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«Per me la Cina — rivela papa Francesco nella sua intervista sulla Cina ad Asia Times, il 2 febbraio 2016 — è sempre stata un punto di riferimento di grandezza. Un grande paese. Ma più che un paese, una grande cultura con una saggezza inesauribile. Da bambino, quando leggevo qualcosa sulla Cina, questo fatto aveva la capacità di ispirarmi ammirazione. Provo ammirazione per la Cina. In seguito ho approfondito la vita di Matteo Ricci e ho visto come quell’uomo provava la stessa cosa che provavo io e nello stesso identico modo, ammirazione, e come è riuscito a entrare in dialogo con questa grande cultura, con questa saggezza secolare»[1].
L’ideale di comunione culturale che Matteo Ricci aveva in mente
Matteo Ricci (利瑪竇, Lì Mǎdòu, Macerata 1552 – Pechino 1610), gesuita, rappresenta un punto di svolta nella conoscenza della Cina e del dialogo interreligioso. Il suo esempio ha spezzato i confini tra mondi separati da una grande distanza che lui, nel suo percorso spirituale e culturale, ha cercato di colmare attraverso un nuovo modo di evangelizzare i popoli. Uno dei concetti base del gesuita di Macerata per poter portare avanti la sua missione fu quello dell’amicizia, tanto da pubblicare nel 1601 a Pechino il 交友論 (Jiaoyou lun, De Amicitia o Dell’ Amicizia[2]), in cui s’intrecciano la sapienza cinese e quella occidentale, mostrando pienamente l’ideale di comunione culturale che egli aveva in mente.
L’eco di quest’opera non rappresentò solo un’opportunità, per i mandarini e i letterati della corte dei Ming, per conoscere il pensiero di grandi filosofi occidentali, ma per altri padri gesuiti fu anche la base per poter introdursi, comprendere e dialogare con i grandi intellettuali della Cina. Esattamente sessant’anni dopo la pubblicazione di quest’opera, infatti, p. Martino Martini (卫匡国, Wei Kuangguo, Trento 1614 – Hangzhou 1661) pubblicò il suo 達支篇 (Qiuyou bian, De Amicitia o Trattato sull’ Amicizia[3]), che riprese fortemente i temi trattati da Matteo Ricci.
Da questi due grandi esempi si può capire quanto il concetto di amicizia fosse fondamentale, anche dal punto di vista filosofico e teoretico, per poter comprendere appieno la cultura cinese, i suoi costumi, i suoi usi e, nel caso di Martini, anche i riti, che furono al centro della cosiddetta «Controversia dei riti cinesi», durata quasi un secolo e mezzo, a partire dagli inizi del XVII secolo. Tutto ciò ha radici nell’impresa faticosa di Ricci, che nelle sue lettere mostra apertamente il suo conflitto interiore tra l’estrema solitudine e la voglia di creare una profonda amicizia con gli intellettuali della dinastia Ming. Questo contrasto interiore si riversò anche nelle scelte difficili che fece il gesuita di Macerata, cambiando i suoi abiti, i suoi costumi e modificando, di volta in volta, le sue constatazioni riguardanti il vasto mondo cinese.
L’amicizia, dunque, non è semplicemente un concetto teorico, volto esclusivamente all’evangelizzazione del popolo cinese, ma è anche un’esigenza esistenziale che si fa spazio con umanità all’interno della missione dei padri gesuiti e nel suo stesso animo. Questo fu pienamente compreso da p. Martini, il quale riuscì a difendere il metodo di Ricci, comprendendo che costui andava al di là di questioni terminologiche ed esclusivamente teoretiche: il suo metodo era basato sulla potenza esistenziale del dialogo, che riesce a trasformare l’animo dell’uomo, seppur richiedendo molta sofferenza, solitudine e dedizione.
