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Lo scorso 10 maggio l’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede ha ospitato una Tavola rotonda in occasione della pubblicazione del numero 4000 de «La Civiltà Cattolica». Il tema scelto per l’incontro è stato «Lo sguardo di Magellano. La diplomazia dei ponti in un mondo di muri». Dopo il saluto dell’ambasciatore Daniele Mancini, è intervenuto il direttore della rivista, p. Antonio Spadaro, per una introduzione. Quindi hanno tenuto i loro interventi il Segretario di Stato vaticano, card. Pietro Parolin, e il Presidente del Consiglio, on. Paolo Gentiloni.
Lucio Caracciolo, direttore della rivista «Limes», ha moderato gli interventi. Nel pubblico di invitati una folta presenza di ambasciatori, oltre a personalità ecclesiastiche e civili[1].
L’ambasciatore Mancini presentando l’iniziativa, ha affermato che «attraverso le vicende italiane, dal Regno alla Repubblica, “La Civiltà Cattolica” ha rappresentato un punto di riferimento e di stimolo alla riflessione, proteso a declinare la fedeltà al Papa con una lettura di spessore aggiornata, attenta anche ad approfondire gli sviluppi culturali, delle scienze, della tecnologia». Quindi ha presentato il tema dell’incontro sottolineando come nel campo della politica internazionale papa Francesco operi «un capovolgimento di prospettiva» con una traiettoria «improntata ad innescare processi, di cui la cultura del dialogo costituisce cifra distintiva». Essa è «premessa dei “grandi riavvicinamenti”, che in ambito politico si inscrivono nella visione di una Chiesa “costruttrice di ponti”». Per questo la Tavola rotonda «interpella e stimola gli operatori della politica estera, politici, diplomatici, accademici e giornalisti».
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Il primo intervento è stato quello del Segretario di Stato vaticano, card. Pietro Parolin.
Signor Presidente del Consiglio dei Ministri,
Eminenze ed Eccellenze Reverendissime,
Signor Ambasciatore d’Italia presso la Santa Sede,
Distinti Membri del Corpo Diplomatico,
Rappresentanti dei mass-media,
Signore e Signori,
ho accolto con piacere l’invito rivoltomi dall’ambasciatore Daniele Mancini e dal p. Antonio Spadaro a intervenire, insieme al Presidente del Consiglio, on. Paolo Gentiloni, all’odierno evento di riflessione a due voci, dedicato al tema della visione globale che papa Francesco e la Santa Sede rivolgono al mondo, alle sue problematiche e alle sue esigenze attuali, racchiuso sotto il suggestivo titolo di: «Lo sguardo di Magellano».
Tale incontro si inserisce felicemente nel solco delle celebrazioni per il numero 4000 della rivista La Civiltà Cattolica, un traguardo davvero significativo e piuttosto raro nella storia delle riviste culturali. La Civiltà Cattolica, che si qualifica come «un’esperienza intellettuale illuminata dalla fede cristiana e profondamente innestata nella vita culturale, sociale e politica dei nostri giorni»[2], è strumento qualificato per la comprensione e l’approfondimento del Magistero dei Sommi Pontefici, dal beato Pio IX a papa Francesco. Essa nasce da una comunità di riflessione e di preghiera, che accompagna ormai da 167 anni il cammino della Chiesa cattolica.
Mi sia permesso in questa sede di rinnovare i migliori auguri al direttore, p. Antonio Spadaro, e all’intero Collegio degli scrittori, con le parole stesse usate da papa Francesco nel chirografo inviato per l’occasione: La Civiltà Cattolica sia «una rivista ponte, di frontiera e di discernimento».
In pari tempo, sono oggi grato al prof. Lucio Caracciolo, che ha accettato di moderare il nostro dialogo.
Lo sguardo di Magellano
Il 9 febbraio scorso, papa Francesco, ricevendo nella Sala del Concistoro del Palazzo apostolico vaticano il Collegio degli scrittori e ricordando il peculiare contributo della rivista alla vita della Chiesa nel mondo contemporaneo, fece ricorso a un’immagine suggestiva, quella della navigazione. Nel fluttuare delle situazioni storiche, nel mutare degli avvenimenti e delle prospettive, egli ha invitato a «restare in mare aperto», ovvero in un orizzonte vasto di navigazione e di esplorazione, ove si possono certamente incontrare tempeste e vento contrario, «e tuttavia, il santo viaggio si fa sempre in compagnia di Gesù, che dice ai suoi: “Coraggio, sono io, non abbiate paura!” (Mt 14,27)»[3].
L’immagine della navigazione in mare aperto, che il Santo Padre ha evocato in quell’occasione, penso abbia molto da dire anche per quanto attiene alla visione che anima l’impegno della Santa Sede di fronte alle gravi sfide internazionali del momento presente. Infatti, da diversi anni si parla di un tempo di crisi: sperimentiamo crescenti tensioni e conflittualità, ci troviamo in un orizzonte nel quale molti punti di riferimento sono venuti a mancare, ove il sistema degli equilibri internazionali appare fortemente indebolito, e con esso anche alcuni elementi essenziali del diritto internazionale. Attraversiamo una stagione segnata tragicamente dalla violenza cieca del terrorismo fondamentalista, che avvelena l’umana fraternità addirittura con la pretesa idolatrica di invocare il nome di Dio. In pari tempo, registriamo una nuova e crescente affermazione di nazionalismi e populismi, che rischiano di minare alla base la pacifica e ordinata convivenza tra i popoli. Non viviamo solamente un’epoca di cambiamenti ma, come ha sottolineato il Santo Padre, ci troviamo in un vero e proprio «cambiamento d’epoca».
Al riguardo, trovo ancora di stringente attualità quanto Henry Kissinger scrisse nell’introduzione al volume L’ arte della diplomazia, pubblicato nel 1994: «Il sistema internazionale del ventunesimo secolo sarà caratterizzato da un’apparente contraddizione: da un lato, frammentazione, dall’altro globalizzazione crescente. A livello di rapporti internazionali, il nuovo ordine sarà più simile al sistema di Stati del diciottesimo e diciannovesimo secolo, che ai rigidi schematismi della guerra fredda». E Kissinger proseguiva: «Oggi i rapporti internazionali hanno già assunto dimensioni autenticamente globali: le comunicazioni avvengono in tempo reale, l’economia mondiale funziona sincronicamente in tutti i continenti e si è presentata una serie di problemi che possono trovare soluzione solo se si opera su scala mondiale, come la proliferazione nucleare, l’ambiente, l’esplosione demografica e l’interdipendenza economica»[4].
Ecco perché, in questo passaggio d’epoca siamo chiamati a recuperare, in qualche modo, lo «sguardo di Magellano».
