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John Henry Newman frequentemente dichiarava di non essere un teologo professionista. Di fatto, la maggior parte delle sue intuizioni in materia di fede ha avuto origine nei suoi primi anni di vita. La sua biografia coincide con un periodo in cui la Gran Bretagna viveva molti mutamenti sociali associati alla modernità: urbanizzazione, industrializzazione, predominio della verifica scientifica, potere dell’impero, aumento di importanza del commercio, secolarizzazione della società, marginalizzazione delle Chiese nella vita sociale e intellettuale.
Dopo essere sopravvissuto a una seria malattia in Sicilia nel maggio 1833, Newman si convinse di avere una vocazione speciale per contrastare la crisi di fede che lo circondava nel suo Paese. In una poesia intitolata The age to come (L’età che deve venire), scritta a Palermo nel giugno del 1833, evoca un conflitto di voci interiori. Da una parte sta il suo desiderio fondamentale di trovare argomenti per the truths that in me burn (le verità che bruciano in me). Ma le voci della cultura gli confermano che quei sogni sono condannati alla frammentazione e quei fires are spent (fuochi sono spenti). Egli trova forza nel pensiero che non è la prima volta nella storia in cui la verità si ritrova without a home (senza casa). La poesia termina immaginando un altro periodo futuro che will think with me (penserà con me), quando la verità risorgerà dalla tomba (1).
Approcci alla fede
Qui esamineremo alcuni aspetti della sua lunga lotta per dare una casa alla verità e per la difesa della credibilità della fede cristiana in un contesto che stava diventando sempre più scettico. In particolare, mostreremo la sua preoccupazione circa determinate predisposizioni umane che preparano o bloccano la possibilità di sviluppo di una fede personale. Per la maggior parte limiteremo il nostro interesse ai decenni precedenti la pubblicazione di A Grammar of Assent (1870). Nel suo primo sermone universitario, tenuto a Oxford nel 1826, quando aveva soltanto 25 anni, Newman espresse quella che doveva diventare la sua enfatizzazione tipica dell’atteggiamento previo del credente potenziale: «La serietà nella ricerca della verità è una condizione indispensabile per raggiungerla» (2). A cagione del suo temperamento e della sua formazione, Newman fu attratto verso l’esplorazione delle qualità più introspettive e spirituali necessarie per quella serietà. Come scrisse in uno dei suoi taccuini nel 1869, mentre stava riflettendo con fatica sul modo di strutturare A Grammar of Assent: I am not to draw out a proof of the being of God, but the mode in which practically an individual believes in it (Io non intendo tracciare una prova dell’esistenza di Dio, ma il modo in cui praticamente un individuo crede in lui) (3). Questo rende perfettamente il suo empirismo pastorale e religioso e la sua sfiducia negli argomenti «esternalisti» che riguardano l’esistenza di Dio.
In un sermone universitario del 1831 si oppose all’usurpazione della ragione o a quella che chiama nell’Apologia «l’immensa energia dell’intelletto aggressivo, capriccioso e infido» (4). La sua posizione, benché risalente a questo periodo giovanile, con qualche variazione era destinata a durare per tutta la vita: la ragione non è fertile in materia di fede se non è «ben diretta», il che richiede che le persone ascoltino la propria coscienza e abbiano un qualche senso del mistero e della riverenza. È interessante notare che Newman si esprime anche sull’impatto negativo della cultura circostante sull’«immaginazione» delle persone, ma sconsiglia di lamentarsi soltanto della situazione. È «senza significato» lamentarsi delle «circostanze», poiché we are ourselves necessary parts of the existing system (siamo noi stessi parti necessarie del sistema esistente). In un linguaggio più moderno, nessuno può porsi al di fuori della propria cultura. Trattare la cultura da capro espiatorio può essere un rifuggire le responsabilità. Offrire una chiave critica del suo impatto è essenziale per liberare la disposizione in favore della fede, che può essere facilmente danneggiata a causa delle pressioni culturali.
