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Molti avranno già visto nelle sale cinematografiche Le Cronache di Narnia: Il Leone, la Strega e l’Armadio, il film di Andrew Adamson, prodotto e distribuito dalla Disney. Qualcuno, lo speriamo, avrà quindi deciso di leggere l’opera che ha ispirato la pellicola. In effetti, il mondo di Narnia si è spalancato davanti agli occhi degli spettatori in tutto il mondo a partire dal Natale dello scorso anno, cioè da quando la pellicola ha avviato la sua scalata alle classifiche. Le Cronache di Narnia, capolavoro fantasy di Clive Staple Lewis (1898-1963), non sono certo un successo editoriale recente. Anzi, sono uno dei più noti long-seller mondiali, avendo venduto, secondo alcune stime, circa cento milioni di copie in 30 lingue. E questo a differenza di ciò che è avvenuto nel nostro Paese, dove nei confronti di Lewis si è registrata una certa indifferenza.
Il leone, la strega, l’armadio
In realtà molte opere dello scrittore, nato a Belfast e morto a Oxford, sono state tradotte in italiano, ma nessuna di esse ha avuto una fortuna editoriale veramente grande e tanto meno un’adeguata attenzione della critica. Lewis ha scritto altri capolavori, tra narrazioni e saggi, e speriamo che il pubblico possa essere «trascinato» a scoprirli sull’onda lunga del successo del film. Non si potrebbe che esserne lieti, visto che egli è uno dei geni letterari cristiani del Novecento[1]. Impossibile non citare almeno Le lettere di Berlicche e gli scritti autobiografici Sorpreso dalla gioia e Diario di un dolore [2].
Il leone, la strega, l’armadio, cioè il libro a cui si ispira il film della Disney[3], e gli altri sei che compongono Le Cronache di Narnia, dunque, sono stati per il pubblico italiano una piacevole novità. Protagonisti sono quattro ragazzini: Peter, Susan, Edmund e Lucy. Essi, per sfuggire ai bombardamenti su Londra durante la seconda guerra mondiale, sono mandati presso un vecchio professore che abita una grande casa nel cuore della campagna, accudito dalla governante, signora Macready. I bambini, durante una triste giornata di pioggia, decidono di esplorare le stanze della casa. Arrivano in una grande stanza vuota, dove si trova un armadio. Tutti vanno via a eccezione della piccola Lucy, che si lascia incuriosire fino ad aprirne la porta. Da qui ha inizio l’avventura.
Al di là della porta c’è Narnia, un mondo incantato di animali che parlano, fauni, nani e altre creature. Ma a Narnia si vive un dramma: essa è assediata dalla malvagia Strega Bianca che la tiene prigioniera con un incantesimo. Con lei è sempre inverno, però le profezie hanno predetto la fine del regno della Strega: un giorno Aslan tornerà a Narnia. Aslan è il grande leone, il re degli animali, figlio dell’Imperatore che vive al di là del mare: Il dolore sparirà, quando Aslan comparirà; / al digrignare dei suoi denti fuggon tutti i malviventi; / quando romba il suo ruggito, gelo e inverno è ormai finito; / se lui scuote la criniera, qui ritorna primavera[4] . La profezia prosegue affermando che due figli di Adamo e due figli di Eva siederanno un giorno sui quattro troni a Cair Paravel e regneranno su Narnia. Le profezie si compiranno, ma solamente dopo molte avventure, e soprattutto grazie al sacrificio cruento di Aslan, che muore al posto di uno dei bambini che si era reso colpevole del tradimento dei suoi fratelli. Un incantesimo, infatti, impone che ogni traditore appartenga alla strega per legge: ogni tradimento le dà diritto al sangue di chi se ne è macchiato. Aslan offre, da innocente, la sua vita in cambio di quella di Edmund.