Mi sia concesso qui di citare un fatto storico, legato anche alla mia terra d’origine. Quando, nel 1519, Antonio Pigafetta, geografo, studioso di matematica e di astronomia, e rampollo di una delle più importanti famiglie nobili di Vicenza, si trovava a Barcellona, al seguito del nunzio pontificio, mons. Francesco Chiericati, rimase affascinato dall’impresa della circumnavigazione del globo che Ferdinando Magellano stava organizzando. Così, con l’appoggio del rappresentante del Papa, ottenne da Carlo V il permesso di prendere parte alla spedizione. La sua presenza sarà provvidenziale, perché dopo la morte di Magellano, avvenuta il 27 aprile 1521, nella battaglia di Mactan (Filippine), insieme a una sessantina di superstiti, Pigafetta potrà portare a termine quell’incredibile impresa, dopo aver doppiato il Capo di Buona Speranza e giungendo a San Lucar, presso Siviglia, il 6 settembre 1522[5].
All’origine di quella straordinaria avventura di Magellano, e di altre simili che la storia ha conosciuto, vi era un radicato atteggiamento di fiducia nella Provvidenza di Dio, da una parte, e nelle capacità dell’uomo, dall’altra. In generale, quegli indomiti esploratori aspiravano a qualcosa di più grande, ovvero a scrivere una pagina nuova nell’avventura dell’umanità. Alla base di quell’approccio coraggioso verso l’incognito vi era, tra l’altro, un triplice e radicato dinamismo dello spirito: il senso dell’inquietudine, l’umiltà dell’incompletezza e il coraggio dell’immaginazione.
Sono gli stessi atteggiamenti di libertà interiore che papa Francesco ha raccomandato alla comunità de La Civiltà Cattolica per svolgere una ricerca che sia davvero a servizio degli uomini e della Chiesa. Infatti, una tale libertà dello spirito consente di restare in mare aperto, cioè disponibili a scrutare un orizzonte in perenne cambiamento, senza ritirarsi in quei porti sicuri che garantiscono un’apparente tranquillità ma che, in definitiva, impediscono di riprendere coraggiosamente il lungo viaggio della storia.
Il senso dell’inquietudine, l’umiltà dell’incompletezza, il coraggio dell’immaginazione mi sembrano tre coordinate preziose per comprendere oggi anche l’atteggiamento di papa Francesco e della diplomazia pontificia di fronte alle urgenti sfide del nostro tempo. In proposito, desidero focalizzare l’attenzione su alcuni elementi di riferimento e di valutazione che sono via via emersi in questi primi quattro anni di Pontificato.
Le coordinate di un itinerario spirituale
Guardando ai viaggi internazionali di papa Francesco, si può cogliere, fin dal 2013, un percorso che contribuisce a mettere in evidenza alcune priorità ecclesiali, pastorali e sociali dell’attuale Vescovo di Roma. Al riguardo, vorrei ricordare la prima uscita dall’Urbe compiuta dal Papa l’8 luglio 2013: la breve, ma intensa visita a Lampedusa. In quella occasione, nell’omelia della santa Messa, papa Francesco pose tre interrogativi fondamentali. I primi due suonavano così: «Adamo, dove sei?», e: «Caino, dov’è tuo fratello?», e intendevano richiamare una prospettiva antropologica, ovvero suscitare una domanda fondamentale sul posto dell’uomo contemporaneo nel progetto della creazione e sulla sua responsabilità verso il prossimo, che non è l’altro da temere o da allontanare, ma il fratello da amare e accogliere. Il terzo interrogativo, riferendosi alle tragedie del Mar Mediterraneo, era il seguente: «Chi di noi ha pianto per questo fatto?», e introduceva una dimensione ulteriore, ponendo l’accento sulla società attuale, che spesso dimentica l’esperienza fondamentale del compatire, cioè del patire con l’altro, condividendo le sue aspirazioni e caricandosi delle sue sofferenze. Se non c’è questa empatia, si cade inevitabilmente nella «globalizzazione dell’indifferenza».
Il personale approccio del Papa alle sfide attuali parte da questa dimensione dello spirito, che diventa una spinta inclusiva, capace di abbattere il muro dell’indifferenza, di abitare spazi nuovi e di farsi carico dell’altro con creativa responsabilità.
Così è possibile cogliere il filo conduttore che guida anche la scelta delle mete dei suoi viaggi apostolici. Essi rispecchiano la peculiare sensibilità del Papa, sempre attento alle situazioni di disagio materiale e morale, che feriscono l’umanità del nostro tempo. In tale prospettiva, si comprendono meglio gli itinerari spirituali, ma anche i risvolti sociali e politici dei 18 viaggi apostolici sin qui compiuti fuori dall’Italia, dal Brasile all’Egitto.
Sul piano ecclesiale ed ecumenico, le visite realizzate hanno segnato un cammino per la comunione nella Chiesa. Basti citare in proposito i due viaggi del 2014, ovvero il pellegrinaggio in Terra Santa e a Gerusalemme (nel mese di maggio) e quello in Turchia a Istanbul, ove il Papa ha incontrato il patriarca Bartolomeo (a novembre, per la Festa dell’apostolo Andrea). Poco più di un anno dopo è avvenuto lo storico abbraccio a Cuba, con Kirill, patriarca di Mosca e di tutte le Russie (febbraio 2016), al quale hanno fatto seguito le tappe ecumeniche in Armenia (nel mese di giugno) e in Georgia (in settembre). Inoltre, vi è stato lo storico incontro a Lund, in Svezia, in occasione dei 500 anni della Riforma luterana (a fine ottobre 2016) e quello al Cairo con Tawadros II e la Chiesa copto-ortodossa, lo scorso 29 aprile. Infine, vi è il profondo desiderio del Papa di recarsi in Sud Sudan, insieme all’Arcivescovo di Canterbury, per portare un comune e fraterno messaggio di pace.
A questi itinerari ecumenici vanno aggiunti gli altri significativi momenti di dialogo interreligioso vissuti in Terra Santa, Albania, Turchia, Sri Lanka, Bosnia Erzegovina, nella Repubblica Centrafricana e, infine, in Egitto. Tante tappe di un unico viaggio verso l’incontro e l’amicizia reciproca. Un viaggio che parte da Gerusalemme, ove nella fede cristiana tutto ha avuto origine: un cammino che si muove da oriente verso occidente, come è avvenuto per il primo annuncio del Vangelo, un itinerario che attraversa sensibilità storiche, culturali e religiose tra loro assai differenti, ma che trovano nella testimonianza del Vangelo il loro comune denominatore.
In questa prospettiva cogliamo un altro elemento caratterizzante la sensibilità del Papa: la realtà è sempre superiore all’idea. Ci si incontra sul piano reale, quello della vita concreta, prima che nel confronto tra idee e sistemi di pensiero differenti. In altre parole, solo abbracciando l’altro, così come si pone e là dove si trova, posso intraprendere con lui un viaggio fraterno verso la verità e la riconciliazione.
