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Molti conoscono la storia di Giuseppe e dei suoi fratelli, pochi, invece, sanno chi è Dina, l’unica figlia di Giacobbe, alla cui drammatica vicenda il libro della Genesi dedica un intero capitolo. I percorsi di Dina e Giuseppe, nati dallo stesso padre, ma da madri differenti, procedono in parallelo e, in entrambi i casi, coinvolgono sia Giacobbe sia gli altri fratelli nel bene e soprattutto nel male. Sono storie intrise di amore squilibrato, di violenza e di ritorsione che, in parte, si assomigliano, ma che tuttavia differiscono per un aspetto che si rivelerà determinante.
Dina: violenza, amore e vendetta
Dina è l’ultima figlia che Giacobbe ha avuto da Lia. Il testo biblico menziona la sua nascita, dopo gli altri suoi fratelli, senza aggiungere dettagli: «E dopo [Lia] partorì una figlia e la chiamò Dina» (Gen 30,21). Il capitolo 34 del libro della Genesi tratta di lei in maniera più ampia nel contesto dei difficili rapporti tra Giacobbe, appena rientrato a Canaan dopo molti anni, e gli abitanti della città di Sichem presso la quale Israele si era accampato, cioè nell’ambito delle tensioni tra nomadi e abitanti di una città. Al centro della vicenda c’è proprio Dina, che esce per vedere le ragazze del paese e viene rapita da Sichem[1], figlio del signore di quella città: «Ma la vide Sichem, figlio di Camor l’Eveo, principe di quel paese, e la prese, si coricò con lei e la violentò. E la sua anima si legò a Dina, figlia di Giacobbe; amò la fanciulla e parlò al cuore della fanciulla. Poi disse a Camor suo padre: “Prendimi in moglie questa giovane/bambina”» (Gen 34,2-4)[2].
È questo il crudo racconto di uno stupro ai danni di una ragazza attraverso una successione ritmata di verbi che mostrano in sequenza l’azione brutale: lo sguardo di Sichem si posa sulla ragazza, la prende, si corica con lei[3] e le fa violenza.
La sorpresa giunge nel versetto seguente, quando Sichem si affeziona e si innamora della giovane che ha appena violentato. Difatti, si lega a lei, la ama e chiede al padre di averla in sposa. Più avanti verrà anche detto che il giovane è attratto da Dina (cfr v. 19).
Eppure, l’accostamento tra violenza e amore urta la sensibilità del lettore di ieri e di oggi. Che tipo di amore può essere quello che nasce da chi ha appena fatto del male alla persona che sostiene di amare? L’espressione «parlare al cuore della fanciulla» non indica tanto un rivolgersi di Sichem alla ragazza con parole dolci, quanto un «provare a convincerla»[4] del suo affetto e delle sue buone intenzioni, dimenticandosi della violenza subita. Quello di Sichem è un amore che la nostra sensibilità non esiterebbe a definire «malato». Anche le parole che il giovane rivolge al padre Camor cosificano la ragazza, che appare come un oggetto da «prendere» nuovamente, come già prima era stata presa e abusata. Pertanto, in questo contesto suona come una beffa l’epiteto hayyaldāh hazzōt («questa bambina»), utilizzato da Sichem per indicare Dina.
Spostandoci tra le tende d’Israele, ci chiediamo: come reagirà Giacobbe davanti a un evento tanto grave? «E Giacobbe sentì che [Sichem] aveva contaminato[5] Dina, sua figlia, ma i suoi figli erano in campagna con il suo bestiame. Giacobbe tacque fino al loro arrivo» (Gen 34,5).
Il silenzio di Giacobbe è emblematico, segno di un’attesa temporeggiatrice, indice di incertezza su come procedere, oppure di indifferenza verso la figlia avuta da Lia? Non traspare alcuna reazione emotiva davanti a un fatto così grave. Forse i fratelli della ragazza reagiranno in altro modo? «E i figli di Giacobbe vennero dalla campagna quando [lo] sentirono gli uomini si addolorarono, e si arrabbiarono molto, perché un’infamia aveva fatto in Israele unendosi alla figlia di Giacobbe, così non si doveva fare» (Gen 34,7).