L’amicizia nella vita e nelle opere di Matteo Ricci
In una lettera al fratello Orazio, Matteo Ricci scrisse: «Altri [fratelli] fanno naufragii nel mare e nei fiumi, come anche toccò a me la mia parte; altri furono crocifissi, altri trapassati con frezze, altri con dardi; et quei che viviamo, sempre stiamo con la morte avanti agli occhi, stando fra milioni di gentili, tutti nostri nimici; et tutto questo per amor di Dio, et acciò Dio ci perdoni i nostri peccati et ci liberi dall’inferno: et con tutto ciò piangiamo e spargiamo ogni giorni molte lagrime, non sapendo qual sarà il giuditio di Dio»[4].
È in questo contesto tremendo che il gesuita vive la sua amicizia con i letterati confuciani, procedendo con timore, ma spesso anche con profonda fiducia, superando ostacoli ed eventi molto dolorosi. Il naufragio, per il gesuita di Macerata, ha sicuramente rappresentato un punto di svolta nella sua esistenza, e ha anche cambiato il suo atteggiamento nei confronti della comunità dei letterati. Tutto ciò ha favorito la comprensione che l’amicizia, così come lo studio dei classici, era un elemento basilare per poter convertire non solo piccole comunità ma l’intero impero cinese.
In una lettera del 29 agosto 1595, Ricci racconta al gesuita p. Duarte de Sande (Braga 1547 – Macao 1599), con intensa commozione, il suo naufragio e, alcune righe più avanti, la sua decisione di mutare i vestiti che aveva usato precedentemente, stravolgendo anche il suo rapporto con l’élite confuciana della dinastia Ming. Durante il suo viaggio, con un governatore cinese, lungo un fiume alla volta di Pechino, l’imbarcazione di Ricci affondò, ed egli si salvò per miracolo, ma vide morire un suo giovane compagno che aveva portato con sé dalla città in cui si trovava in precedenza, ovvero Shaozhou. «E vedendo la mia scrivania ed il mio letto che, ahimè, stavano a pelo d’acqua, stesi un braccio e le tirai verso di me, fino a che dopo i marinai, tornando a nuoto fino alla barca, mi aiutarono a salire a riva. Ma João Barradas affondò a tal punto che la corrente se lo trascinò e non venne più a galla, e per quanta cura potemmo avere dopo non fu possibile trovare il suo corpo»[5].
Lo strazio della morte venne superato da Ricci con la consapevolezza che la sua missione in Cina poteva raggiungere una nuova fase. Per questo motivo, dopo dodici anni dal suo arrivo in Cina — esattamente, dal 1583, anno del suo arrivo a Zhaoqing, al 1595, anno del suo arrivo a Nanchang — il gesuita di Macerata decise di mutare i propri costumi, stravolgendo così la sua esistenza: «E poiché avevamo pensato di lasciare i nomi di bonzi che tra i cinesi sono tenuti in bassa considerazione, e assumere quelli di letterati, conforme al permesso che ci aveva lasciato il padre visitatore, ci facemmo crescere la barba e i capelli fino agli orecchi, e indossammo pure un vestito particolare che i letterati usano durante il tempo delle visite e non più quello di bonzi che prima usavamo»[6].
I gesuiti che arrivarono in Cina, infatti, in un primo momento decisero di assumere gli abiti e il nome dei bonzi (probabilmente utilizzando il termine cinese 道人, dàorén, ovvero monaco, anche se usato spesso in modo specifico per i monaci daoisti). Successivamente, la consapevolezza di Ricci di dover instaurare un legame di fiducia e di amicizia con i letterati lo convinse a vivere come uno di loro. Come ricorda un grande intellettuale e biografo di Matteo Ricci, il gesuita p. Giulio Aleni (艾儒略, Ai Rulüe, Brescia 1582 – Yanping 1649), questo stravolgimento coincise anche con l’intensificarsi del lavoro sui testi della filosofia confuciana, che aveva già iniziato dal 1592: «Maestro Ricci allora tentò la traduzione in lingua europea dei Quattro Libri cinesi e la mandò in patria. I suoi compatrioti lessero quei libri e li apprezzarono, perché i classici cinesi si mostravano capaci di conoscere la grande origine, senza fraintendere il Signore di essa. Fino ad oggi le dottrine di Confucio e di Mencio sono diffuse nei paesi lontani, proprio per merito di Maestro Ricci»[7].