Nel corso del suo cammino egli ha potuto discernere diverse forme di sfida alla fede. Queste andavano da ciò che chiamava religion of the day (religione del giorno) — che comprendono la riduzione del cristianesimo a un conforto per il proprio io — a un pericolo intellettuale più insidioso, che chiamava «liberalismo» e che significava una misurazione della rivelazione mediante criteri umani. Appena quindicenne, quando visse la sua prima importante conversione alla realtà di Dio, egli giunse a un «Credo ben definito» (5). Il liberalismo, dal suo punto di vista, era l’opposto di questo, perché la sua tendenza antidogmatica riduce la verità religiosa a un’opinione privata o a un sentimento personale. È importante notare che dedicò la maggior parte del suo discorso, durante la sua nomina cardinalizia, a un riassunto della sua battaglia durata tutta la vita contro questo liberalismo: se one creed is as good as another (un credo è valido quanto lo è un altro), allora recognition of any religion, as «true», becomes impossible (il riconoscimento di qualsiasi religione come vera è impossibile) (6).
Orizzonti obiettivi e soggettivi
La costante insistenza sulla verità oggettiva della rivelazione si associa, dal punto di vista di Newman, alla sensibilità per le condizioni soggettive che rendono la fede possibile o impossibile nella realtà della vita di ognuno. Egli non si limita mai alla percezione della verità oggettiva della rivelazione, ma in ogni stadio della sua ricerca nutre sospetti verso qualsiasi discorso oggettivista nei riguardi di Dio. Newman non era un fideista. Al contrario un’importante osservazione del suo capolavoro A Grammar of Assent serve a giustificare la capacità delle persone ordinarie di giungere alla certezza in materia di fede. Il suo lungo impegno nel ponderare la credibilità della fede può essere interpretato come un tentativo di cambiare il modus operandi predominante e di rendere giustizia ai processi vitali della mente e del cuore mentre pervengono al dono della rivelazione. In un punto di A Grammar of Assent, Newman cita un suo interessante saggio, scritto quasi 30 anni prima, in cui argomenta che, se la ragione guadagna il monopolio sulla verità, le caratteristiche della vita reale corrono il pericolo di essere dimenticate: «Di solito il cuore non è raggiunto attraverso la ragione ma attraverso l’immaginazione. […] Subiamo l’influenza delle persone: delle voci, delle fisionomie, delle ragioni umane […]. In fondo, l’uomo non è un animale raziocinante: è un animale che vede, sente, contempla e agisce […]. La vita è fatta per l’azione. Se ci impuntiamo a volere la prova di tutto non agiremo mai. Per agire bisogna partire da un assunto, che è appunto la fede» (7). Il teologo John Macquarrie, in proposito, ha affermato che Newman, come Kierkegaard, si è sempre opposto a una forma impoverita della ragione, separata dalla vita personale e che ambedue i pensatori si volgono alla sfera etica per ampliare le basi della fede (8).
Questo approccio maggiormente pastorale e psicologico sembra avere origine nei suoi primi anni vissuti come credente impegnato. Appena ventenne, ebbe una serie di dolorosi litigi con suo fratello minore Charles, che era divenuto ateo. Conosciamo il tenore di questi scambi grazie a una serie di otto lettere del futuro cardinale a suo fratello tra il 1823 e il 1825. Quello che emerge fortemente in quei testi è l’importanza data alla disposizione che viene vista come cruciale per qualsiasi transizione dalla non credenza alla fede. Disse a suo fratello in modo brusco: You are not in a state of mind to listen to argument of any kind (Non sei in uno stato mentale atto ad ascoltare un’argomentazione di qualsiasi tipo). Poiché l’internal evidence depends a great deal on moral feeling (la prova interna dipende molto dal sentimento morale), il rifiuto della fede proviene from a fault of the heart, not of the intellect (da un difetto del cuore non dell’intelletto). In quest’ottica egli vide suo fratello come una persona che soffriva di un pregiudizio contro i contenuti della fede e quindi la ricerca intellettuale era inficiata da una decisione previa e inconscia. We survey moral and religious subjects through the glass of previous habits (Noi esaminiamo gli argomenti morali e religiosi attraverso la lente delle abitudini precedenti). Questo primo e vano tentativo di persuadere un non credente della verità della fede cristiana sembra avere confermato Newman nel suo sospetto circa le prove esterne concernenti Dio e la religione. In modo più positivo, gli ha dato fiducia nella sua tendenza naturale a esplorare le disposizioni spirituali degli individui o perfino di un’intera cultura (9). Tuttavia ciò che è rimasto dominante nel pensiero di Newman è il suo disagio di fronte all’irriverenza nei confronti della religione. In questo senso un sermone parrocchiale del 1829 — intitolato «La fede religiosa razionale» — diagnostica un blocco della fede a motivo dell’orgoglio misconosciuto e del non volersi affidare. Parlando del tipo più beffardo di non credenti, dice che «non vogliono dipendere da nessuno». Invece se un soggetto che non ha fede nei confronti dei contenuti della Bibbia obbedisce «alla legge che gli è dettata dal di dentro», la fede «col tempo» (10) diventerà possibile.
