|
ABSTRACT – Un vecchio Padre del deserto morente disse a un discepolo: «Non insegnare mai nulla che tu non abbia perfettamente praticato». È il frutto di tutta una vita di confronto con la Scrittura, maturato nella preghiera.
La massima fa riflettere sul rapporto tra l’uomo e la parola e sulle parole che spesso suonano vuote, perché prive di contenuto o di vita. Siamo così abituati alle parole che spesso non ne consideriamo il valore, la forza, l’efficacia. Molti sono i rischi e i pericoli nell’uso e nell’abuso della parola.
Le parole «dette», ma non «fatte», creano l’illusione di essere già realizzate solo perché sono state dette. Questa è la tentazione del «verbalismo», il vezzo di letterati, moralisti e predicatori. Ma anche atteggiamento al quale siamo, per vie diverse, tutti ugualmente inclini. A questo vizio è incline il moralizzatore laico, cioè chi detta norme agli altri, chi è portato a mettere in discussione il prossimo anziché se stesso. Ma il «verbalismo» tocca anche l’esperienza religiosa, perché sembra essere un modo falso di redenzione.
Queste constatazioni non eliminano un altro dato di fatto, cioè che nella vita una certa misura di verbalismo è inevitabile per tutti. La parola ci serve per capire le cose e per comunicare con gli altri. Questo compito di mediazione è un vero compito. Le formule servono per guidare l’azione. Ma accade facilmente che, invece di cercare le cose e di trasformarle, ci accontentiamo di fermarci alla loro formulazione verbale – specialmente se costituita da un’espressione esatta, elegante, raffinata –, facendola diventare un mondo a sé, una «intercapedine», anziché uno strumento di mediazione. Questa evasione e questa difesa riguardano evidentemente anche Dio, proprio perché Dio si trova alla radice di tutte le cose.
Il segno, il simbolo, non è solo una via di comunicazione o, prima ancora, un momento e una componente dell’atto conoscitivo: è molto di più, è un nutrimento. Gli uomini mangiano simboli. E i simboli sono un cibo necessario, ma rischioso. Ufficialmente i segni significativi, senza le cose significate, sono nutrimento per esteti.
D’altra parte, non c’è atto umano che non sia simbolo. Non c’è atto umano che non sia discorso, e quindi alimento per simboli. Ma non ogni simbolo è buono, perché non ogni significato è accettabile.
La massima che il giovane Holden apprende in una notte di fuoco – «Ciò che distingue l’uomo immaturo è che vuole morire nobilmente per una causa, mentre ciò che distingue l’uomo maturo è che vuole vivere umilmente per essa» – è precisamente una regola che impone di fare e di non limitarsi a significare.
********
MAN AND THE WORD: THE TEMPTATION OF «VERBALISM»
Among the «words» of the Fathers of the Desert, there is one pronounced by an old dying hermit to a disciple: «Never teach anything that you have not practiced perfectly». Extremely sober in speaking, the Fathers concluded their lives with a maxim capable of gathering all their lives. It was the fruit of the comparison with Scripture, matured in prayer. The maxim invites us to reflect upon the relationship between man and the word, and on words which often sound empty because they have no content or life. The words «said», but not «made», create the illusion that they are already realized only because they have been said: it is the temptation of «verbalism», the mannerism of literate, moralists, and preachers.