Un esempio chiaro dell’amicizia con un grande letterato è quello con 徐光启 (Xú Guāngqǐ, Shanghai 1562 – Pechino 1633), che verrà battezzato con il nome di Paolo (o Paulo). Un evento, tra gli altri annotati da Ricci nelle sue lettere, mostra maggiormente il suo grande attaccamento al gesuita di Macerata e all’aiuto culturale di tutta la comunità dei gesuiti in Cina: «Il nostro dottor Paolo prima di gire a sua terra a seppellire suo padre Leone, che era morto, conforme al costume di questa terra, fece stampare i sei primi libri di Euclide, che avevamo l’anno passato insieme voltato in lettera cinese, e fu cosa di grande maraviglia, in questo mondo di qua mai più vista, tal modo di libro e maniera di provare e dimostrare sì evidentemente»[8].
In più, come racconta Ricci in una lettera del 1608, la cerimonia di sepoltura del padre di Paolo stupì molto la corte di Pechino, presso la quale Ricci risiedette dal 1601 fino alla sua morte: «Al buon christiano, il dottor Paolo, anco moritte l’anno passato suo padre, vecchio di settantaquattro anni, per nome Leone. E come egli tiene sì grande offitio nella corte, fu molto più universale l’admiratione di questa corte il vedere farsi questo atto di essequie a persona sì grave, senza usare di nessun rito gentilico, che serve molto per l’essempio degli altri christiani di manco qualità»[9].
Per Ricci, il legame con Paolo fu essenziale, non solo per aumentare la sua notorietà all’interno della corte a Pechino, ma anche per riflettere sull’importanza stessa del sentimento dell’amicizia. Esso spezza quella solitudine che tanto tragicamente ha segnato il suo animo e di cui c’è traccia pressoché in ogni lettera che lui ha scritto ai suoi confratelli o ai suoi familiari.
E già in una lettera del 4 novembre 1595, Ricci metteva in evidenza come una delle cause della sua notorietà nella città di Nanchang fosse proprio il suo rapporto con i letterati e con la loro filosofia: «Ma come noi vogliamo provare le cose della nostra santa fede per suoi libri ancora, in questi anni passati mi feci dichiarare da buoni maestri oltre il tetrabiblio anco tutte le sei dottrine, e notai molti passi in tutte esse, che favoriscono alle cose della nostra fede […]. E quando parlo con questi letterati, gli soglio domandare qual è la sua doctrina, e per essa gli provo quello che gli voglio provare»[10].
Fu proprio con questo atteggiamento di commistione e di intenso legame con il mondo dei letterati confuciani (e neoconfuciani) che Ricci compose il 交友論 (Jiaoyou lun, o De Amicitia), che mostra proprio quanto l’amicizia fosse un elemento fondamentale non soltanto nella conversione, ma anche nella comprensione del pensiero confuciano.
Tra esistenza e dottrina: il «De Amicitia»
«Io, Matteo, venuto per mare dal grande Occidente, entrai in Cina ammirando le nobili virtù del Figlio del Cielo dei grandi Ming e gli insegnamenti tramandati dagli antichi re. Dimorai al di là del Monte dei Susini per diverse mutazioni di astri e di nevi»[11]. Il De Amicitia è anzitutto, come afferma lo stesso Ricci, una raccolta di sentenze dei grandi Maestri dell’Occidente, che hanno discusso sul tema dell’amicizia. Esso però rappresenta anche un atteggiamento unico nei confronti dell’esistenza, basato sul dialogo interreligioso e filosofico. In effetti, come sostiene Aleni nella sua biografia, «se uno legge i libri di Maestro Ricci, è quasi come se avesse incontrato Maestro Ricci di persona»[12].