I sermoni all’Università di Oxford
A questo proposito vale la pena di ricordare che molte delle intuizioni più significative di Newman concernenti la fede provengono dagli anni che trascorse come predicatore all’Università di Oxford. Le raccolte di sermoni che tenne tra il 1839 e il 1841 erano lezioni assai elaborate ed eloquenti sulla fede e la ragione. Per molti versi comunicano la sua visione più vigorosamente di quanto non facciano le pagine spesso complicate di A Grammar of Assent, che di fatto era la sua unica opera importante che non è scaturita da qualche particolare occasione di comunicazione o di controversia. I cinque sermoni principali che trattano le questioni della credibilità della fede sono densi di intuizioni espresse in maniera immaginativa. Qui Newman dà il meglio nel suo tipico stile esplorativo. Confuta in vari modi la visione inadeguata della ragione predominante nella cultura scientifica e utilitaristica dei suoi giorni. Uno dei suoi pregi maggiori era di saper trovare un’analogia significativa per esprimere il suo punto di vista, come in questo esempio tratto dalla prassi giuridica: «Un giudice non rende gli uomini onesti, ma li assolve e li giustifica: analogamente la ragione non è necessariamente l’origine della fede quale essa esiste nel credente, per quanto la controlli e la verifichi» (11).
Frequentemente, nei sermoni universitari si dedica a riflettere sul contesto interno umano che genera la fede, in altre parole sull’atteggiamento o sulle opinioni richieste per rendere la fede umanamente o spiritualmente possibile. La fede, arguisce, «è influenzata da precomprensioni, predisposizioni, pregiudizi (nel senso migliore del termine)». Così pone gli atteggiamenti fondamentali di una persona al centro della questione: l’evidenza esterna è meno importante per lui rispetto a «un insieme di princìpi, convinzioni e desideri già presenti nell’anima». La prova, nel senso di dimostrazione dell’esistenza di Dio, diviene necessaria quando «non ci bastano più le probabilità antecedenti» (12). In altre parole, quando lo stato soggettivo del cuore manca di onesta armonia, allora possiamo avere necessità di fare affidamento su alcuni supporti esterni e intellettuali per rendere credibile la fede.
Anni dopo, mentre era a Dublino come rettore dell’Università Cattolica che egli stesso aveva fondato, Newman pronunciò un sermone intitolato Disposition for faith (Disposizione per la fede) (1856). Egli rivisitò molte sue antiche tematiche e le espresse con nuova chiarezza: With good dispositions faith is easy; and without good dispositions, faith is not easy (Con buone disposizioni la fede è facile; senza buone disposizioni la fede non è facile). Continuò a identificare la giusta disposizione per la fede con una sensitivity and delicacy of conscience (sensibilità e delicatezza di coscienza), ponendo assieme due dei suoi maggiori campi di riflessione.
Terminò il sermone riaffermando il suo dubbio riguardo l’utilità delle argomentazioni per credere: I question much, whether in matter of fact they make or keep men Christians (Mi domando molto se di fatto rendono o conservano cristiani gli uomini). Invece propose che i migliori argomenti risiedono dentro di noi e assumono la forma di careful attention (attenzione premurosa) per il cuore e la coscienza (13).