Questo versetto si presta a una duplice lettura: i figli di Giacobbe sono rientrati dalla campagna perché hanno sentito di ciò che è accaduto alla sorella, sottolineando in questo modo la loro sollecitudine per Dina, oppure, al rientro dalla campagna, essi vengono a sapere del dramma che si è consumato ai danni della loro sorella. In quest’ultimo caso, sarebbe l’effetto «sorpresa» a sconvolgerli. La complessa reazione emotiva dei fratelli fa da contraltare al silenzio assordante di Giacobbe. C’è dolore per la sorella, ma anche rabbia, che sfocerà in una feroce vendetta.
Successivamente viene riportato uno dei pochi casi di discorso indiretto nella Bibbia[6], nel quale confluiscono, da un lato, il pensiero dei figli di Giacobbe e, dall’altro, la valutazione del narratore. Il dolore e la rabbia sono motivati dall’azione sconsiderata e infame del figlio di Camor.
La vendetta dei figli di Giacobbe è un piatto che sarà servito freddo, perché la loro ira appare ben mascherata mentre «con inganno» (Gen 34,13) parlano a Camor e a suo figlio. Essi fingono di accettare la proposta di matrimonio per Dina e l’invito a imparentarsi con loro per divenire un solo popolo, ma in cambio pongono una condizione: la circoncisione di tutti gli abitanti di Sichem. In particolare, Simeone e Levi approfitteranno della debolezza dei Sichemiti, ancora sofferenti per la circoncisione appena praticata, e attaccheranno la città, non solo liberando Dina, che era stata fatta prigioniera, ma anche uccidendo tutti i maschi, saccheggiando Sichem e prendendo come bottino le ricchezze, gli animali e persino le donne e i bambini (cfr vv. 25-29). Alla città, dunque, viene inflitta una punizione durissima attraverso un’operazione di salvataggio, che si trasforma in una vera e propria carneficina.
Alla luce di tutto questo, Giacobbe rompe il suo silenzio per lamentarsi circa le nefaste conseguenze di questa loro azione, che si ripercuoteranno su di lui e sulla sua famiglia a causa della cattiva fama che adesso li accompagnerà: «Allora Giacobbe disse a Simeone e a Levi: “Voi mi avete rovinato, rendendomi odioso agli abitanti della terra, ai Cananei e ai Perizziti. Io ho solo pochi uomini; se essi si raduneranno contro di me, mi colpiranno e sarò distrutto io e la mia casa”. Dissero: “Forse come una prostituta [egli] tratta nostra sorella?”» (Gen 34,30-31).
Mentre Giacobbe è preoccupato per sé e per i propri interessi, senza esprimere un pensiero per la povera Dina o per i suoi figli intemperanti, sono i fratelli di Dina che rispondono al padre con una domanda fulminante. Chi è colui che tratta la loro sorella come prostituta? A chi si riferiscono? Sembra che il rimando più prossimo possa essere a Camor o a Sichem, che hanno voluto «comprare» la ragazza attraverso un’alleanza con Israele. Eppure, sorprendentemente, essi potrebbero far riferimento allo stesso Giacobbe, che «ha venduto» la propria figlia a coloro che l’hanno disonorata senza spendere per lei alcuna parola. In ogni caso, la reazione dei figli nei confronti di Giacobbe è forte, perché non lasciano al padre l’ultima parola, ma osano replicare alle sue lagnanze.
Questa è la prima ribellione dei figli di Giacobbe, che si comportano in modo insolente verso il loro padre. Accadrà ancora? Il racconto ci mostrerà un’altra iniziativa violenta intrapresa da loro, questa volta non verso stranieri, ma verso il loro fratello, nato, però, da una madre differente, Giuseppe.
Giuseppe odiato dai fratelli
Mentre Giacobbe era sembrato indifferente e impotente rispetto alla drammatica violenza di cui era stata vittima la figlia Dina, di tenore diverso appare il suo coinvolgimento per Giuseppe, il figlio avuto dall’amata Rachele: «Israele amava Giuseppe più di tutti i suoi figli, perché era per lui il figlio della vecchiaia, e gli aveva fatto una tunica con maniche lunghe. I suoi fratelli videro che il padre amava lui più di tutti i suoi figli e lo odiavano e non riuscivano a parlargli in pace (shalom)» (Gen 37,3-4).
La predilezione del patriarca per una delle due mogli lo porterà ad amare i figli di Rachele più di quelli di Lia, con drammatiche conseguenze nella relazione tra Giuseppe e gli altri fratelli. Giuseppe è amato dal padre e ha il privilegio di ricevere in dono una tunica preziosa. Così, sin dalle sue prime battute, il racconto di Gen 37 rivela l’incrocio degli affetti che segna la storia di una famiglia, perché l’amore del padre per uno dei figli diventa odio da parte di tutti gli altri, che non possono sopportare il preferito di Giacobbe.