La geopolitica di un viaggio dalle periferie al centro
Se il cammino primariamente ecclesiale dell’attuale pontificato è un pellegrinaggio da oriente verso occidente, quello geopolitico assume le caratteristiche di un percorso dalle periferie verso il centro. Anche qui assistiamo a una sorta di nuova «rivoluzione copernicana» alla luce del Vangelo. Al riguardo, tutti conosciamo l’attenzione del Papa per le periferie esistenziali e geografiche del nostro tempo. Egli parte da una semplice constatazione: la povertà, la fragilità dell’uomo di oggi e la debolezza di una società destrutturata e «decentrata» feriscono la dignità della persona umana.
Il cuore di questa prospettiva evangelica sta nel fatto che le persone, nel loro vissuto concreto, vengono prima dei sistemi ideologici, politici ed economici. In altri termini, non debbono essere la volontà di potenza, l’idolatria del denaro o le priorità di élites organizzate a dettare l’agenda della Comunità internazionale, ma le attese e le esigenze reali delle persone e dei popoli. È paradossale rilevare che nell’epoca dell’assoluta globalizzazione, nella quale le comunicazioni avvengono in modo fluido e immediato e tutti sono interconnessi, si senta lancinante l’esperienza della solitudine e dell’abbandono.
Per questo, il Papa si pone nella prospettiva degli «scartati», dei feriti, di coloro che si trovano ai margini, facendosi voce ed eco della loro sofferenza. Ecco perché, da Lampedusa a Lesbo, da Cuba fino alla frontiera tra Messico e Stati Uniti, dalla periferia delle città europee e di quelle dei Paesi in via di sviluppo il Papa riporta al centro dell’attenzione internazionale la questione dell’uomo, con i suoi diritti e i suoi doveri. Solo una profonda comprensione di queste dinamiche può dare linfa nuova alla società e alle istituzioni, sul piano nazionale e su quello internazionale. Solo a partire da questa prospettiva concreta ci si può impegnare compiutamente nel tentativo di riformare e rilanciare le organizzazioni internazionali e le istituzioni locali. Il Papa è il primo a darne l’esempio, chiedendo una riforma autentica anche delle strutture ecclesiali, perché possano essere sempre più al servizio del Vangelo e del popolo di Dio.
In questo approccio dinamico e profetico, penso si possa cogliere bene anche l’animo gesuita del Santo Padre, che mira anzitutto all’essenziale dell’annuncio evangelico e al modo concreto di viverlo. In tale orizzonte, la Chiesa è chiamata ad essere perennemente «in uscita», ovvero protesa verso i luoghi di incontro con gli uomini del nostro tempo. Pertanto, alla Sede apostolica sta particolarmente a cuore di accompagnare il cammino di chi anela alla pace, di chi cerca la riconciliazione, di chi desidera positivamente costruire un avvenire migliore per il proprio Paese, sanando le ferite del passato, che ancora bruciano nella carne viva dei popoli. Così, il Papa ha definito la Chiesa come un «ospedale da campo», mettendo in evidenza la dimensione terapeutica della sua missione, anche nelle prospettive geopolitiche.
Sul piano diplomatico, siamo tutti ben consapevoli che l’attuale e complessa situazione internazionale richiede un nuovo slancio di mediazione a livello multilaterale, dato che le crisi e i conflitti assumono sempre più dimensioni regionali e transnazionali, coinvolgendo i Paesi vicini e richiedendo risposte condivise da parte degli Stati e delle Organizzazioni internazionali.
Pertanto, sul piano dei rapporti internazionali, tra le molte questioni aperte, tre mi sembrano essere le sfide globali che il Santo Padre fa proprie: l’impegno per la pace, il disarmo nucleare, la tutela dell’ambiente. Da questi orizzonti scaturisce una serie di altre prospettive globali: la promozione di una civiltà dell’incontro, l’accompagnamento del fenomeno migratorio, la condivisione dei beni della terra e la dignità del lavoro, specialmente per le nuove generazioni.
Ciascuno di questi orizzonti meriterebbe un approfondimento analitico, che non mi è possibile svolgere in questa sede. Mi limito semplicemente a far rilevare come il Papa, scrutando l’orizzonte con lo «sguardo di Magellano», stia cercando di aprire nuovi percorsi di comunicazione e di incontro, anche costruendo ponti ideali tra un continente e l’altro, tra culture e religioni differenti, tra sistemi giuridici e di pensiero spesso distanti tra di loro.
Il dialogo e l’incontro: cuore dell’itinerario di Francesco
Sono queste le linee di azione entro le quali il Santo Padre si è mosso nel suo viaggio che «dalla fine del mondo» lo ha portato a Roma, e che dall’Urbe lo ha condotto sui sentieri del mondo. Al cuore di questo viaggio vi è la parola «dialogo», strada maestra di un approccio inclusivo, che conduce realmente all’incontro con l’altro, il quale è visto anzitutto in una prospettiva di fraternità. Infatti, è il dialogo che porta a evitare la «cosificazione» dell’altro e a riporre al centro l’uomo e la sua dignità. Ciò implica anche valorizzare la sua capacità di relazionarsi con gli altri. Il Papa non concepisce la persona umana come «staccata da ogni contesto sociale e antropologico, quasi come una “monade”, sempre più insensibile alle altre “monadi” intorno a sé»[6], ma come capace di solidarietà, cioè «di “simpatizzare” con l’altro e con il tutto. Se uno soffre, tutti soffrono (cfr 1 Cor 12,26)»[7].
Tale concetto è al cuore degli incontri che il Papa ha avuto con i leader europei a Strasburgo, come nelle due occasioni romane del conferimento del premio Carlo Magno e del 60° dei Trattati di Roma. Nel dialogo si può essere autenticamente inclusivi e fecondi. Nel dialogo ci si apre al mondo e al futuro. Ai leader spetta promuoverlo e sostenerlo, «vagliare l’essenziale»[8], per «discernere le strade della speranza»[9].
Illuminanti sono le considerazioni che il Papa ha rivolto ai responsabili politici europei: «I Padri fondatori ci ricordano che l’Europa non è un insieme di regole da osservare, non un prontuario di protocolli e procedure da seguire. Essa è una vita, un modo di concepire l’uomo a partire dalla sua dignità trascendente e inalienabile e non solo come un insieme di diritti da difendere, o di pretese da rivendicare. All’origine dell’idea d’Europa vi è “la figura e la responsabilità della persona umana col suo fermento di fraternità evangelica, […] con la sua volontà di verità e di giustizia acuita da un’esperienza millenaria” (A. De Gasperi, “La nostra patria Europa”)»[10].
Il Papa però non è un demagogo che lancia slogan, bensì un pastore che incontra le persone. Il suo incontro attraversa il tempo e lo spazio, come ha suggerito la rievocazione di quattro figure storiche che egli ha citato rivolgendosi al Congresso degli Stati Uniti d’America, il 24 settembre 2015: Abraham Lincoln, Martin Luther King, Dorothy Day, Thomas Merton. Nel cammino di Francesco ci sono le storie e le sofferenze di volti concreti, ai quali egli rivolge il suo messaggio di fede e di speranza, e i suoi gesti di carità.