Un processo vivente di crescita
È vero che Newman ha riservato un luogo privilegiato alla coscienza, nella sua difesa dell’esistenza di Dio. È anche vero che ha combattuto contro ogni annacquamento della realtà trascendente di Dio e dell’importanza della dottrina: per lui la rivelazione e il dogma «sono correlativi» (14). Tuttavia sottolineare soltanto quelle dimensioni della sua teologia della fede fa correre il rischio di dimenticare quello che è maggiormente caratteristico e unico nel suo pensiero, cioè la sua sensibilità spirituale e psicologica nei confronti dei processi per giungere a una credenza religiosa (15). Era affascinato dallo sviluppo e dal movimento, come leggiamo nelle parole iniziali di uno dei capitoli del suo primo romanzo: «La crescita della mente non la si può fermare» (16). Di fatto Newman era maestro nel discernere e descrivere le operazioni della mente, poiché essa «vaga qua e là» con la sua logica istintiva. La ragione nella sua migliore espressione è «un’energia vivente e spontanea dentro di noi». Per questo percorso mentale alla ricerca della verità, Newman offre una delle sue analogie immaginative: «Così avanza in modo non diverso da quello di uno scalatore su una ripida parete, che, con lo sguardo attento, la mano pronta e il piede fermo, sale senza sapere egli stesso come, grazie alle sue doti personali e alla pratica piuttosto che a regole precise, senza lasciare tracce dietro di sé, e senza potere insegnare ad altri» (17). Si tratta di un’eloquente similitudine per quello che era prezioso per Newman stesso: l’avventura profondamente personale dello scoprire, comprendente sia l’intelletto sia l’immaginazione, che stava dietro qualsiasi facile comunicazione e certamente dietro argomenti ristretti o esterni pro o contro Dio.
Era per natura un personalista e un pensatore fenomenologico, prima che queste parole assumessero l’importanza che rivestono attualmente. È importante riconoscere la tensione tra la testa e il cuore nel pensiero di Newman, non come un’opposizione tra quanto egli chiamava «nozionale» e «reale» ma come convergenza necessaria (18). Il genio di Newman renderà giustizia alla natura esplorativa della fede vissuta in modo da arrivare alla giustificazione delle credenze religiose obiettive. La sua versione dell’apologetica è basata su un’intuizione secondo cui è fondamentale partire dall’esperienza ordinaria del credente. Ciò che è implicito nel pensare, nel decidere e nel vivere di una persona assume rilievo molto più di quanto è esplicitamente arguito dagli intellettuali e dai teologi professionisti.
«Crediamo perché amiamo»
Nel suo sermone di Oxford del 1839 su «L’amore salvaguardia della fede nei confronti della superstizione», offre uno dei resoconti più significativi delle predisposizioni necessarie per la fede. Già nella prima frase afferma che la fede «ha la caratteristica di basarsi assai più su motivazioni antecedenti che su prove in senso stretto; essa confida molto nelle presunzioni». Quel termine «presunzione» ricorre 21 volte in questo sermone, e nell’accezione di Newman è praticamente sinonimo della disposizione o ciò che definisce princìpi abituali.
Egli punta alla qualità psicologica e morale di una persona, che influenza l’interpretazione delle realtà ultime. In questo sermone Newman sottolinea in diversi modi l’aspetto prerazionale della decisione riguardante la fede: è «principalmente un’anticipazione», radicata nelle probabilità antecedenti. La fede dei credenti ordinari è generata con «uno spontaneo movimento del cuore», e quindi essi raggiungono una fede «più intima e viva di quella che le prove potrebbero creare». In altre parole, la maggior parte delle persone credono «non per avere esaminato le prove, ma perché hanno una certa disposizione d’animo» (19).
Più avanti nello stesso discorso Newman giunge ad alcune delle sue più famose affermazioni concernenti la fede; essa nasce da «una retta disposizione di cuore», e dopo tutto «crediamo perché amiamo» (20). Non nega gli aspetti cognitivi della fede, ma insiste sul fatto che si tratta di un atto intellettuale eseguito in una determinata disposizione morale. Verso la fine del sermone Newman ricorda ai suoi uditori l’incontro di san Paolo nell’Areopago e commenta che l’Apostolo cercava di parlare a tutte le sensibilità degli ascoltatori e di evocare il dinamismo della loro ricerca. Il suo appello era a «quell’insieme di opinioni, affetti e desideri che costituiva la personalità morale di ciascuno, orientandola stabilmente in una certa direzione». La fede reale è «un avanzare nella penombra, ma non alla cieca e senza punti di riferimento; il passare da una verità nota a qualcosa di ignoto» (21). Quest’ultimo elemento di graduale sviluppo, espresso in uno stile metaforico, è, come abbiamo visto, una caratteristica di Newman. Mentre resta un fermo difensore della fede come credo e dottrina, il suo raro pregio era di rendere giustizia anche agli aspetti meno razionali e più esistenziali del cammino verso la fede (22).