L’amore e l’odio introdurranno il lettore nel cuore del dramma familiare che si svolgerà lungo tutta la storia di Giuseppe. L’amore di Giacobbe è un amore a senso unico, disordinato e possessivo, che trascura gli altri figli, per dedicarsi a uno soltanto, che non cresce come fratello, ma come figlio unico, con sogni di grandezza che spingono gli altri figli di Giacobbe a odiarlo ancora di più (cfr Gen 37,5-8). E a questo odio si aggiungono anche l’invidia e la gelosia (cfr v. 11)[7].
Come Dina, anche Giuseppe a un certo punto esce verso territori inesplorati, perché il padre gli chiede di recarsi presso i suoi fratelli che sono al pascolo, per vedere come stanno (letteralmente: per vedere «la pace [shalom] dei tuoi fratelli e la pace [shalom] del gregge», v. 14). E invece di incontrare i propri fratelli nella pace, Giuseppe s’imbatterà nei propri persecutori: «Si dissero l’un l’altro: “Ecco, il sognatore arriva! Orsù, uccidiamolo e gettiamolo in qualche pozzo! Poi diremo: Una bestia feroce l’ha divorato! Così vedremo che ne sarà dei suoi sogni!”» (Gen 37,19-20).
Il vero animale feroce qui è l’essere umano, sono i fratelli di Giuseppe, che progettano di assassinarlo; ma Ruben propone di gettarlo in un pozzo per salvarlo dalle mani degli altri figli di Giacobbe (cfr vv. 21-22).
«Quando Giuseppe fu arrivato presso i suoi fratelli, essi spogliarono Giuseppe della sua tunica, la tunica dalle lunghe maniche che era su di lui, poi lo presero e lo gettarono nel pozzo: era un pozzo vuoto, senz’acqua. Poi sedettero per prendere cibo» (Gen 37,23-25). Di nuovo i figli di Giacobbe si mostrano violenti, ma questa volta verso la loro stessa carne. L’odio dei fratelli spoglia Giuseppe della tunica, segno dell’amore preferenziale del padre. Lo «prendono», come Sichem aveva afferrato Dina, e lo gettano nudo nel pozzo, senza nemmeno l’acqua per poter sopravvivere. È sconcertante come, dopo aver compiuto una tale violenza, i fratelli si siedano tranquillamente a mangiare.
Il biblista André Wénin si interroga su questa azione che non sembra appropriata al contesto: «Indifferenza senza rimorso? Crudele cinismo? Segno che queste persone che pensano di aver messo fine a un’ingiustizia hanno la coscienza a posto? Patto sigillato da un pasto? Il narratore non dice niente al riguardo. Forse, del resto, ha in mente qualcos’altro con questa prima menzione del pasto. Finché c’è Giuseppe, infatti, i fratelli hanno pane da mangiare. Un giorno, dovranno andare fino a lui per trovare di che fare il pane, e mangeranno da lui (Gen 42-43)»[8].
Giuda propone di venderlo agli Ismaeliti (cfr vv. 26-27), ma quando Ruben si reca alla cisterna, non trova più Giuseppe, che nel frattempo è stato prelevato dai mercanti madianiti[9]: «Poi Ruben ritornò al pozzo, ecco Giuseppe non era più nel pozzo e si stracciò le sue vesti, tornò dai suoi fratelli e disse: “Il ragazzo non c’è più, dove me ne andrò io?”. Presero allora la tunica di Giuseppe, scannarono un capro e intinsero la tunica nel sangue» (Gen 37,29-31).
C’è tanta confusione nell’azione messa in atto dai fratelli. Così la loro incertezza, al di là del dramma, appare quasi ridicola. Essi vogliono fare del male a Giuseppe, ma non sanno cosa fare, né come farlo; la loro furia è cieca. Alla fine, il ragazzo è sottratto ai loro occhi senza che essi ne abbiano guadagnato nulla. Anche Giuseppe, pertanto, viene rapito da stranieri, come lo era stata già la sorella Dina.