Per questo motivo lo scritto non è semplicemente una serie di citazioni dotte, tratte dai grandi testi dell’Occidente, ma anche, e soprattutto, uno dei manifesti dell’atteggiamento di Ricci nei confronti della cultura Ming e confuciana. «Quando si considera l’amico come se stesso — scrive Ricci —, allora il lontano si avvicina, il debole si rafforza, chi ha subìto disgrazie torna nella prosperità, l’ammalato guarisce e — che bisogno c’è di tante parole? — il morto è come se fosse vivo»[13].
Al tempo stesso, il tema dell’amicizia è fondamentale anche nel confucianesimo, in cui i rapporti con gli uomini, con i familiari, sono la base saldissima, secondo Confucio, su cui si costruisce uno Stato solido e duraturo. In questo modo la conoscenza del confucianesimo da parte di Ricci si mescola magistralmente con la sua volontà di mostrare il volto della filosofia europea ai letterati della dinastia Ming.
Non è un caso, infatti, che i Dialoghi (論語, Lúnyǔ) di Confucio inizino parlando proprio dei rapporti con i vicini e con la sincerità nei confronti degli amici: «Il Maestro Zeng disse: “Ogni giorno considero me stesso secondo tre questioni: nel progettare per gli altri ho mancato di lealtà? Nelle relazioni con gli amici ho mancato di sincerità? Non ho praticato quanto mi è stato tramandato?”»[14].
Lo scritto, dunque, rappresenta anche un tentativo di riavvicinamento e di dialogo con i temi fondamentali del confucianesimo, che trovano, nel testo sull’amicizia, una base comune da cui partire per poter costruire rapporti nuovi e duraturi. Inoltre, come si è detto in precedenza, è una grande opportunità per i letterati di comprendere meglio quale sia lo sfondo culturale e religioso su cui Matteo Ricci ha costruito ed elaborato le sue teorie. Egli infatti ricorda che «le cose degli amici sono tutte comuni»[15], riprendendo i temi tratti dall’Etica Nicomachea di Aristotele e dalle Confessioni di sant’Agostino[16]. La base filosofica di Ricci, dunque, emerge in tutto il testo, fondendo due dimensioni che sembrerebbero, a prima vista, assolutamente separate.
Comprendiamo così la peculiarità dell’approccio del gesuita di Macerata, nel quale la sua vita all’interno della dinastia Ming s’accompagna sempre alle sue teorie, fondendo insieme la dimensione esistenziale con quella teorica. Il metodo dell’inculturazione è assolutamente centrale per comprendere quanto il sentimento dell’amicizia incida sulla possibilità di convertire gli altri e, nello stesso tempo, di comprenderli in maniera sincera e pura.
Questo avvenne sempre tra grandi sofferenze, come ricorda Aleni: «Maestro Ricci si comportò sempre umilmente. Siccome nel luogo dove dimorava era straniero, era inevitabile subire del disprezzo, ma Maestro Ricci non se ne amareggiava»[17]. E questo ha rafforzato non soltanto la sua fede, ma anche la sua convinzione che l’amicizia accorta e cauta con i letterati fosse la chiave fondamentale del dialogo tra cristianesimo e confucianesimo.
Proprio su questa base, p. Martino Martini ha difeso il metodo di Ricci, in un momento storico profondamente critico per l’impero cinese, che portò alla transizione dinastica dai Ming ai Qing. Il gesuita che disegnò i tratti della missione cinese lasciò dunque la sua eredità a colui che disegnò l’impero cinese tra guerre atroci e scontri teoretici sui riti cinesi.
