. Esso riguardava non solo la città di Roma ma anche il territorio sino a 50 km a nord e a 50 km a sud della capitale. Secondo quanto stipulato, tutte le forze armate italiane dovevano deporre le armi e consegnarle alle autorità tedesche; lo stesso valeva anche per tutte le installazioni militari, come campi di aviazione, fabbriche ecc. Si tratta di un documento che nel suo tono è piuttosto moderato, mirante a far sì che si evitassero incidenti più gravi, cosa possibile nella situazione che si era venuta a creare. Ai carabinieri spettava la responsabilità di tutelare l’incolumità dei soldati e civili tedeschi, ma questo compito era svolto alle dipendenze del Comando Forze di Polizia della Città Aperta, perché i tedeschi non si fidavano completamente dei carabinieri a motivo della loro tradizionale fedeltà al Re d’Italia. Ciò che è da tenere presente è che i fatti di Palidoro si svolsero meno di due settimane dopo tale accordo (cfr il Documento a firma del maggiore dei carabinieri Marco Ricotti, direttore dell’Ufficio Storico dell’Arma, in Positio, vol. I, 187-189).
[6] In seguito al capovolgimento della situazione politica determinato dagli eventi dell’8 settembre e all’occupazione di Roma da parte dei tedeschi, il maresciallo Albert Kesselring per la Germania e il generale Carlo Calvi di Bergolo per l’Italia firmarono un accordo in virtù del quale veniva ufficialmente demandato ai carabinieri il compito di proteggere in Italia i cittadini tedeschi sia civili sia militari (cfr G. Castelli, Storia segreta di Roma Città Aperta, Roma, Quattrucci, 1959, 59-78).
[7] Secondo il diritto internazionale vigente a quel tempo, che aveva come fondamento alcune Risoluzioni prese nel 1907 e confermate nel 1929, esistevano alcune disposizioni riguardanti gli attentati effettuati in un Paese militarmente occupato e le rappresaglie ad essi conseguenti. La Convenzione internazionale sul diritto militare firmata all’Aja nel 1907 autorizzava, nei casi di attentati illegittimi da parte di partigiani, la rappresaglia a danno di civili innocenti e persino la loro esecuzione. La motivazione di questa disposizione era che essa costituiva un deterrente mirante a evitare il ripetersi di altre simili azioni illegittime. Nel 1929 queste disposizioni furono confermate a Ginevra, ma ad esse fu aggiunta la condizione che la rappresaglia non doveva essere sproporzionata. Si noti però che né nel 1907 né nel 1929 era stato determinato il numero dei civili che potevano essere uccisi per rimanere entro i limiti di una rappresaglia proporzionata. Il principio in base al quale l’uccisione di dieci civili innocenti come rappresaglia per una persona uccisa in un attentato illegittimo rientrava nei limiti della «proporzione» considerata accettabile; tale principio venne fissato soltanto dopo la fine della seconda guerra mondiale nei processi di Norimberga. Cfr anche L. Larivera, «Esiste un diritto di rappresaglia?», in Civ. Catt. 2007 I 13-25.
[8] Positio, vol. II, teste 37, p. 201 s.
[9] Ivi, teste 1, p. 9.
[10] Ivi, 10.
[11] Ivi, teste 37, p. 202.
[12] Ivi, teste 1, p. 10.
[13] Ivi, teste 17, p. 114 s.