Due opere narrative
Tra i testi meno noti di Newman si annoverano i suoi due romanzi, scritti entrambi nel decennio immediatamente seguente la sua conversione al cattolicesimo. Nessuno dei due libri può essere considerato un capolavoro di letteratura creativa. Nonostante i momenti di satira e di retorica occasionalmente brillante, la narrativa tende a indugiare troppo sulle conversazioni discorsive. Ciò nonostante essi sono affascinanti, in quanto rivelatori, in un altro genere letterario, di alcune colonne del pensiero di Newman. Loss and Gain (Perdita e guadagno, 1848) esplora la strada della conversione al cattolicesimo di uno studente di Oxford ed echeggia chiaramente la biografia di Newman. Callista: a tale of the third century (Callista: un racconto del terzo secolo, 1855) è ambientato nel Nord Africa al tempo di san Cipriano e offre un altro dramma di conversione, dal paganesimo al cristianesimo e al martirio.
Varie tematiche esaminate in questo articolo trovano differente espressione nel primo romanzo di Newman, Loss and Gain: «La fede deve avere un fondamento; non si crede senza una ragione» (23). Ciò nonostante, i percorsi intellettuali verso la verità non possono dispensare dalle dimensioni spirituali e personali della vita, perché «forse la fede era il risultato di un stato mentale precedente» (24). Nel corso del romanzo si trattano due pericoli come tipici del XIX secolo. Nella cultura secolare «si è coltivata soprattutto la ragione» (25) nella sua forma ristretta di argomenti esterni, e questa mentalità è penetrata nella teologia. Secondariamente, nella Chiesa i predicatori spesso mancano di tutti i «princìpi religiosi chiari e immutabili» e danno l’impressione circa le credenze che «non è che una sia più vera di un’altra» (26). In tale contesto culturale «le prove per la convinzione morale […] sono più che sufficienti» e «una luce più chiara» seguirà piuttosto che precedere la conversione alla Chiesa (27). La fede alla fine troverà una conferma personale «attraverso il senso abituale della Presenza divina» (28). E questo verrà confermato dalla scoperta della reale presenza di Cristo nei sacramenti della Chiesa.
In Callista sono esplorati argomenti simili. In questa storia di un’istruita ragazza greca che trova la sua via al cristianesimo, Newman sottolinea ancora il ruolo della disposizione fondamentale, di «certe percezioni e certi istinti delicatissimi, che agiscono come i primi princìpi» (29). Soltanto in una fase successiva del libro Callista viene a contatto con il Vangelo di Luca: «Era l’essere cui tendeva la sua mente, anche se non era in grado di immaginarlo. Era colui che aveva parlato alla sua coscienza, la voce che aveva ascoltato, la persona che aveva cercato» (30). Questa è una perfetta affermazione del punto di vista di Newman di come la religione naturale nella sua migliore espressione, viaggiando attraverso le strade della ragione, coscienza, immaginazione con un’aperta disposizione, può preparare le persone a riconoscere la sorpresa del Vangelo. La religione rivelata non solo soddisfa tutte le loro aspirazioni, ma le introduce alla presenza di Uno che è differente da tutti i precedenti ideali.
La storia di Callista si evolve attraverso una serie di gradi di preparazione alla rivelazione. Aveva il coraggio di ammettere sia la sua inquieta infelicità sia il suo senso di colpa e di impotenza morale. Aveva la benedizione di incontrare tre credenti con cui aveva una «straordinaria unità di sentimenti e di convinzioni» nonostante la loro diversità; tutti loro le consentono di vedere la religione con occhi rinnovati come «una presenza divina nel profondo del cuore» (31). Quindi ella giunge al riconoscimento di quella presenza in se stessa anche prima di incontrare il Vangelo o di ricevere il battesimo. Soltanto allora ella scambia le immagini per realtà e una bellezza superiore al mondo naturale. La pagina finale del romanzo ritorna al tema della «ragione» per la fede, tranne il fatto che ora la parola ha trovato un altro orizzonte. Quando ai convertiti si chiedeva «il motivo della loro decisione, rispondevano che era stata la storia e la morte di Callista a trascinarli sulle sue orme» (32). La disposizione del desiderio, provocato dalla testimonianza personale della martire, rappresenta la versione più elevata di Newman del percorso umano verso la fede.