Martino Martini alla ricerca dell’amicizia
«Nessun altro missionario occidentale più di Martini ha contribuito alla conoscenza della Cina in Europa: infatti, se Ricci fu colui che portò per primo l’Europa in Cina, Martini fu colui che presentò per primo e in gran dettaglio la realtà della Cina ai lettori europei. […] Tuttavia la sua opera più famosa fu il Novus Atlas Sinensis, Amsterdam, 1655 […]. Tale opera per la prima volta presentava ai lettori europei la conformazione geografica della Cina, con 17 mappe a colori, accompagnate dalla descrizione dettagliata delle 15 province cinesi con l’esatta indicazione di oltre 10.000 toponimi, che venivano per la prima volta trascritti in lettere latine»[18].
L’avventura di Martino Martini, nato a Trento nel 1614, lo porterà a solcare i mari molte volte per poter raggiungere la Cina, precisamente Hangzhou, dove morirà nel 1661, giovane, ma avendo compiuto esperienze titaniche. Come Matteo Ricci, seguendo il profilo tratteggiato da Giuseppe Longo[19], Martini è stato un grande matematico e appassionato di astronomia, ma è stato anche profondamente interessato alla filosofia, traducendo in cinese passi tratti dai più grandi autori classici greci e latini.
Il gesuita trentino portò agli occhi dell’Europa la bellezza della Cina tracciandone un’accurata mappa, che fu utilizzata per conoscere l’Estremo Oriente anche dal punto di vista geografico. Per questo la sua accuratezza fu anche legata all’estrema chiarezza con cui affrontò i difficili momenti di passaggio dalla dinastia Ming alla dinastia Qing e, nello stesso tempo, alla difesa delle missioni fatte in precedenza dai primi gesuiti che entrarono in Cina, sostenuti da un grande fervore religioso e da una profonda consapevolezza delle difficoltà di predicazione nell’impero celeste.
Martini quindi decise non soltanto di tracciare i confini e di disegnare la Cina descrivendone ogni singola città, ma anche di segnarla in continuità con la vocazione di Ricci, sebbene in un periodo pieno di guerre e di conflitti sanguinari.
La missione di Martini infatti fu caratterizzata dalla profonda difesa delle posizioni, sia teologiche sia filosofiche, esposte da Matteo Ricci nelle sue opere, in particolare nel 天主實義 (Tiānzhû shíjì, Il vero significato del Signore del Cielo[20]). Il gesuita di Trento si trovò, nel 1654, a discutere della questione dei riti cinesi, che vide gli Ordini mendicanti — in particolare, domenicani e francescani — criticare in maniera netta le concessioni fatte da Ricci nei confronti dei riti tradizionali cinesi. Per questo papa Alessandro VII (Siena 1599 – Roma 1667) assegnò tale questione al Sant’Uffizio, a cui p. Martini inviò un memoriale. «Durante le udienze — scrive Longo — Martini difese con competenza ed efficacia l’impostazione pastorale dei gesuiti, basata sulla cautela e sulla moderazione per non sgomentare chi si accostava per la prima volta ai misteri della dottrina cristiana: sulla traccia di Matteo Ricci, anche Martini pensava che molti articoli di fede fossero difficili da accettare per chi proveniva da tradizioni tanto diverse e che quindi fosse opportuno adottare gradualità e prudenza»[21].
La discussione però non fu esclusivamente teologica e considerò anche le dottrine confuciane, cercando di comprendere quanto il culto a Confucio potesse essere ritenuto in contrasto con la dottrina cristiana. Per questo Martini sostenne con fermezza che le teorie confuciane, così come il culto di Confucio, sono da intendere in un senso profondamente filosofico e non, come sostenevano gli Ordini mendicanti, come un culto a una divinità. In realtà è difficile affermare quanto Confucio fosse «un maestro di vita e di condotta morale»[22] e quanto in epoca Ming questo potesse rappresentare una filosofia di vita piuttosto che una religione di Stato. Un saggio piuttosto che un santo.
«Queste due diverse spiegazioni — scrive Unokichi Hattori — sono il risultato delle diverse definizioni del termine 聖 (shèng) “santo”. Confucio durante la sua vita è stato considerato un santo da molte persone, e ben presto, dopo la sua morte, fu venerato in tal modo da tutti. Il termine “santo” fu usato solo per lui; in un periodo successivo, non fu chiamato Confucio, ma semplicemente “il santo”. Alcune persone ritennero che un santo, e in particolar modo un santo come Confucio, fosse uno speciale dono del Cielo»[23].