Per il Santo Padre, c’è oggi bisogno di una globalizzazione «solidale e cooperativa», che sappia invertire la rotta a partire dall’inviolabile dignità dell’uomo. Così il Papa si è rivolto il 13 gennaio di quest’anno ai membri della Global Foundation: «Occorre, innanzitutto, che ognuno, personalmente, si chini sulle ferite dei poveri, che impari a patire e a piangere con coloro che piangono per le persecuzioni, la solitudine, lo spostamento forzato o per la separazione dalle loro famiglie; con coloro che vedono morire i loro cari per il mancato accesso alle cure sanitarie; con coloro che patiscono il freddo e la fame. Questa compassione (patire con) farà sì che gli operatori economici e politici possano mettere il meglio della loro intelligenza e delle loro risorse, non solo per controllare e monitorare gli effetti della globalizzazione, ma anche per aiutare i responsabili nei diversi ambiti politici – regionali, nazionali e internazionali – a correggere l’orientamento ogni volta che sia necessario. La politica e l’economia, infatti, devono essere soprattutto un esercizio della virtù della prudenza»[11].
Per una diplomazia della misericordia
Attraverso questo singolare percorso che ho cercato di illustrare, papa Francesco ci invita a vincere l’indifferenza, chiedendoci di alzare lo sguardo e di riflettere sullo stile di Dio, sul suo modo concreto di relazionarsi con l’umanità, così come noi stessi lo possiamo cogliere nella Bibbia. Ce lo mostra molto bene il racconto che la Genesi fa del peccato di Adamo e dell’uccisione di Abele da parte di Caino: è il mistero della fraternità infranta (Gen 9,4-10).
Ritornano qui le due domande da cui siamo partiti: «Adamo dove sei?»; e a Caino: «Dov’è tuo fratello?». E nell’esperienza dell’Esodo, che narra della liberazione di Israele dalla schiavitù, Dio dice a Mosè: «Ho osservato la miseria del mio popolo e ho udito il suo grido. Conosco, infatti, le sue sofferenze. Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele» (Es 3,7-8). E il Papa aggiunge: «È importante notare i verbi che descrivono l’intervento di Dio: Egli osserva, ode, conosce, scende, libera. Dio non è indifferente»[12].
Vi è poi, nello stile di Dio, un atteggiamento ancora più profondo e «viscerale», quello della misericordia. Egli osserva, conosce le sofferenze dell’uomo, e se ne fa carico personalmente: qui entriamo nel mistero cristiano dell’incarnazione. Gesù vede tali sofferenze, ma non si limita a questo, perché, come dice il Papa: «Egli tocca le persone, parla con loro, agisce in loro favore e fa del bene a chi è nel bisogno. Non solo, ma si lascia commuovere e piange. E agisce per porre fine alla sofferenza, alla tristezza, alla miseria e alla morte»[13].
Ritorno, dunque, allo «sguardo di Magellano», o meglio ancora, ai primi passi del pontificato. Mi domando: quale appello il Papa rivolge al nostro mondo, alla comunità internazionale e a tutti gli uomini di buona volontà?
Nel rivolgersi per la prima volta ai membri del Corpo diplomatico, pochi giorni dopo la sua elezione, papa Francesco volle tratteggiare il cammino della Chiesa e della diplomazia della Santa Sede sotto la guida del nuovo Vescovo di Roma. Sono tre espressioni chiave dell’attuale pontificato: lottare contro la povertà sia materiale sia spirituale; edificare la pace; costruire ponti. Sono anche tre punti di riferimento che indicano un cammino personale, sociale e globale. Un cammino difficile, se restiamo intrappolati nella prigione della nostra indifferenza; un cammino irrealizzabile, se crediamo che la pace sia semplicemente un’utopia; un cammino possibile, se accettiamo la sfida di avere fiducia in Dio e nell’uomo, e se ci impegniamo nel ricostruire un’autentica fraternità, custodendo il creato.
Di certo, quello del Papa rimane un appello pressante e impegnativo, tanto più oggi. Esso ci chiede di avere molto coraggio e di abbandonare alle nostre spalle le facili certezze acquisite, impegnandoci in un’autentica conversione del cuore, delle priorità, degli stili di vita. Solo nell’incontro con l’altro ci è dato cogliere la presenza della «carne di Cristo»: una carne spesso sofferente, abbandonata, ferita, scartata, ma sempre capace di mostrarci il vero volto di Dio, che non si stanca di accoglierci e di usarci misericordia. Al centro spirituale del pontificato di Francesco, c’è la porta aperta della Misericordia, che la Chiesa ha attraversato nell’anno giubilare, chiedendo un futuro di pace per tutta l’umanità.
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Ha preso quindi la parola il Presidente del Consiglio, on. Paolo Gentiloni.
Credo sia rara l’occasione di celebrare il numero 4000 di una rivista; e per questo ringrazio La Civiltà Cattolica e la nostra Ambasciata presso la Santa Sede. Grazie per aver organizzato questo momento. È stato ricordato come la rivista abbia accompagnato, nascendo prima dell’Italia unita, la nostra storia e ne abbia sottolineato i passaggi fondamentali, ad esempio con il giudizio sui Trattati di Roma, definiti allora, con grande lungimiranza, come «uno dei più importanti e decisivi eventi nella fase storica, apertasi con la fine della seconda guerra mondiale»[14].
E ancora oggi La Civiltà Cattolica continua ad essere un grande punto di riferimento culturale all’interno del dibattito pubblico, un prezioso strumento di «discernimento», per usare un concetto caro a sant’Ignazio di Loyola e ai gesuiti, e ribadito da papa Francesco, in modo ripetuto, nell’incontro di alcune settimane fa con i 27 Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea, alla vigilia del Sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma.
Papa Francesco, durante il nostro incontro, ci ha invitati a usare il discernimento per ridare speranza all’Europa. E forse ci è servito, questo invito al discernimento, il giorno successivo. È servito ad avere un’atmosfera più positiva e un impegno ancora maggiore, in quell’occasione che si è rivelata tutt’altro che formale.
Nel mondo in cui viviamo abbiamo sempre più bisogno della saggezza del discernimento. Della capacità di decifrare, distinguere, valutare, scegliere. In un mondo dove si sta riducendo la fiducia nel sistema cooperativo delle relazioni internazionali. Un mondo in cui la realtà è sempre più frammentata, in cui tornano ad avere peso territori, confini, etnicismi e nazionalismi. Un mondo nel quale assistiamo a una «rivincita della geografia», come l’ha definita Robert Kaplan.
In questo mondo, la Santa Sede – lo ha ricordato con parole di grande chiarezza e saggezza il cardinale Parolin – si presenta come un autentico attore globale. Come un punto di riferimento fondamentale. Un attore strategico ascoltato e rispettato con il quale l’Italia sta rafforzando ulteriormente la già eccellente cooperazione bilaterale sui temi internazionali. Tanto più in un anno, il 2017, che vede l’Italia in una posizione di leadership su vari fronti: con il seggio nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, la presidenza del G7 con il prossimo vertice di Taormina, la troika Osce in vista della presidenza del 2018, le già citate celebrazioni del Sessantesimo anniversario dei Trattati di Roma, che si sono svolte poche settimane fa, il vertice sui Balcani occidentali, che si terrà in luglio a Trieste.