La strega, dopo la crudele morte di Aslan, crede di aver vinto. Invece resta sconfitta definitivamente. Non sa infatti che esiste una «magia più grande»: «Quando al posto di un traditore viene immolata una vittima innocente e volontaria, la Tavola di Pietra si spezza e al sorgere del sole la morte stessa torna indietro»[5]. Susan e Lucy, che di nascosto avevano assistito in lacrime disperate alla sua uccisione, vedono Aslan risorto: «Le due bambine si guardarono attorno. Là, splendido nella luce del sole nascente, c’era Aslan. Più grande di come lo avevano visto prima, più nobile, più maestoso. Scuoteva la criniera. […] Aslan le fissava con i grandi occhi lucenti, il corpo percorso da un fremito, e si frustava i fianchi con la lunga coda»[6].
Più che commentare le Cronache nel loro complesso[7] o identificare i possibili puntuali riferimenti biblici[8], nelle pagine che seguono intendiamo proporre, a chi è entrato nel mondo di Narnia attraverso il film o il libro a cui esso si ispira, una riflessione introduttiva ma di fondo.
La porta si aprì subito…
Per entrare nel mondo di Narnia è necessario varcare una soglia: la porta di un armadio. Lucy «si era fermata davanti all’armadione chiedendosi cosa contenesse. Certo, era chiuso a chiave, ma un tentativo si poteva anche fare; Lucy toccò la maniglia e con sua grande sorpresa la porta si aprì subito»[9]. Guardando all’interno, Lucy vide che il guardaroba conteneva cappotti e pellicce. Attratta dalle pellicce, che le piacevano molto, la bambina fece un passo, due, un altro…: «All’interno era buio, Lucy non vedeva niente, e per quanto annaspasse con le mani non incontrava che il vuoto. “Questo armadione è semplicemente enorme” disse tra sé, continuando ad avanzare e scostando le pellicce per fare spazio». Lucy avverte sui polpastrelli «qualcosa di morbido, sottile come sabbia e freddissimo», e contro il corpo e il viso «qualcosa di duro e ruvido perfino pungente» come rami d’albero. «E allora vide una piccola luce che brillava lontano, dritto davanti a lei. Lucy si rese conto che dove avrebbe dovuto esserci la parete di fondo dell’armadio c’erano invece alberi»[10]. Così Lucy entra nel mondo di Narnia, varca la soglia.
Ecco il punto: la fantasia ha bisogno di una soglia? Il rischio che appare in agguato nella visione di Lewis è molto semplice: postulare la necessità del superamento di una soglia può voler dire che la fantasia sia una pura «evasione». La soglia allora sarebbe la porta del carcere da cui si vuole evadere. Insomma: una visione della fantasia come alienazione, come fuga, come luogo verso cui fuggire e da cui poi, necessariamente e tristemente, far ritorno. Realtà e fantasia non sono due realtà opposte e antitetiche. La fantasia è un modo specifico di fare esperienza della realtà, una visione intensiva della realtà. Opporre realtà e fantasia significa spaccare in due l’esperienza che l’uomo fa del mondo, mettere le basi per mantenere una cesura radicale tra spirituale e materiale, vivere una sottile forma di manicheismo[11]. Dove sta andando Lucy, dunque? Sta fuggendo dal suo piccolo mondo verso un miraggio dorato?
Una piccola luce che brilla lontano
Lucy significa «luce»: nel suo cammino dentro l’armadio lei vede «una piccola luce che brilla lontano»[12], che poi si rivelerà essere un lampione. Lewis sapeva che per Aristotele il termine phantasiaha le sue radici etimologiche nella luce (phaos), «poiché senza luce non può darsi la visione»[13]. Essa indica l’apparire interiore degli oggetti che i sensi vedono all’esterno. Il riferimento alla realtà è dunque fondamentale, imprescindibile: non può esistere fantasia senza realtà. Lucy non è Peter Pan, ma una figura di Beatrice. Se il lettore si ferma a riflettere può intuire che lo spazio che si dispiega oltre la soglia dell’armadio potrebbe non essere affatto un «altro» mondo. A questo punto si apre la nostra proposta di lettura.
Narnia è il mondo reale, dove però ogni realtà e ogni personaggio assumono connotazioni molto forti e dense di significato. La soglia non è un punto di evasione dal carcere della realtà, ma è la vera porta di ingresso alla mia realtà più autentica e vera. Lucy che entra nell’armadio è figura di colui che compie un tragitto interiore alla scoperta di sé e del proprio mondo[14]. Varcare la soglia significa andare lontano dentro se stessi, farsi «vicino alle proprie infinite lontananze»[15]. Risuonano le parole di Agostino d’Ippona: Noli foras ire, in teipsum redi; in interiore homine habitat veritas[16] .