La reazione di Giacobbe è proporzionata al suo attaccamento a Giuseppe e stride con il silenzio con il quale precedentemente aveva accolto la notizia dello stupro della sua unica figlia: «Giacobbe si stracciò le vesti, si cinse un abito di stoffa grezza e fece lutto su suo figlio per molti giorni. Tutti i suoi figli e le sue figlie si levarono per consolarlo, ma egli non volle essere consolato, dicendo: “Io voglio scendere da mio figlio in lutto agli inferi”. E suo padre lo pianse» (Gen 37,34-35).
Giuseppe aggredito dalla moglie di Potifar
Un altro elemento che mette in parallelo la vicenda di Dina e quella di Giuseppe riguarda l’abuso sessuale da parte di uno straniero. Seppure schiavo in Egitto, Giuseppe comincia a essere apprezzato per le sue qualità. Così Potifar, suo padrone, lo mette a capo di tutti i suoi averi. In Genesi 39 il narratore sottolinea con insistenza la bellezza di Giuseppe, che non sfugge allo sguardo concupiscente della moglie di Potifar, che insidia e aggredisce sessualmente il giovane figlio di Giacobbe: «Ora Giuseppe era bello di forma e attraente di aspetto. Dopo questi fatti, la moglie del padrone mise gli occhi su Giuseppe e gli disse: “Còricati con me!”» (Gen 39,6-7).
Al reiterato rifiuto di Giuseppe, nonostante la quotidiana insistenza della donna (cfr v. 10), la situazione prende una piega violenta: «Essa lo afferrò per la sua veste, dicendo: “Unisciti con me!”. Ma egli lasciò la sua veste nella sua mano, fuggì e uscì fuori» (Gen 39,12).
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Di nuovo Giuseppe è costretto a lasciare la sua veste. Egli si è difeso dal tentativo di violenza della donna, ma si trova nudo e indifeso, ancora una volta fatto prigioniero, come un tempo lo era stato quando i fratelli lo avevano gettato nel pozzo in attesa di sbarazzarsene.
Giuseppe tra vendetta e perdono
C’è un elemento presente nella storia di Dina che invece non compare nella storia di Giuseppe: la vendetta. Quando, dopo lunghi anni, il figlio prediletto di Giacobbe, ormai divenuto l’uomo più potente d’Egitto, incontra i suoi fratelli, scesi in Egitto a causa della carestia, la sua reazione è per certi versi sorprendente: «Giuseppe vide i suoi fratelli e li riconobbe, ma fece l’estraneo verso di loro, parlò duramente con loro e disse loro: “Di dove siete venuti?”» (Gen 42,7).
Non c’è una rivelazione, come il lettore l’attenderebbe a questo punto della storia, ma Giuseppe si nasconde e mette alla prova i propri fratelli. Le sue intenzioni sono malevole? Forse egli vuol far cuocere i propri fratelli a fuoco lento? La prova a cui essi sono sottoposti, quasi un tormento, si prolunga nei capitoli seguenti. Potrebbe sembrare che Giuseppe goda nel far pagare ai figli di Giacobbe il prezzo del loro tradimento.
Eppure, c’è un elemento ricorrente, nascosto ai fratelli, ma visibile al lettore, che mette in questione tale interpretazione, ed è il pianto di Giuseppe[10]. Dopo aver sentito i suoi fratelli parlare, nella loro lingua, del male che a suo tempo gli avevano fatto, senza sapere di essere da lui compresi, Giuseppe si reca lontano e piange (cfr Gen 42,24). In una seconda occasione, dopo aver visto Beniamino, suo fratello anche per parte di madre, si commuove e piange nel segreto della sua camera (cfr Gen 43,30). Infine, mentre sta maturando il tempo per farsi riconoscere dai suoi fratelli, scoppia in «un grido di pianto» (cfr Gen 45,2) che non può più rimanere nascosto.
Il pianto rivela i sentimenti di Giuseppe, il quale, nel mettere alla prova i fratelli, non cerca vendetta, ma attende che maturino le condizioni affinché egli possa rivelarsi a loro. Giuseppe non intende castigare i figli di Giacobbe, ma, a causa delle proprie ferite, non è ancora pronto ad accogliere i fratelli in quanto tali. Dopo essere stato duramente segnato dalla vita, ha bisogno di scoprire gradualmente, un passo alla volta, se c’è ancora una possibilità per vivere da fratelli.