La Santa Sede è un attore globale che ha il proprio punto di forza proprio in quello sguardo di cui oggi parliamo e che dà il titolo al nostro incontro: «lo sguardo di Magellano». Lo sguardo di chi viene «quasi dalla fine del mondo», per ricordare le prime parole di papa Francesco dopo la sua elezione al Soglio pontificio.
È utile soffermarsi a riflettere proprio sull’incredibile viaggio di Magellano. Fu un viaggio che durò tre anni, dal 1519 al 1522, e che continuò anche dopo la morte dello stesso Magellano. Il viaggiatore morì, ma il viaggio continuò. Una grande metafora della preminenza interminabile del viaggio, inteso come ricerca, sull’audacia e sulla saggezza del singolo viaggiatore.
Quel viaggio non ebbe risultati commerciali, ma contribuì alla conoscenza di Paesi allora sconosciuti, consentendo di superare l’ipotesi tolemaica dell’esistenza di una grande penisola a Sud-Est dell’Asia.
E furono diversi gli italiani, come ha ricordato Sua Eminenza, che presero parte a quel viaggio. Il resoconto più noto di questa avventura straordinaria fu la relazione scritta dal navigatore vicentino Antonio Pigafetta, che vi prese parte con altri 23 italiani. C’era, quindi, un pezzo d’Italia in questo viaggio che, ancora oggi, riveste un significato fondamentale nella storia dell’umanità.
Oggi, ai tempi della «guerra mondiale a pezzi», papa Francesco propone una «diplomazia della misericordia», come l’ha definita p. Antonio Spadaro. Una misericordia non relegata nel regno delle idee, ma vissuta con «realismo visionario». Come forma di azione politica, come ricerca di soluzioni alle questioni internazionali, di fronte alle sfide di maggiore attualità: dalla Siria alle migrazioni, al terrorismo, al futuro dell’Europa, alla questione ambientale, ai processi di mediazione a Cuba, in Colombia e in Venezuela, ai rapporti con la Cina e con la Russia.
La Santa Sede, in tutti questi campi, è stata ed è al centro di processi politici e diplomatici, con una forma di impegno assoluto, totale. Agli antipodi di quella «globalizzazione dell’indifferenza» che lo stesso Pontefice ha più volte denunciato. Un impegno a tutto campo in nome del dialogo e della solidarietà.
«Questo è il tempo del dialogo, non della difesa di rigidità contrapposte», ha scandito papa Francesco. Un principio che il Pontefice ha praticato in molti modi, con grande coerenza e determinazione. Tra tanti gesti, è importante ricordare l’incontro del Pontefice con il patriarca Kirill e la sua recente visita al Cairo, con l’abbraccio al Grande Imam di Al-Azhar, oltre che a Tawadros.
Quindi, «solidarietà» e «dialogo»: parole che oggi avvicinano ancora di più Italia e Santa Sede nella lettura dei processi internazionali. Sono i concetti sui quali possiamo far leva per costruire ancora meglio un partenariato tra due entità geopolitiche molto diverse, ma che in questo partenariato trovano ragioni e interessi strategici fondamentali e comuni.
Dialogo e solidarietà sono due parole che costituiscono ormai l’identità e la cultura della politica estera dell’Italia, che fanno parte del nostro Dna di popolo e di Stato. La nostra capacità di ascolto e di mediazione è il frutto di una complessa storia millenaria e di una collocazione geografica eccezionale, che vede il nostro Paese quale centro di civiltà e di culture diverse. Quale ponte tra Nord e Sud, tra Est e Ovest, tra Europa e Africa.
L’Italia è esattamente al centro del Mediterraneo, una regione che chiede a tutti i Paesi che ne sono parte disponibilità al dialogo e rispetto delle diversità. Ed è naturalmente proiettata verso l’esterno, verso la costruzione di «ponti» e non di «muri». Perché è una «striscia di terra in mezzo al mare»: con i nostri quasi 8.000 km di coste, il mare è sempre stato una parte fondamentale della nostra storia. Una storia fatta di esplorazioni, di commerci, di contatti continui e di scambi con il Mediterraneo e oltre.
La nostra natura di «ponte geografico» nel Mediterraneo, oltre a contraddistinguere la nostra storia, è stata parte importante degli scambi all’interno di tutta la regione mediterranea. Basti pensare che la «lingua franca» – parlata e compresa dall’undicesimo sino a tutto il diciannovesimo secolo in tutti i porti e le zone di scambio del Mediterraneo – era in larghissima parte derivata dall’italiano. Era un linguaggio semplice, ma permetteva a tutti di capirsi e metteva in contatto tutte le popolazioni che si affacciavano sul Mare Nostrum.
Oggi dobbiamo essere capaci di ritrovare un linguaggio comune. Solidarietà e dialogo devono essere ancora il nostro bagaglio, in questo particolare momento storico.
Siamo alle prese con una fase in cui tende a esaurirsi una sorta di mitizzazione dell’«età dell’oro della globalizzazione», ma non deve tendere a esaurirsi l’apertura, il dialogo, lo scambio internazionale. La critica alla globalizzazione non manca certo di ragioni. Sono le ragioni degli «uomini dimenticati» contro gli «uomini di Davos», come è stato detto. Ragioni che ci interrogano nel momento in cui in diverse parti del mondo l’equazione tra libertà e progresso economico non appare più così scontata: pensiamo, ad esempio, alle riflessioni di alcuni anni fa di Amartya Sen sul rapporto tra libertà e sviluppo economico, riflessioni che oggi sono messe in discussione in tante realtà del mondo.
La risposta a questa difficoltà della globalizzazione non potrà venire solo dai «vincenti», o dalle «élites senza terra», ma verrà forse proprio dallo «sguardo di Magellano». E cioè dalla capacità di guardare all’apertura del mondo nel suo insieme. Anzitutto per i risultati positivi che quella stessa apertura ha prodotto: pensiamo alle centinaia di milioni di poveri che in Asia e in America Latina sono usciti dalla povertà e si sono avviati a una condizione, se non di benessere, comunque di minore disagio. Senza lo «sguardo di Magellano», rischiamo di sottovalutare o dimenticare questi stessi risultati.
Avere lo «sguardo di Magellano» e la capacità di discernere significa anche saper provvedere alla protezione sociale dei perdenti della globalizzazione rifiutando il protezionismo. Le dinamiche del nuovo mercato globale hanno provocato in Occidente, nei ceti medio poveri, difficoltà, e spesso un atteggiamento di minore ottimismo verso il futuro e verso la vita.