Dalle immagini alla presenza
È affascinante notare che ogni romanzo culmina in uno sperimentare la presenza divina. Alla luce dell’espressione che Newman sceglie per la sua lapide tombale — Ex umbris et imaginibus in veritatem (Dalle ombre e dalle immagini alla verità) — possiamo affermare che la pienezza della presenza è stata preparata dalla fedeltà sul livello della disposizione immaginativa. Di fatto l’accento costante di Newman sugli atteggiamenti «antecedenti» costituisce un elemento chiave nel suo senso del viaggio verso la fede. Se una persona non è in qualche modo in contatto con la profondità del proprio desiderio e della propria coscienza, allora sarà meno capace di riconoscere la chiamata esterna di Dio in Cristo.
Per concludere, ci sia consentito riportare un brano dell’enciclica Fides et Ratio che sembra vicina a queste intuizioni centrali del cardinale Newman e riecheggia anche alcune delle sue espressioni. Essa parla di credenza «che deve perfezionarsi progressivamente mediante l’evidenza raggiunta personalmente», ma su un altro livello essa «risulta spesso umanamente più ricca della semplice evidenza, perché include un rapporto interpersonale». Questo è assai prossimo alla speranza costante di Newman di approfondire il nostro approccio alla fede, spostando l’obiettivo da una prova esterna a quella veramente personale. Giovanni Paolo II parla della «capacità radicale di affidarsi» e di come questo livello di verità relazionale vada oltre l’empirico o il filosofico, poiché è «la verità stessa della persona: ciò che essa è e ciò che manifesta del proprio intimo». Newman si sarebbe deliziato all’udire quest’ultima frase, poiché essa riassume molto del suo rispetto per l’orizzonte delle disposizioni della fede, ma che è soltanto un percorso verso quella «piena certezza e sicurezza» (33) che va oltre tutte le disposizioni umane.
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(1) Cfr J. H. Newman, Prayers, Verses and Devotions, San Francisco, Ignatius Press, 1989, 566.
(2) ID., Opere: Apologia, Sermoni universitari, L’idea di università, a cura di A. Bosi, Torino, UTET, 1988, 468.
(3) J. D. Holmes (ed.), The Theological Papers of John Henry Newman on Faith and Certainty, Oxford, Clarendon Press, 1976, 139.
(4) J. H. Newman, Opere…, cit., 367.
(5) Ivi, 138.
(6) W. Neville (ed.), My Campaign in Ireland, Aberdeen, King, 1896, 395.
(7) J. H. Newman, Grammatica dell’Assenso, Milano, Jaca Book, 1980, 56-58.
(8) Cfr I. Ker (ed.), Newman and Conversion, Edinburgh, Clark, 1997, 82.
(9) Citazioni tratte da I. Ker – T. Gornall (eds.), The letters and diaries of John Henry Newman, vol. I, Oxford, Clarendon Press, 1978, 212; 214; 219: 226. Si può recepire il seguente brano di A Grammar of Assent come contenente i frutti di quel litigio familiare di quasi 50 anni prima: «C’è chi non riconosce la verità, non per colpa della verità ma della sua cecità. Non posso pretendere di convertire un uomo simile quando chiedo di accettare come presunzione ciò che egli non intende concedermi; e senza presunzioni non possiamo provare nulla di nulla» (J. H. Newman,
Grammatica dell’Assenso, cit., 254).
(10) ID., Sermoni Anglicani, Milano, Jaca Book, 1981, 71 e 74.
(11) ID., «Fede e ragione: due atteggiamenti opposti allo spirito», in ID., Opere…, cit., 601.
(12) Ivi, 605 s. Come «princìpi», «antecedenti» è uno dei termini preferiti di Newman in questo settore; talora egli lo usa per descrivere condizioni soggettive di possibilità e talvolta per descrivere la più obiettiva verosimiglianza della rivelazione.