Ecco dunque il significato della porta dell’armadio: occorre varcare una soglia non certo per sfuggire al mondo, ma per avere una prospettiva ampliata su di esso. Noi abbiamo bisogno di tale apertura, abbiamo bisogno di spalancare la porta dell’armadio. Ma è proprio Lewis a fornircene la «chiave». Infatti nel suo An Experiment in Criticism egli si interroga: «Quale bene ricaviamo dall’occuparci di storie che narrano cose mai accadute e dal provare indirettamente dei sentimenti che nella vita reale eviteremmo volentieri? E quali ragioni abbiamo per difenderle? O che cosa ricaviamo dal fissare il nostro occhio interiore su cose che non possono esistere, per esempio sul Paradiso Terrestre di Dante, o sul sorgere di Thetis dal mare per dare conforto ad Achille, sulla Lady Nature di Chauser o di Spenser, o sulla carcassa della nave nell’Ancient Mariner?»[17]. La domanda è seria: che me ne viene se mi metto a contemplare paesaggi inventati, che non esistono o che addirittura non possono esistere? Narnia è tra questi, si capisce. Lewis arriva a un «abbozzo di risposta», l’unico a cui può giungere. Ed è il seguente: «Noi cerchiamo un ampliamento del nostro essere […]. Vogliamo vedere anche con occhi diversi dai nostri, immaginare con immaginazioni diverse dalle nostre, sentire con cuori diversi dai nostri. Non ci accontentiamo di essere monadi leibniziane. Chiediamo delle finestre: la letteratura come logos è una serie di finestre, o addirittura di porte»[18].
Lucy, aprendo la porta dell’armadio, diventa l’immagine del lettore che amplia la propria prospettiva sulla vita ed entra nelle profondità di sé con un occhio nuovo, capace di vedere in maniera lucida[19]. Lucy sta al gioco, si mette in gioco: «Lucy era una ragazzina abituata a dire la verità ed era sicura di avere ragione. Gli altri pensavano che stesse raccontando storie (alquanto assurde, per di più) e lei, nonostante ne soffrisse, non avrebbe potuto dire una bugia per rimediare»[20]. Lucy entra con fiducia nel mondo di Narnia e così diventa figura del vero lettore, di colui che è chiamato a rispondere con un atto di «fede poetica»[21] alla storia che gli si dispiega davanti. Entrare nel mondo di Narnia richiede una fiducia di base per rimettere in questione il nostro modo ordinario, comune, di vedere le cose. Più precisamente significa entrare in un mondo diverso, essere introdotti «a esperienze diverse dalle nostre»[22], fino a comprendere a fondo il senso proprio della nostra vita. Una vita senza storie e senza «fede» nelle storie sarebbe ben povera, anzi ben stretta, come il vano di un armadio chiuso.
Lo sappiamo bene: più una persona è ricca interiormente, più ha storie significative da raccontare e più è disponibile ad ascoltarne. Coloro che sono stati attenti lettori per tutta la loro vita «di rado si rendono conto pienamente di quel notevole ampliamento di se stessi che devono agli autori. Ce ne rendiamo conto di più quando parliamo con un amico che non è sensibile alla letteratura. Può essere pieno di bontà e di buon senso, ma abita in un mondo piccolo, nel quale noi ci sentiremmo soffocati. L’uomo che si accontenta di essere solo se stesso, è come in prigione. I miei occhi non mi bastano, voglio vedere meglio attraverso gli occhi degli altri»[23]. E non basta. Lewis non si accontenta di questa forma di ampliamento raggiunto attraverso occhi umani. «Mi dispiace che gli animali non possano scrivere libri: mi piacerebbe sapere come si presentano le cose agli occhi di un topo o di un’ape, percepire il mondo olfattivo carico di tutte le informazioni e le emozioni che può avere un cane»[24].