Dobbiamo essere consapevoli della necessità di tutela e di protezione che questo comporta. Così come dobbiamo essere capaci di cogliere il vero significato della lezione del patriottismo. In Italia, questa lezione è stata uno dei lasciti di un grande Presidente, il presidente Carlo Azeglio Ciampi, che per anni ha insistito sull’importanza del patriottismo in un Paese, l’Italia, che spesso proprio sul patriottismo è stato scettico. Il patriottismo, oggi, non deve essere in nessun modo confuso con il nazionalismo ostile nei confronti dei nostri vicini.
La capacità di discernere e di combinare diversi elementi, di coniugare innovazione e tutela del lavoro, sviluppo economico e prospettive di crescita sostenibili, per uno sviluppo ambientalista, questa capacità è l’essenza dell’Europa. E questi princìpi fondamentali, che ho cercato di enunciare, descrivono la straordinaria unicità del progetto e dell’edificio dell’Unione Europea. È qui che risiede il suo autentico spirito, non nelle regole e nei regolamenti.
Dialogo e solidarietà, quindi. Solidarietà per noi significa un modo di porsi nei confronti della sfida migratoria e delle sfide che riguardano l’Africa. L’Africa che, per la mia generazione, è stata per decenni il «continente perduto». E che oggi è un continente con diverse alternative. Ci sono tante Afriche diverse. Ma è comunque il continente che ci sfida. Ci sfida sul piano economico, sul piano demografico, sul piano dei grandi flussi migratori. E interroga l’Europa.
L’Africa è un continente dove esiste un’azione concertata e convergente tra Italia e Santa Sede per edificare, mattone dopo mattone, un ponte di dialogo, di civiltà e di cultura con i nostri vicini.
Lo sviluppo di questo continente è una delle sfide principali del XXI secolo. Una sfida che l’Italia può e deve giocare da protagonista. Con la consapevolezza che questo continente è a un bivio. Un bivio che ci riguarda da vicino, visto che entro il 2050 la sua popolazione raggiungerà i 2,4 miliardi di persone. E sono evidenti a tutti le implicazioni di questa prospettiva in termini di pressione demografica e di flussi migratori.
Negli ultimi 15 anni, la nostra visione dell’Africa ha oscillato tra una rappresentazione pessimistica, da un lato, e l’aspettativa di un «rinascimento» africano, dall’altro. Oggi – dopo il rallentamento della crescita economica dovuto al ribasso dei prezzi delle materie prime – l’Africa è entrata in una terza fase della sua storia più recente, una fase nella quale è in gioco la definizione del suo modello di sviluppo per i decenni a venire. Fermo restando che non si possono affrontare senza l’Africa le grandi questioni globali del XXI secolo, come salute, nutrizione, clima.
L’Italia ha scelto di scommettere in modo strategico sul futuro dell’Africa. Con una forte scommessa in chiave di un nuovo partenariato Europa-Africa. Una forte scommessa politica. Una forte scommessa di cooperazione per lo sviluppo, vista la decisione del Governo di raddoppiare le risorse disponibili e di destinarne più della metà proprio all’Africa. Una forte scommessa sul piano diplomatico, con la Conferenza ministeriale Italia-Africa voluta dalla Farnesina e la recente decisione di aprire due nuove ambasciate d’Italia in Niger e in Guinea.
E, a testimonianza di questo grande investimento sull’Africa, è importante ricordare anche la scelta che abbiamo fatto come Presidenti del G7, organizzando una sessione di outreach a Taormina con alcuni Capi di Stato di quel continente a noi vicino.
Solidarietà e dialogo sono concetti che devono guidarci anche nell’affrontare le sfide della questione migratoria, che rappresenta un fenomeno globale e di lungo periodo, non una semplice emergenza contingente. Non esistono bacchette magiche e soluzioni miracolistiche. Esiste invece la necessità di gestire questa sfida nel modo più efficace possibile. E tenendo al centro della nostra azione i diritti della persona umana.
Dobbiamo lavorare in partenariato con i Paesi di origine e di transito dei flussi migratori, per arginare anzitutto la catastrofe umanitaria nel Mediterraneo e per contrastare con decisione i trafficanti. A questo riguardo, l’Italia deve essere fiera e orgogliosa di chi salva vite in mare. Anche su questi temi l’Italia ha saputo agire come stimolo per l’Europa, come «ponte» e cerniera tra Europa e Mediterraneo.
Grazie al forte impegno dell’Italia si è arrivati al Migration compact dell’Unione Europea del giugno scorso, che propone lo stabilimento di specifici compact con alcuni Paesi-pilota sub-sahariani – Niger, Nigeria, Mali, Senegal ed Etiopia – e il lancio di un ambizioso piano di investimenti per affrontare le cause profonde della migrazione. Un piano che deve ora essere confermato e ampliato nella portata.
In questi giorni il presidente della Commissione Europea Jean-Claude Juncker – in un incontro a Palazzo Vecchio, a Firenze – ha ringraziato l’Italia perché, sul tema dell’emigrazione, sta «salvando l’onore dell’Europa». Parole meritate e bellissime. Spero soltanto che non saremo soli in questo sforzo per salvare l’onore dell’Europa. Perché l’onore dell’Europa fa parte dei valori fondanti della nostra civiltà, della nostra comunità.
Se allarghiamo lo sguardo e consideriamo quello che succede attorno a noi e guardiamo, ad esempio, verso i Balcani occidentali, se consideriamo i percorsi di difficoltà e di ritorno di crisi che caratterizzano ora quella regione, dopo un periodo tutto sommato favorevole, ci accorgiamo che se si attenua questa capacità di attrazione dell’Unione Europea, le conseguenze non si producono soltanto all’interno dei nostri dibattiti politici domestici: sono conseguenze di portata molto più ampia, come le possibili contrapposizioni etnico-religiose, o il niente affatto auspicabile ritorno della contesa tra due grandi ex imperi.
Solidarietà e dialogo passano anche da un rilancio del multilateralismo, un valore che ad alcuni può apparire fuori moda, ma al quale dobbiamo restare aggrappati.
La nostra consapevolezza dei vantaggi di un approccio inclusivo non deriva solo dalla dimensione globale delle più importanti questioni che abbiamo di fronte. È anche una lezione che abbiamo appreso dalla storia del secolo scorso. È la lezione della «Grande depressione» e delle due guerre mondiali. Una lezione che ci insegna che pace, stabilità e progresso possono essere raggiunti in modo duraturo solo attraverso un «internazionalismo cooperativo» che sappia superare le divisioni dei «nazionalismi competitivi». Che sappia abbattere muri e costruire ponti.
Questo schema è l’architrave strategico sul quale, dopo il 1945, l’Occidente ha contribuito a costruire l’ordine mondiale liberale, con le sue alleanze politico-militari, le sue istituzioni multilaterali, la diffusione del mercato e la condivisione di valori comuni, a cominciare dalla democrazia. Uno schema vincente, al quale l’Italia non vuole rinunciare.
L’Italia proseguirà il suo cammino sulla strada della «società aperta». La strada del dialogo, del multilateralismo, dell’apertura al commercio globale, della promozione dei diritti umani, del rifiuto dei nazionalismi e delle chiusure protezionistiche.