Il pianto ricorrente lava le ferite, e le parole conclusive del fratello Giuda finalmente tolgono ogni remora affinché la fraternità si affermi. Infatti, Giuda accetta l’amore preferenziale del padre per i figli di Rachele e si offre in sostituzione di Beniamino – al momento ritenuto da loro prigioniero di Giuseppe –, affinché non sia arrecato un nuovo dolore a Giacobbe, che si vedrebbe privato dell’unico figlio che ritiene sopravvissuto tra quelli avuti dall’amata Rachele (cfr Gen 44,18-34).
A questo punto, tra le lacrime, Giuseppe si rivela ai suoi fratelli: «Io sono Giuseppe, vostro fratello, che voi avete venduto in Egitto. Ma ora non vi rattristate e non vi arrabbiate con voi stessi per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita» (Gen 45,4-5).
Una vendetta solo differita?
Il perdono matura nel cuore di Giuseppe nel pianto e nella riscoperta di una fraternità possibile; tuttavia l’incredulità e lo spavento dei suoi fratelli non sono solo passeggeri (cfr Gen 45,3), ma sembrano protrarsi nel tempo. Infatti, quando Giacobbe muore, i suoi figli si mettono in allarme: «I fratelli di Giuseppe videro che il loro padre era morto, e dissero: “Forse Giuseppe ci serba rancore e certamente ci restituirà tutto il male che gli abbiamo fatto”» (Gen 50,15).
Essi non conoscono davvero Giuseppe, dubitano della sincerità del suo perdono e hanno paura, temendo che con la morte del padre nulla tratterrà Giuseppe dal prendersi la propria rivincita contro di loro. In passato, infatti, essi stessi avevano progettato di uccidere Giuseppe proprio quando era lontano da casa e dalla protezione paterna (cfr Gen 37,18). Adesso che Giacobbe non c’è più, anch’essi ritengono di aver perso l’unica ragione per cui Giuseppe li avrebbe tenuti in vita, cioè il loro padre. Così escogitano uno stratagemma che possa far recedere Giuseppe dalla sua vendetta: «Allora mandarono a dire a Giuseppe: “Tuo padre prima di morire ha dato quest’ordine: Così direte a Giuseppe: Suvvia, perdona il delitto dei tuoi fratelli e il loro peccato, perché ti hanno fatto del male! Ora perdona il delitto dei servi del Dio di tuo padre!”» (Gen 50,16-17).
Si tratta davvero di un comando lasciato da Giacobbe? Il testo biblico non menziona tali parole tra le ultime disposizioni trasmesse dal patriarca prima di morire (cfr Gen 49). Questo comando è riportato dal punto di vista dei figli di Giacobbe, e non è detto che queste parole siano state realmente pronunciate dall’anziano patriarca[11]. È plausibile che questa implorazione sia frutto del timore dei fratelli di Giuseppe: una sorta di ricatto affettivo, affinché Giuseppe li perdoni per davvero. Con insistenza, per due volte gli viene chiesto di perdonare. Nel secondo appello si coinvolge anche Dio, e i fratelli si presentano come «i servi del Dio di Giacobbe».
Giuseppe non si chiede se queste parole siano vere o false, ma reagisce piangendo, consolando i suoi fratelli e rassicurandoli, per fugare ogni paura o incomprensione: «Non temete. Sono io forse al posto di Dio? Se voi avevate pensato del male contro di me, Dio ha pensato per un bene, per fare come quest’oggi: far vivere un popolo numeroso. Ora, non temete, io provvederò al sostentamento vostro e dei vostri bambini» (Gen 50,19-21).
Per due volte Giuseppe rassicura i fratelli, invitandoli a non avere paura di lui. Il male subìto non sarà vendicato producendo altro male, perché Dio ha il potere di volgerlo in bene per tutti. La vittoria sul male con il bene è l’opera di Dio, e Giuseppe lo ha finalmente compreso al termine della sua storia. Come dirà san Paolo: «Non lasciarti vincere dal male, ma vinci il male con il bene» (Rm 12,21). È questo l’atteggiamento di Dio, che l’essere umano è chiamato a imitare.
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Le storie di Dina e di Giuseppe sono storie di violenza, di amore e di vendetta. Dina subisce lo stupro da Sichem, per poi divenire l’interesse amoroso del giovane e, infine, mentre il padre rimane silenzioso, viene vendicata con deprecabile violenza dai suoi fratelli Simeone e Levi (cfr Gen 49,5-7). Giuseppe è il figlio amato da Giacobbe che attira su di sé l’odio degli altri fratelli, che concepiranno propositi malvagi contro di lui.