Guardare sé e il mondo con altri occhi è superare se stessi, è anche una forma di «annullamento temporaneo di se stessi. Ma — prosegue Lewis — questo è un paradosso antico: “chi perderà la propria vita, la salverà”»[25]. Le Cronache di Narnia richiedono questo abbandono fiducioso, in particolare nei confronti del grande leone, di Aslan (termine che in turco significa «leone», appunto).
Credere in Aslan
Il leone, la strega e l’armadio vive di una profonda dinamica cristiana, centrata sul mistero pasquale. Sul fatto che Aslan sia Cristo persino nell’intenzione dell’autore non ci sono dubbi. Creando Narnia e, in particolare, immaginando Aslan, Lewis parte da dati biblici. Egli ha avuto in mente Genesi49,9, dove si parla del «Leone di Giuda»: Un giovane leone è Giuda: / dalla preda, figlio mio, sei tornato; / si è sdraiato, si è accovacciato come un leone / e come una leonessa; chi oserà farlo alzare? Questo poi diviene uno dei titoli di Gesù nell’Apocalisse (5,5): «Uno dei Vegliardi mi disse: non piangere più, ecco il Leone della tribù di Giuda, il Germoglio di Davide, ha vinto». Aslan è «buono e terribile nello stesso tempo», «maestoso e tranquillo»[26]. Si fa esperienza di stare come davanti alla solennità buona di una maestosa e impervia montagna o di una fragorosa e rinfrescante cascata: massima potenza e massima bontà. Possiamo pensare al ruggito di Aslan mentre leggiamoOsea 11,10-11: Il Signore ruggirà come un leone: / quando ruggirà, accorreranno / i suoi figli dall’occidente, accorreranno come uccelli dall’Egitto, / come colombe dall’Assiria / e li farò abitare nelle loro case. Così scopriamo perchè nel film la voce per nulla «leonina» di Omar Sharif usata nel doppiaggio italiano sia alquanto inadatta. Uno dei tratti più efficaci di Aslan, alla fine, è proprio il suo ruggito potente unito alla maestosità del suo portamento[27]. Egli si sottoporrà all’umiliazione che lo condurrà a perire di spada sulla Tavola di Pietra, tormentato e dileggiato dagli aguzzini scatenati dalla Strega Bianca, per poi risorgere vittorioso, trionfando sulla morte, che su di lui non ha più potere[28].
Il problema per l’uomo di fede è però il seguente: Gesù può essere raffigurato come un leone? Gesù è un uomo, cioè molto di più che un animale! Raffigurare Gesù come un leone non è una forma di paganesimo teriomorfo? L’obiezione è stata sollevata da più parti. Certo bisogna ricordare che l’efficacia rappresentativa della letteratura procede per accentuazioni: non si può (e non si deve) richiedere a un’opera di fantasia di rappresentare tutto il mistero cristiano nella sua completezza, fino a esaurirlo. Ma il vero problema è stato posto da un bambino di nove anni di nome Laurence. Era il 1955. Egli si era talmente affezionato ad Aslan che disse a sua madre, non senza una certa preoccupazione, di sentire di amare Aslan più di Gesù. Sua madre, non sapendo cosa rispondere, scrisse direttamente a Lewis per chiedere consiglio.
Lo scrittore rispose sapientemente in una lunga lettera, nella quale, fra l’altro, leggiamo: «Laurence non può veramente amare Aslan più di Gesù, anche se gli sembra che sia così. Perché le cose che fa e dice Aslan, per le quali lui lo ama, sono semplicemente le cose che Gesù faceva e diceva. Tanto che, quando Laurence pensa di amare Aslan, in realtà ama Gesù e forse lo ama di più di quanto abbia mai fatto prima. […] Ora, se Laurence si preoccupa perché trova che il corpo di leone gli sembra più bello del corpo dell’uomo, non credo che dovrebbe davvero preoccuparsi. Dio sa come funziona l’immaginazione dei bambini (l’ha creata lui, dopotutto)…»[29].