L’Italia è oggi alla presidenza di turno di una delle sedi multilaterali più importanti, il G7, e cercherà di usarla anche in questo senso.
Nei prossimi giorni sarò in visita in Cina e poi in Russia, e nei miei incontri con il presidente Xi Jinping e con il presidente Putin cercherò, anche in qualità di presidente di turno del G7, di spingere in questa direzione. Perché questo è il ruolo dell’Italia. L’Italia è un Paese che può spingere per creare, tra questi grandi protagonisti, la comprensione dell’importanza di un rapporto di collaborazione, di amicizia, oltre che di cooperazione economica con la nostra Europa.
E in secondo luogo, il teatro dove questa nostra capacità di tessere il dialogo può e deve esercitarsi, oltre al multilateralismo, è quello della centralità del Mediterraneo.
Abbiamo lavorato, in questi anni, per riportare il Mediterraneo in cima alle agende multilaterali dell’Alleanza atlantica, dell’Unione Europea, dei grandi della terra. Oggi dobbiamo, io credo, non accontentarci di questo.
«Che cos’è il Mediterraneo? Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre»[15]. Sono parole del grande storico francese Fernand Braudel, tratte da un suo celebre saggio sul Mediterraneo. Parole che rendono appieno la straordinaria complessità di questo mare per noi così importante. Un mare che oggi si è preso una rivincita su quanti dicevano che sarebbe diventato marginale rispetto ai grandi oceani, dove si sarebbe trasferita la centralità della storia. La centralità della storia è in gran parte ancora qui, nel Mare Nostrum, tra le nostre civiltà, tra le nostre culture.
Oggi quel mare è l’epicentro di molte instabilità. Ma può essere di nuovo luogo di incontri e di opportunità, se sapremo far rivivere ancora quella «lingua franca», quel linguaggio comune tra popoli, se continueremo a costruire ponti e non muri, come è importante che anche l’Italia continui a fare.
È su questo che dobbiamo lavorare. A più di un secolo dagli accordi di Sykes-Picot, dobbiamo ricostruire delle basi di dialogo nel Mediterraneo. Ecco una sfida straordinaria, formidabile, per due entità geopolitiche così diverse come la Santa Sede e la Repubblica italiana.
Si è parlato, a proposito del Mediterraneo, della necessità di recuperare lo spirito degli accordi di Helsinki del 1975, o dell’urgenza di una nuova «pace di Westfalia», che regoli lo scenario regionale. Ognuno può scegliere i paragoni che preferisce; ma certamente è ora di ripartire dalla tessitura di elementi fondamentali: il riconoscimento reciproco dei confini, il riconoscimento delle diversità religiose, l’enfasi sulla cooperazione scientifica e culturale come premessa della collaborazione politica. Sono tutti elementi cruciali, sui quali i soggetti che fanno del dialogo e della solidarietà i pilastri della loro diplomazia possono lavorare.
Sono questi gli elementi sui quali si è costruita la strada del processo di Helsinki nel secolo scorso. E non a caso la Santa Sede decise di impegnarsi direttamente proprio nel processo di Helsinki, come soggetto protagonista di quel dialogo che portò alla trasformazione straordinaria del nostro continente in direzione della libertà e del benessere.
Così come allora, quell’impegno può continuare, e io credo possa andare avanti anche grazie al lavoro e al contributo di un Paese come l’Italia. Avendo tutti noi l’obiettivo – in momenti difficili nei quali il disordine e la tensione dominano ovunque – di ricreare le condizioni per ricostruire un tessuto al quale non vogliamo rinunciare. Questo è l’insegnamento che ci viene dalla nostra storia e dalla nostra storica collaborazione con la Santa Sede.
* * *
Prima degli interventi del Segretario di Stato e del Presidente del Consiglio, il direttore de «La Civiltà Cattolica», p. Antonio Spadaro, si è rivolto al pubblico con le seguente riflessione introduttiva:
Eminenza, Presidente, Ambasciatore,
grazie per questa bella opportunità di celebrare la pubblicazione del fascicolo 4000 de La Civiltà Cattolica in questa Ambasciata. Ringrazio tutti i presenti – personalità ecclesiastiche e civili, ambasciatori, colleghi giornalisti, amici – che hanno voluto celebrare con noi questo evento. Grazie.
La nostra rivista è nata prima dell’unità d’Italia, nel 1850, e accompagna le vicende del nostro Paese da 167 anni. Per questo mi piace dire che la rivista ha le sue radici saldamente piantate su due colli: il colle Vaticano e il colle Quirinale. Per questo i gesuiti della rivista sono stati ricevuti in Udienza dal Papa, lo scorso 9 febbraio, e dal presidente Mattarella, lo scorso 16 febbraio. Per questo oggi siamo qui, nell’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede. Per questo la presenza del Segretario di Stato vaticano e del Presidente del Consiglio italiano ci onora e ci incoraggia nel nostro impegno.
Consolidare il tessuto culturale del nostro Paese
«La crisi è globale», ci ha detto senza mezzi termini il Papa in un appello alla nostra rivista. E ha aggiunto: «Solo un pensiero davvero aperto può affrontare la crisi e la comprensione di dove sta andando il mondo, di come si affrontano le crisi più complesse e urgenti, la geopolitica, le sfide dell’economia e la grave crisi umanitaria legata al dramma delle migrazioni, che è il vero nodo politico globale dei nostri giorni».
E il presidente Mattarella, a sua volta, ci ha indicato un compito: «In una stagione come questa in cui c’è il rischio di un’informazione breve e superficiale che tralascia l’approfondimento delle questioni – ha affermato, incontrandoci –, c’è bisogno di una rivista che induce a riflettere, a coltivare lo spirito critico, ad approfondire. E questo è importante per mantenere solido il tessuto culturale su cui fondare la vita del nostro Paese».
Intendiamo impegnarci in questo senso in continuità con i nostri predecessori. Ecco perché abbiamo deciso insieme all’ambasciatore Mancini – amico e compagno di riflessione – di dedicare la celebrazione del fascicolo 4000 de La Civiltà Cattolica al tema della diplomazia dei ponti in un mondo di muri. Del resto, questo è stato l’augurio del Pontefice alla rivista, vergato in un chirografo: «Possa continuare ad essere una rivista ponte, di frontiera e di discernimento». La Civiltà Cattolica sia una «rivista ponte», non una «rivista muro», insomma, una rivista che intende consolidare il tessuto culturale del nostro Paese.
Matteo Ricci e Magellano: lo sguardo «estremo»
Il presidente Mattarella, nel suo viaggio in Cina, ha visitato la tomba del gesuita maceratese Matteo Ricci. E non è un caso che il presidente Xi Jinping abbia accolto a Pechino il nostro Capo dello Stato parlandogli di Prospero Intorcetta, gesuita siciliano di fine Seicento, grande esperto di Confucio. Papa Francesco ci ha dato come modello proprio Matteo Ricci. Questo gesuita di fine Cinquecento – che si trasferì in Cina a 30 anni – compose un grande mappamondo, raffigurando i continenti e le isole fino ad allora conosciuti. Così il popolo cinese poteva vedere raffigurate in forma nuova molte terre lontane. Ricci le ha pure nominate e le ha brevemente descritte.