Su questo punto è interessante indagare il Trattato sull’ Amicizia di Martini, che segna una continuità con il De Amicitia di Ricci, notando come anche per il gesuita di Trento l’amicizia sia un concetto chiave per il dialogo interreligioso e filosofico. In questo testo si mescolano il confucianesimo e i classici della filosofia europea, mostrando la saggezza di Confucio piuttosto che la sua presunta santità.
Il «Trattato sull’Amicizia», un legame tra pensieri diversi
«L’Amicizia è il mare dell’amore: difficilissimo da navigare. Quando le onde sono calme e i flutti pacati, le navi si inoltrano tranquillamente in alto mare; ma se improvvisamente si leva un vento impetuoso ed i marosi si ingrossano, molte si capovolgono e affondano miseramente. La natura del mare non è costante. Coloro che navigano per mare sono pertanto timorosi, attenti e prudenti. Chi naviga per il mare dell’amore fa lo stesso»[24].
Non è un caso che Martini, all’inizio della sua opera, utilizzi la metafora del mare, della navigazione e del naufragio per affrontare il tema dell’amicizia. In essa è racchiusa la bellezza e nello stesso tempo la profonda sofferenza che ha contraddistinto la sua esistenza. Essa inoltre ricorda le vicende di Ricci, i suoi naufragi, le sue difficoltà e la sua profonda convinzione nella missione cinese. In questa metafora, in fondo, è racchiusa l’essenza dell’amicizia per Martini, che si rivolge ai letterati con tono accorto ma saldo, ricordando quanto lui abbia sofferto prima di giungere in Cina, mostrando, in poche righe, tutti i compagni persi, la sofferenza, la morte che stava innanzi ai suoi occhi ad ogni passo.
Ovunque nel Trattato appare una profonda convinzione nella bontà dell’amicizia: «Nulla — scrive Martini — è forte quanto l’amore quando coinvolge tutta l’anima. Esso sa impadronirsi dell’animo dell’amante per offrirlo alla persona da questi amata. Perciò chi ama veramente non ha timori, non considera se le circostanze sono favorevoli o contrarie e fa di tutto pur di essere vicino alla persona amata e salvarla dai pericoli»[25].
L’amicizia però «ha dei limiti, basati sulla virtù e sulla giustizia»[26], che non possono essere oltrepassati. In questo senso, dunque, Martini evoca concetti cari ai letterati confuciani, come quello di virtù (德, de) e quello di limite, che richiama il concetto confuciano di giusto mezzo (中庸, Zhōng yōng). Infatti Liu Ning (1620-1715), nella sua prefazione al testo, ricorda la tradizione confuciana: «In realtà l’Amicizia non è soltanto una relazione sociale ma è un impegno per la vita, è il poter discutere di questioni di vitale importanza con qualcuno ugualmente coinvolto, è il poter penetrare nel fondo del suo cuore senza che egli ci debba spiegare alcunché. Per quanto riguarda l’espressione “far amicizia” vedi il passo dello Zhōng yōng»[27].
Le citazioni e le metafore, così come l’intera trattazione, non sono quindi poste in un senso prettamente religioso, ma, in maniera più ampia, mostrano immagini tratte sia da scuole di pensiero europee sia dalla scuola confuciana e neoconfuciana.
Lo sguardo di Martini accoglie i letterati e dialoga con loro, così come fece Ricci, creando un terreno favorevole al dialogo interreligioso. Questo però non è un puro gioco teoretico, volto a uno sfoggio culturale fine a se stesso. Al contrario, come ricorda Masini, il testo stesso nasce dal dialogo con il «mandarino Zhu Shi, con il quale [Martini] intrattiene un fitto scambio intellettuale sul tema dell’Amicizia»[28].