(13) ID., Sermons preached on various occasions (1857), Westminster, Christian Classics, 1968, 63; 73; 74. Cfr A. Dulles, «Newman on Revelation and Faith», in Theological Studies 51 (1990) 262: «Affrontando il tema fenomenologicamente, Newman affermava che la fede presuppone determinate disposizioni morali».
(14) ID., Lettera al Duca di Norfolk, a cura di V. Gambi, Milano, Paoline, 1999, 324.
(15) «La novità della filosofia religiosa di Newman risiede nella intuizione che l’origine della fede non è solo nella razionalità ma anche nella sensibilità e nelle aspirazioni del cuore» (L. Callegari,
Newman: la fede e le sue ragioni, Milano, Paoline, 2001, 76).
(16) J. H. Newman, Perdita e guadagno: storia di una conversione, Milano, Jaca Book, 1996, 215.
(17) ID., «Ragione implicita e ragione esplicita», in ID., Opere…, 655 s.
(18) La sua posizione, a questo proposito, è stata bene delineata da Terrence Merrigan (attingendo da Erich Przywara): «La fondazione oggettiva fornita dall’argomentazione discorsiva è già presente nell’esperienza vivente come una forza che motiva e sostiene il credente nel proprio impegno religioso soggettivo» (T. Merrigan, Clear Heads and Holy Hearts: the religious and theological ideal of John Henry Newman, Louvain, Peeters, 1991, 204.)
(19) J. H. Newman, Opere…, cit., 631; 632; 633; 638.
(20) Ivi, 640; 641.
(21) Ivi, 650.
(22) Come ha mostrato Ian Ker, Newman ha scelto di sottolineare il ruolo della coscienza come porta di ingresso per la fede principalmente nelle sue discussioni più filosofiche, ma «nelle sue opere più informali» enfatizza piuttosto «quello che potremmo chiamare l’argomento affettivo» (I. Ker, Healing the Wound of Humanity: the spirituality of John Henry Newman, London, Darton, Longman & Todd, 1993, 20).
(23) J. H. Newman, Perdita e guadagno: storia di una conversione, Milano, Jaca Book, 1996, 314.
(24) Ivi, 168.
(25) Ivi, 377. Il testo inglese dice to the utmost («fino all’estremo limite»).
(26) Ivi, 144; 100.
(27) Ivi, 377 s.
(28) Ivi, 239.
(29) ID., Callista: racconto del terzo secolo, Roma, Ed. Paoline, 1983, 62.
(30) Ivi, 183.
(31) Ivi, 164 s.
(32) Ivi, 213.
(33) Giovanni Paolo II s., Lettera enciclica Fides et Ratio, n. 32.
(34) NOTA BIOGRAFICA.
John Henry Newman nasce a Londra il 21 febbraio 1801.
1816: prima conversione evangelica.
1817: studente al Trinity College di Oxford.
1822: viene eletto fellow (socio) all’Oriel College, Oxford.
1825: ordinato prete nella Comunione anglicana.
1828: nominato vicario di St. Mary’s, la chiesa universitaria; inizia la lettura sistematica dei Padri.
1833: malattia grave in Sicilia; tornato in Gran Bretagna diventa il leader del Movimento di Oxford.
1834: pubblica il primo volume dei Sermoni parrocchiali.
1837-38: pubblica le sue conferenze sull’Ufficio profetico della Chiesa e sulla Giustificazione.
1839-41: principali sermoni universitari su Fede e Ragione.
1842: si trasferisce a Littlemore presso Oxford.
1845: 8 ottobre, il beato Domenico Barberi passionista lo riceve nella Chiesa cattolica; pubblica Essay on the Development of Christian Doctrine.
1846-47: Studia a Roma; ordinazione sacerdotale cattolica; fonda l’Oratorio inglese.
1848: primo romanzo Loss and Gain.
1851-57: rettore della nuova Università Cattolica a Dublino: pubblica The Idea of a University.
1864: Apologia pro vita sua, autobiografia in seguito all’attacco di Kingsley.
1870: A Grammar of Assent, sulla giustificazione della fede.
1879: viene creato cardinale da Leone XIII.
1890: 11 agosto, muore nell’Oratorio di Edgbaston – Birmingham.
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