«Ecco – ci ha detto il Papa –, con i vostri articoli anche voi siete chiamati a comporre un “mappamondo”: mostrate le scoperte recenti, date un nome ai luoghi». Il mestiere di giornalista – perché noi de La Civiltà Cattolica siamo anche giornalisti – qui è definito come quello di un costruttore di mappe geografiche che sa riconoscere spazi e distanze, e che sa dare un nome alle cose.
Interessante questa tendenza geografica e geopolitica del Papa. L’ha rivelata per altro in una sua intervista, dicendo che Magellano, arrivando alla fine del continente americano, capì che l’Europa, vista da lì, era un’altra cosa. Nella misura in cui usciamo e ci allontaniamo dal centro, scopriamo più cose e vediamo che la realtà è diversa. Ricordiamoci che idealmente Francesco ha visitato Strasburgo e le istituzioni europee partendo da Lampedusa e Tirana. E questo sguardo «estremo» si posa su tutto il globo con il desiderio di dialogare con tutti. È lo sguardo del grande crocifisso di legno che è giunto da Cuba alla parrocchia di Lampedusa tramite le mani di Francesco, collegando così due isole, due porte: d’Europa e d’America.
E anche il presidente Mattarella a Buenos Aires ha detto che «gli emigranti provenienti dagli antichi Stati peninsulari preunitari si sono riconosciuti italiani a Buenos Aires», e questo «prima ancora di essere cittadini del Regno d’Italia», costituendo colà istituzioni e organizzazioni comuni.
La periferia ha costituito il centro. L’ha intuito prima che fosse costituito. Vista da Buenos Aires, l’Italia era un’altra cosa. Lì «è stata custodita, sin dai momenti di crisi del processo unitario del Paese, la nostra identità».
Gli sguardi che il Pontefice e il Capo dello Stato ci indicano sono, dunque, quello di Matteo Ricci e di Magellano, l’estremo Oriente e l’estremo Occidente.
Una «rivista ponte»
La Civiltà Cattolica vuole avere questo sguardo aperto, inclusivo ed estremo, occupandosi di ogni materia: dalla politica alla storia, dal cinema alla psicologia, dall’arte alla scienza. Lo sguardo della frontiera. Non siamo solamente una rivista di «cultura cattolica», ma di «civiltà cattolica», come acutamente interpretò Giovanni Paolo II, incontrandoci nel 1982. «Civile – disse – è ciò che è umano».
La Civiltà Cattolica, dunque, deve essere capace di riconoscere la presenza di Dio nella realtà umana. E il nostro sguardo «cattolico» è stato ben definito dai nostri predecessori, che nel 1850 scrivevano: «Una Civiltà cattolica non sarebbe cattolica, cioè universale, se non potesse comporsi con qualunque forma di cosa pubblica».
Oggi la rivista raggiunge e doppia il capo dei 4000 fascicoli. I suoi redattori in questi 167 anni sono stati e sono rematori di una caravella che ha solcato il tempo. La rivista nasce internazionale nel 1850, diventa nazionale nel 1861, diventa nuovamente internazionale nei suoi contenuti e nei suoi autori nel 2017, rispondendo a un desiderio antico. Adesso, infatti, esce in inglese, francese, spagnolo e coreano. Speriamo anche in altre lingue nel prossimo futuro. E in tal modo la rivista collega continenti, popoli e visioni del mondo. Perché? Perché così davvero può essere ponte. Il ponte non è una casa. Il ponte è attraversato e fornisce il contesto del passaggio.
Ma soprattutto: la rivista diventa internazionale da Roma, luogo dove risiede non solamente un leader religioso importante, ma anche un leader morale e, in certo senso, politico di livello internazionale.
Grazie, dunque, per la preziosa opportunità di riflessione che oggi ci offrite. È il modo migliore per celebrare la storia della rivista culturale più antica d’Italia.
[1]. Tra i numerosi ospiti erano presenti il cardinale Lorenzo Baldisseri, il Prelato dell’«Opus Dei», mons. Fernando Ocáriz, il Preposito Generale della Compagnia di Gesù, p. Arturo Sosa, mons. Vincenzo Paglia, mons. Gianrico Ruzza, mons. Franco Croci. Presente il senatore a vita Mario Monti, oltre a numerosi parlamentari e rappresentanti delle Istituzioni. Hanno partecipato la Presidente della Comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello, e il Presidente della Comunità religiosa islamica, Sergio Yahya Pallavicini. Tra i rappresentanti del mondo accademico, il Magnifico Rettore dell’Università Salesiana, don Mauro Mantovano, dell’Università della Santa Croce, mons. Luis Navarro, dell’Ateneo Antonianum, suor Mary Melone, dell’Ateneo Sant’Anselmo, dom Flores Arcas osb. Presenti pure i rappresentanti diplomatici di Albania, Algeria, Angola, Argentina, Austria, Belgio, Brasile, Canada, Cile, Colombia, Corea, Egitto, El Salvador, Francia, Georgia, Giappone, Honduras, Irlanda, Libano, Marocco, Monaco, Nicaragua, Paesi Bassi, Panama, Polonia, Repubblica di Cina, Russia, San Marino, Serbia, Slovenia, Sovrano Militare Ordine di Malta, Stati Uniti, Tunisia, Turchia e Unione Europea.
[2]. «Quattromila quaderni de “La Civiltà Cattolica”», in Civ. Catt. 2017 I 313.
[3]. Francesco, Discorso alla Comunità de «La Civiltà Cattolica», Sala del Concistoro, Palazzo apostolico vaticano, 9 febbraio 2017.
[4]. H. A. Kissinger, L’ arte della diplomazia, Segrate (Mi), Sperling & Kupfer, 2012, 6.
[5]. Cfr M. Transylvanus – A. Pigafetta, Il Viaggio fatto da gli Spagniuoli a torno a’l mondo, Venezia, 1536.
[6]. Francesco, Discorso al Parlamento Europeo, Strasburgo, 25 novembre 2014.
[7] . Id., Discorso ai Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea in occasione del 60° anniversario della firma dei Trattati di Roma, Vaticano, 24 marzo 2017.
[8] . Ivi.
[9] . Ivi.
[10]. Ivi.
[11]. Id., Discorso ai partecipanti della «Rome Roundtable» della «Global Foundation», Vaticano, 13 gennaio 2017.
[12]. Id., Messaggio per la XLIX Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2016, n. 5.
[13]. Ivi.
[14]. A. Messineo, «Verso un’Europa unita?», in Civ. Catt. 1957 II 3.
[15]. F. Braudel, Il Mediterraneo. Lo spazio la storia gli uomini le tradizioni, Milano, Bompiani, 1987, 12.