Il dialogo quindi parte, come nel caso di Ricci, da esempi concreti che i gesuiti hanno vissuto nella loro esperienza missionaria e che hanno, in un secondo momento, abilmente trasposto all’interno delle loro opere filosofiche.
Il legame dell’amicizia con la virtù è sicuramente congiunto con la volontà, condivisa da Ricci, di comprendere e unificare i costumi europei e quelli cinesi, andando al di là delle critiche sui riti e riflettendo, piuttosto, sulla capacità di dialogare con l’altro. La discussione quindi prende spesso tratti innovativi, che vennero criticati dai contemporanei di Martini e, soprattutto, dai suoi successori. Su questo tema, il gesuita di Trento scrive: «C’è chi mi ama e chi mi è amico. Chi mi ama, ama il mio corpo; chi mi è amico, ama il mio animo. Perciò l’Amicizia è un ausilio della virtù, non è un ausilio del corpo»[29].
La chiarezza filosofica di Martini riesce a trasmettere messaggi legati al cristianesimo, ponendosi nello stesso tempo in perfetta sintonia con i costumi confuciani. Così, attraverso queste riflessioni, viene chiarito il ruolo di Confucio come Saggio (聖, shèng), e la sua concezione dell’amicizia viene intesa in un senso scevro da considerazioni di carattere religioso.
L’amicizia, che aiuta a essere virtuosi, viene intesa sempre in senso confuciano, legata, cioè, a una grande attenzione. Tornando alla metafora precedente, il mare dell’amore solcato dall’amicizia è pieno di ostacoli, ed è solo mantenendosi nei limiti della virtù che è possibile percorrerlo in maniera cauta. Questo porta, quindi, ad un ulteriore passaggio. L’amicizia è specchio della via (道, dào), e l’uomo percorrendola riscopre se stesso; affronta le difficoltà dell’esistenza, si affida alla ragione, si apre alla fede.
Questo viene messo in evidenza anche da Ricci nel Vero Significato del Signore del Cielo: «La retta via è piena di ostacoli, mentre quella sbagliata è aperta e ampia. Ci sono dunque alcune persone che non conoscono la Via, ma imprudentemente vogliono farsi guida degli altri. La vera Via sembra quella falsa, la falsa sembra quella vera; così non ci si deve sbagliare nello sceglierla. Se si cammina in direzione delle diecimila felicità, e improvvisamente si giunge alle diecimila sofferenze, la colpa è del percorso che si è scelto»[30].
A differenza del daoismo, per Ricci, e quindi per Martini, la meta è essenziale per comprendere la via. In maniera speculare, l’amicizia rappresenta la via per poter accedere alla felicità dell’anima. Essa dunque costituisce un percorso di apertura alla fede e alla conversione.
Qui si nota chiaramente quanto il pensiero di Martini sia simile a quello di Ricci: entrambi hanno compreso che solo studiando i costumi dei letterati, le loro tradizioni e la loro filosofia, è possibile giungere alla conversione.
Un dialogo contemporaneo con il pensiero cinese
«Quando il dolore degli altri è diventato il mio dolore, sono stato finalmente in grado di capire cosa significasse vivere e cosa significasse scrivere. Credo che al mondo nulla quanto l’esperienza del dolore possa mettere gli esseri umani in comunicazione, perché si tratta di un contatto molto intimo. E così, in questo libro, raccontando le sofferenze della Cina, ho raccontato anche la mia sofferenza. Sono la stessa cosa»[31].
Secondo il Vocabolario etimologico della lingua italiana[32], il termine «conversione» deriva dal termine latino conversio, che indica un mutamento, un cambiamento, un rivolgimento. Nell’esperienza di Yu Hua, che cerca di descrivere con toni talvolta tragici, talvolta grandiosi, lo sviluppo della Cina contemporanea, il rapporto con il dolore sembra assumere tratti particolarmente rilevanti nella sua trasformazione personale. Allo stesso modo l’esperienza del dolore fu fondamentale, per p. Matteo Ricci e per p. Martino Martini, per stravolgere le proprie vite e con-vertire, cioè trasformare, mutare, l’animo dei letterati. Per fare questo, però, essi stessi dovettero dolorosamente cambiare, stravolgere la propria esistenza e volgersi verso le tradizioni cinesi, mantenendo, in cuor loro, l’idea di riconciliazione e di dialogo con l’altro.