Aslan non toglie nulla a Cristo, ma anzi ne mette in luce alcuni tratti fondamentali. Il simbolo teriomorfo dunque non è un semplice e parziale paragone o un’allegoria, ma un’attribuzione diretta. In una lettera indirizzata a una classe di bambini del Maryland, Lewis confessa di non aver detto a se stesso: «Facciamo una rappresentazione di Gesù quale lui era nel nostro mondo, come un leone in Narnia». Non era questa la sua intenzione. Non vuole realizzare una sovrapposizione per cui questo significa quello (Aslan significa Cristo ecc.). A Lewis questo interessa poco nel momento in cui egli compone i suoi racconti. Invece gli interessa fare da «subcreatore», cioè «realizzare, tanto quanto sia possibile, un proprio mondo subordinato»[30]. Così, scrivendo le Cronache, egli ha detto a se stesso: «Supponiamo che ci sia una terra come Narnia e che il Figlio di Dio, come è diventato uomo in questo mondo, diventi lì un leone, in Narnia. A quel punto immaginiamo cosa può succedere»[31].
E il mito divenne fatto
Lewis si era reso conto di essere stato sempre attratto dai miti. In particolare egli rimaneva commosso da quelli che avevano come protagonisti divinità che si sacrificano come, ad esempio, Balder e Osiride[32]. Con la conversione questa passione assume un altro valore, un altro significato. Alla luce della rivelazione cristiana, egli pensa che Dio abbia preparato l’uomo alla sua incarnazione anche attraverso quelle storie pagane. Lewis comprende infatti — come scrive ad Arthur Greeves, già nel 1931 — che in esse Dio «esprime Se stesso attraverso la mente dei poeti e facendo uso delle immagini che vi ha trovato»[33]. Lewis interpreta il passaggio tra il mito immaginato e quello accaduto in forma di una messa a fuoco e di una condensazione dinamica: «È come guardare un oggetto che viene messo a fuoco pian piano; prima pende dalle nuvole del mito e del rituale, vasto e confuso, poi si condensa, si indurisce e in un certo senso si delimita, fino a concentrarsi nell’evento storico avvenuto in Palestina nel primo secolo»[34]. Il salto però è sostanziale e consiste nel fatto che Dio «esprime Se stesso attraverso quello che chiamiamo “realtà”»[35]. La differenza è «tremenda», scrive Lewis. Il mistero cristiano, infatti, «è davvero accaduto»[36], «in un tempo preciso, in un luogo preciso, accompagnato da conseguenze storiche ricostruibili»[37]. Quel che era «mito», nel cristianesimo invece è divenuto «fatto». Tuttavia ciò non significa che abbia perso «profondità e suggestione di significati» che sono propri del mito. Ben lontano da una riduzione del cristianesimo alla dimensione mitica, Lewis intende invece affermare che il mistero cristiano ha la forte potenza immaginativa propria del mito, ma ad essa aggiunge la «tremenda differenza» che è la storicità. E così, dunque, la storicità non annulla la potenza di visione propria del mito, ma al contrario le dà la forza essenziale della verità.
Seguendo questa logica, Lewis deduce una conseguenza diretta di importanza capitale. Egli, infatti, giunge ad affermare che gli uomini che non credono «alla narrazione cristiana come fatto ma che comunque continuano a nutrirsi di essa come mito» possono essere «più spiritualmente vivi»[38] di coloro che assentono, ma senza coinvolgersi. Ecco allora una prima conseguenza: entrare pienamente nella dinamica del mondo di Narnia, anche senza avere le idee chiare sulla loro ispirazione evangelica, significa in ogni caso acquisire vivacità spirituale. Perché? Perché la potenza immaginativa evangelica sprigionata può coinvolgere intimamente il lettore, facendogli vivere una esperienza di significato cristiano.
Questo è il punto, in definitiva: senza la potenza dell’immaginazione e della vera fantasia la fede rischia di divenire rachitica, flebile. Si tratta di una posizione forte. Qualcuno potrebbe considerarla eccessiva, ma certo risponde all’intima convinzione di Lewis. Anche la scrittrice cattolica statunitense Flannery O’Connor aveva del resto affermato che «un impoverimento dell’immaginazione significa anche un impoverimento della vita religiosa»[39]. Forse è proprio questo il contributo specifico che gli scrittori cristiani offrono all’uomo di fede: ricordargli che la conversione, per essere profonda, deve toccare non solo i gesti e i pensieri, ma anche l’immaginazione. In questo senso sono da rileggere le pagine che il cardinal John Henry Newman ha scritto sull’«assenso immaginativo»[40].