Sono storie che ci parlano di amori squilibrati, ma anche di cieca violenza. Simeone e Levi sono implacabili nell’approfittare della debolezza dei Sichemiti per agire con brutalità ed efferatezza. I fratelli di Giuseppe arrivano al punto di progettare la morte di Giuseppe e, se non ci riusciranno perché qualcuno di essi esita, non avranno remore a fargli del male, spogliandolo e gettandolo in un pozzo, per poi farlo condurre schiavo in Egitto. Questa volta, però, non si tratta della violenza contro una città straniera per salvare la sorella rapita, ma della violenza contro il proprio sangue e la propria carne, frutto di invidia e gelosia che distruggono la fraternità.
D’altra parte, anche la figura paterna di Giacobbe è problematica, perché egli appare tanto indifferente verso l’abuso subìto da Dina quanto legato simbioticamente al figlio Giuseppe, al punto da disperarsi e affliggersi platealmente per la sua scomparsa.
La risposta alla violenza con altra violenza, però, non è automatica, perché, mentre i figli di Giacobbe si trasformano anch’essi in brutali aggressori, Giuseppe non risponde al male con altro male, ma lascia spazio al perdono, che permette di ritrovarsi come fratelli e di comprendere come Dio operi nella storia ribaltando il male in bene.
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[1]. Sichem è il nome sia della città sia del giovane figlio di Camor l’Eveo, principe di quel paese.
[2]. La traduzione dei testi biblici è a cura dell’autore.
[3]. In ebraico, questa espressione indica l’atto sessuale, ma non necessariamente implica l’abuso. È il verbo seguente che dà una chiara sfumatura di violenza a tutta la vicenda.
[4]. Cfr D. W. Cotter, Genesis, Collegeville, Liturgical Press, 2003, 254.
[5]. È un refrain che attraversa il brano biblico. Lo troviamo nei vv. 13 e 27. È la motivazione che spinge i personaggi ad agire e a non agire.
[6]. Cfr R. Alter, Genesis, New York – London, W. W. Norton & Company, 1996, 191.
[7]. In ebraico, «invidia» e «gelosia» sono indicate dallo stesso termine.
[8]. A. Wénin, Giuseppe o l’invenzione della fratellanza. Lettura narrativa e antropologica della Genesis. IV. Gen 37–50, Bologna, EDB, 2007, 48.
[9]. Il lavoro redazionale rende la comprensione del testo incerta su questo punto. Giuseppe è stato venduto, come aveva progettato Giuda, oppure è stato rapito, come accade quando Ruben va al pozzo e non lo trova più? Si possono tenere insieme le due posizioni: l’intenzione dei fratelli di venderlo agli Ismaeliti può non essersi realizzata, perché i fratelli sono stati beffati dai mercanti madianiti (per l’interpretazione classica delle due fonti combinate, cfr E. A. Speiser, Genesis, New York, Doubleday, 1964, 293 s).
[10]. Il commento del biblista Jean-Pierre Sonnet è molto appropriato: «Ciò che, più di tutto, ci rende Giuseppe infinitamente fratello sono le sue lacrime. Per sei volte Giuseppe piange: due volte di nascosto (Gen 42,23; 43,30), tre volte davanti ai suoi fratelli (Gen 45,1-2; 45,14-15; 50,17), una volta quando ritrova suo padre (Gen 26,29). In questi momenti, Giuseppe non domina più la scena; anche lui è confuso da ciò che avviene, disarmato di fronte a ciò che Dio ha fatto. È nelle lacrime, e non in un’olimpica chiaroveggenza, che Giuseppe decifra ogni enigma. È nelle lacrime che dice ai suoi fratelli: “fu per conservarvi in vita che Dio mi ha mandato avanti a voi” (Gen 45,5)» (J.-P. Sonnet, L’alleanza della lettura. Questioni di poetica narrativa nella Bibbia ebraica, Roma – Cinisello Balsamo (Mi), G&B – San Paolo, 2011, 45).
[11]. Nel libro della Genesi, la storia è raccontata da un narratore onnisciente e attendibile. Anche il punto di vista di Dio è affidabile, mentre quello degli altri personaggi non solo è parziale e limitato, ma può essere addirittura falso e ingannevole (cfr V. Anselmo, «“Fake News” e Bibbia. Quale parola è credibile?», in Civ. Catt. 2018 IV 213-223).