Martini e Ricci hanno mostrato alla Cina e all’Europa come l’amicizia possa essere la base per poter trasformare il proprio animo e abbracciare un futuro nuovo, privo di conflitti e in grado di tracciare i contorni di una società nuova. L’inculturazione, dunque, è un sogno, una visione, in cui l’amicizia rappresenta il legame tra mondi lontanissimi, tra uomini diversi che, percorrendo strade diverse, possono giungere alla stessa meta.
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[1]. F. Sisci, «Pope Francis urges world not to fear China’s rise», in Asia Times, 2 febbraio 2016 (in it.: «Incontro attraverso il dialogo», in Oss. Rom., 2 febbraio 2016).
[2]. M. Ricci, Dell’ Amicizia, Macerata, Quodlibet, 2010.
[3]. M. Martini, Trattato sull’ Amicizia, Trento, Centro Studi Martino Martini, 2008.
[4]. M. Ricci, Lettere, Macerata, Quodlibet, 2010, 401.
[5]. Ivi, 208 s.
[6]. Ivi, 217.
[7]. G. Aleni, Vita del Maestro Ricci Xitai del Grande Occidente, Brescia, Fondazione Civiltà Bresciana, 2010, 45 s.
[8]. Ivi, 487.
[9]. Ivi, 468.
[10]. Ivi, 315.
[11]. M. Ricci, Dell’ Amicizia, cit., 63.
[12]. G. Aleni, Vita del Maestro Ricci Xitai del Grande Occidente, cit., 86.
[13]. M. Ricci, Dell’ Amicizia, cit., 77.
[14]. Confucio, Dialoghi, Torino, Einaudi, 2006, 3.
[15]. M. Ricci, Dell’ Amicizia, cit., 73.
[16]. Ricci probabilmente fa riferimento ad Aristotele (Etica Nicomachea, 1170b 5-14) e ad Agostino (Confessioni, IV, 4-10).
[17]. G. Aleni, Vita del Maestro Ricci Xitai del Grande Occidente, cit., 41.
[18]. F. Masini, «Martino Martini: la Cina in Europa», in L. Paternicò (ed.), La Generazione dei Giganti. Gesuiti scienziati e missionari in Cina sulle orme di Matteo Ricci, Trento, Centro Studi Martino Martini, 2011, 77.
[19]. G. O. Longo, Il gesuita che disegnò la Cina. La vita e le opere di Martino Martini, Milano, Springer, 2010.
[20]. M. Ricci, Catechismo. Il vero significato del «Signore del Cielo», Bologna, ESC, 2013.
[21]. G. O. Longo, Il gesuita che disegnò la Cina, cit., 107.
[22]. Ivi, 109.
[23]. Unokichi Hattori, «Confucius’ Conviction of His Heavenly Mission», in Harvard Journal of Asiatic Studies 1 (1936) 97.
[24]. M. Martini, Trattato sull’ Amicizia, cit., 9.
[25]. Ivi, 19.
[26]. Ivi, 21.
[27]. Ivi, 68.
[28]. F. Masini, «Martino Martini: la Cina in Europa», cit., 71.
[29]. M. Martini, Trattato sull’ Amicizia, cit., 17.
[30]. M. Ricci, Catechismo. Il vero significato del «Signore del Cielo», cit., 365.
[31]. Yu Hua, La Cina in dieci parole, Milano, Feltrinelli, 2010, 228 s.
[32]. O. Pianigiani, Vocabolario etimologico della lingua italiana, Roma, Dante Alighieri, 1907.