Lewis ha fatto personalmente una forte esperienza di questa ricchezza immaginativa. In particolare ricorda la sua lettura di Phantastes, romanzo di George MacDonald[41], la quale costituisce una tappa della sua conversione al cristianesimo, che lo vide tornare nella Chiesa d’Inghilterra dopo anni di acceso ateismo[42]. Ricordando quei momenti, egli visualizza un’immagine: un’«ombra luminosa (bright shadow)» che passa dal libro al mondo reale, «trasformando ogni cosa». O, più esattamente: «Vedevo le cose comuni trascinate nell’ombra luminosa». Cosa sarà mai quest’ombra luminosa? È difficile da spiegare. Quel che sappiamo però è che essa ha prodotto un effetto sconvolgente: «Quella sera la mia immaginazione ricevette, in un certo senso, il battesimo»[43]. Evidentemente Lewis è rimasto talmente «preso» dalle pagine di Phantastes da vedere le cose e la sua stessa vita in modo nuovo. Anzi, comprende che da quel momento è cambiata la luce che gli permette di vedere. La potenza del racconto fantastico di MacDonald aveva profondamente mutato la sua immaginazione, o meglio: l’aveva «battezzata». Il grande scrittore cattolico inglese G. K. Chesterton nella sua Autobiografia, parlando di Yeats, aveva scritto che «le fate difendono la ragione»[44]. In maniera simile, Lewis fa comprendere che la potenza rappresentativa dell’immaginazione difende la fede. Ciò che scrive Lewis ha, del resto, solide radici nelle tradizione spirituale cristiana[45].
La potenza visionaria che si sprigiona dalla vicenda di Aslan e dei quattro ragazzini impegnati in una lotta epica di salvezza può custodire una fede viva. Si comprende bene, dunque, come il rapporto tra fantasia, intesa in maniera corretta, e fede non sia per nulla esteriore. Il cristianesimo reclama non solamente «il nostro amore e la nostra obbedienza, ma anche il nostro stupore e il nostro diletto»[46]. Fa appello dunque anche a un «battesimo dell’immaginazione». A chi è rivolto questo appello? «Al selvaggio, al bambino e al poeta che vi è in ognuno di noi non meno che al moralista, allo studioso e al filosofo»[47]. Lucy ci fa compagnia e ci prende per mano, mentre con l’altra spalanca la porta dell’armadio.
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[1] Invitiamo il lettore a riprendere F. Castelli, «Il ritorno di C. S. Lewis», in Civ. Catt. II 2004 334-347. Chi fosse interessato a un approfondimento sullo scrittore, sulla sua opera e, in particolare, sulle Cronache, può leggere Il mondo di Narnia (Cinisello Balsamo [MI], San Paolo, 2005) di Andrea Monda e Paolo Gulisano, due esperti che uniscono le forze per darci una guida introduttiva godibile e profonda. Una biografia letteraria di grande valore e utilità è P. Gulisano, C. S. Lewis. Tra fantasy e vangelo, Milano, Àncora, 2005. A chi volesse accostarsi a Lewis tramite una piccola ma preziosa antologia dei suoi scritti saggitistici e autobiografici consigliamo: A. MONDA, Clive Staples Lewis. Invito alla lettura di, Cinisello Balsamo (MI), San Paolo, 2001.
[2] A Diario di un dolore si è ispirato il regista Richard Attenborough per il film Viaggio in Inghilterra (Shadowlands, 1993).
[3] Per il 2007 è atteso il secondo episodio del ciclo, che è ispirato a Il principe Caspian, quarto libro delle Cronache. Qui citeremo la seguente edizione dell’opera: C. S. LEWIS, Le Cronache di Narnia, 3 voll., Milano, Mondadori, 2005. Il secondo libro delle Cronache dal titolo Il leone, la strega e l’armadio è compreso nel I volume alle pp. 151-288. Citeremo di seguito questo volume con la sigla CN.
[4] CN, 208.
[5] Ivi, 269
[6] Ivi, 268 s.
[7] Per questo cfr A. Monda – P. Gulisano, Il mondo…, cit., 64-172.
[8] Cfr C. Dietchfield, Una guida per la famiglia alle Cronache di Narnia. La verità della Bibbia nelle Cronache di Narnia di Clive Staples Lewis, Caltanissetta, Alpha & Omega, 2005. Il libro, di marca schiettamente evangelistica, è una lettura che si sforza di trovare corrispondenze bibliche puntuali per ogni passaggio dell’opera lewisiana. Talora è molto suggestiva, talora invece appare ridondante.
[9] CN, 158.
[10] Ivi, 158 s.
[11] Lo abbiamo già scritto ampiamente in A. Spadaro, «La fantasia: evasione o visione?», in Civ. Catt. 2005 II 28-39 e qui lo ribadiamo con forza.
[12] CN, 158 s.
[13] Aristotele, De anima, 429a 3.
[14] Lo scrittore «scrive di quel che vede in superficie, ma la sua angolazione visiva è tale che comincia a vedere prima di arrivare alla superficie e continua a vedere dopo averla oltrepassata. Comincia a vedere nelle profondità di sé» (F. O’CONNOR, Nel territorio del diavolo. Sul mestiere di scrivere, Roma – Napoli, Theoria, 1993, 91).
[15] K. Rahner, «Sacerdote e poeta», in ID., La Fede in mezzo al mondo, Alba (CN), Ed. Paoline, 1963, 158.
[16] Agostino, s., De vera religione, 39 [PL 34, 154].
[17] C. S. Lewis, Lettori e letture. Un esperimento di critica, Milano, Vita e Pensiero, 1997, 162.
[18] Ivi. La letteratura intesa come logos «esprime un’emozione, esorta, implora, descrive, rimprovera o suscita il riso». Essa, invece, è intesa come poiema «per la bellezza del suono, per l’equilibrio, il contrasto e la molteplicità unificata delle sue parti» (ivi, 157).
[19] Sul senso di tale «ampliamento» cfr anche F. O’Connor, Nel territorio…, cit., 45.
[20] CN, 170 s.
[21] L’espressione è del poeta inglese Samuel Taylor Coleridge (1772-1834), che nella sua Biographia literaria ha riassunto in una frase perfetta ciò che stiamo affermando: «La fede poetica (poetic faith) consiste in un momento di volontaria sospensione dell’incredulità (willing suspension of disbelief)» (S. T. Coleridge, Biographia literaria. Ovvero schizzi biografici della mia vita e opinioni letterarie, Roma, Editori Riuniti, 1991, 236).
[22] C. S. Lewis, Lettori e letture…, cit., 164.
[23] Ivi, 164 s.
[24] Ivi, 165.
[25] Ivi, 163.
[26] CN, 241 e 243.
[27] Lewis è ancora più sottile nella sua rappresentazione, attribuendo ai quattro ragazzi protagonisti una sensibilità spirituale nei confronti di Aslan, ancor prima che essi lo conoscano direttamente. Al solo sentire il nome di Aslan essi infatti «ebbero un tuffo al cuore. Edmund fu invaso da una misteriosa sensazione di orrore, Peter si sentì improvvisamente coraggioso e pieno di spirito d’avventura, Susan ebbe l’impressione di essere avvolta da un’onda di profumo o forse da una musica deliziosa. Lucy, da parte sua, si sentì come chi si risveglia per accorgersi che è cominciata l’estate ed è tempo di vacanza» (CN, 200 s). È interessante leggere queste reazioni emotive alla luce delle «Regole per il discernimento degli spiriti» di Ignazio di Loyola.
[28] Lucy accanto ad Aslan risorto ci fa pensare a Maria di Magdala.
[29] Citato in C. Dietchfield, Una guida per la famiglia…, cit., 269. La lettera è raccolta in C. S. LEWIS, Letter to Children, New York, Simon & Schuster, 1985.
[30] Id., «Tre modi di scrivere per bambini», in ID., Come un fulmine a ciel sereno. Saggi letterari e recensioni, Genova, Marietti 1820, 2005, 153. Tolkien, come Lewis, deve molto su questi temi a George MacDonald, scrittore scozzese e pastore congregazionalista (che tuttavia visse la teologia calvinista con non poco disagio). Egli scrisse: «Una differenza tra l’opera di Dio e quella dell’uomo è che, mentre l’opera di Dio non può significare più di quanto Lui voleva significasse, quella dell’uomo deve significare più di quello che lui voleva» (G. MacDonald, «L’immaginazione fantastica», in Id., La favola del giorno e della notte, Milano, Mondadori, 2000, 10). Per una panoramica ampia sugli scrittori fantasy cfr A. Monda – S. Simonelli, Gli anelli della fantasia, Milano, Frassinelli, 2004.
[31] C. S. Lewis, Letter to Children, cit., 44.
[32] Balder, dio della religione degli antichi germani, è figlio di Odino, il sovrano degli dèi, e di Frigg. Il suo culto è attestato in alcune zone della Norvegia, dove, in seguito all’avvento del cristianesimo, il dio ha assunto alcuni tratti propri del Cristo. Osiride, figlio di Nut e Geb, è il dio-re dell’Egitto, lo sposo-fratello di Iside e il padre di Horus. Dopo la morte regna sull’aldilà, dove, oltre che sovrano, è inteso come giudice supremo.
[33] C. S. Lewis, Prima che faccia notte. Racconti e scritti inediti, Milano, Rizzoli, 2005, 89.
[34] Id., «La Teologia è Poesia?», in ID., Le lettere di Berlicche e Il Brindisi di Berlicche, Milano, Jaca Book, 2001, 170.
[35] ID., Prima che faccia notte…, cit. 89.
[36] Ivi.
[37] Id., «Il mito divenne fatto», in il Domenicale, 24 dicembre 2005.
[38] Ivi.
[39] F. O’Connor, «Il romanziere cattolico nel Sud protestante» raccolto in Nel territorio…, cit., 103.
[40] Cfr J. H. Newman, Grammatica dell’assenso [1870], Milano, Jaca Book, 2005. Cfr anche M. P. Gallagher, «Newman: sulla disposizione per la fede», in Civ. Catt. 2001 I 452-463; Id., «Il pensiero di Newman (1801-1890) su immaginazione e fede», in Rassegna di Teologia 42 (2001) 645-658.
[41] L’ultima edizione italiana dell’opera [1858] è G. MacDonald, Le fate dell’ombra, Milano, Bompiani, 2002. L’opera narra la storia di Anodos, un giovane aristocratico che si perde nel Paese Fatato, una selva dove tutti gli alberi, secondo un’antica profezia, diventano uomini. Il suo smarrimento (dagli echi danteschi) dura per 21 giorni, un giorno per ognuno dei suoi anni. Il viaggio è un itinerario morale e spirituale.
[42] Scriveva lapidariamente Lewis il 12 ottobre 1916 ad Arthur Greeves: «Mi chiedi le mie opinioni religiose: sai, immagino, che io non credo in nessuna religione» (C. S. Lewis, Prima che faccia notte…, cit., 85). Leggiamo la storia della sua conversione in Sorpreso dalla gioia. I primi anni della mia vita, Milano, Jaca Book, 20023.
[43] Ivi, 133.
[44] G. K. Chesterton, Autobiografia, Casale Monferrato (AL), Piemme, 1997, 146.
[45] Pensiamo, ad esempio, all’uso dell’immaginazione negli Esercizi Spirituali di sant’Ignazio di Loyola, allo scopo di cogliere l’intenzione profonda del testo biblico che si sta leggendo e la ripresentazione del mistero di fede che si sta contemplando. Cfr A. Spadaro, «Gli “occhi dell’immaginazione” negli Esercizi di Ignazio di Loyola», in Rassegna di Teologia 35 (1994) 687-712, e anche Id., «La lettura come immersione interattiva. Tra “Esercizi Spirituali” e “Realtà Virtuale”», in Civ. Catt. 2004 II 37-49.
[46] C. S. Lewis, «Il mito divenne fatto», cit.
[47] Ivi.