|
In uno scritto polemico del 1766 Immanuel Kant parla del suo destino di essere innamorato della metafisica[1]. Pochi sono i lettori del filosofo di Königsberg che si sono preoccupati di chiedersi seriamente in che cosa consista questa passione fatidica. Al contrario, si continua a trasmettere da una generazione all’altra l’immagine stereotipa di Kant come di colui che ha distrutto la metafisica scolastica. Kant avrebbe contestato le prove dell’esistenza di Dio, avrebbe negato l’immortalità dell’anima e avrebbe smascherato l’ipotesi della libertà umana come un’illusione cosmologica. Sarebbe rimasto soltanto il misero resto di una fede pratica, troppo per la filosofia e troppo poco per la religione.
E tuttavia non è possibile dubitare che Kant stesso abbia considerato le cose in maniera del tutto diversa. Venti anni più tardi, nella prefazione alla seconda edizione della Critica della ragion pura, il filosofo dichiara espressamente di aver dovuto «mettere da parte il sapere, per far posto alla fede»[2]. Con il sapere che ha dovuto mettere da parte Kant non intende tanto alcuni contenuti specifici quanto piuttosto le fondazioni della metafisica tradizionale. Gli argomenti addotti da Leibniz e Wolff a favore, ad esempio, della sostanzialità e quindi anche della sopravvivenza dell’anima gli erano divenuti sempre più problematici. Nello stesso tempo egli attribuiva un grande valore esistenziale alla dottrina dell’immortalità, come pure dell’esistenza di Dio e della libertà dell’agire, per cui si sentiva molto fiero di aver riposto nella ragion pratica una capacità che rende accessibile la cognizione di quegli ambiti che restano chiusi alla conoscenza teoretica.
Lasciamo da parte il difficile problema di che cosa significhi esattamente che i contenuti della metafisica pratica di Kant non si possano conoscere ma si debbano credere, e occupiamoci dei contenuti per la cui accettazione egli si impegna. Vogliamo dedicare qui una particolare attenzione al primo postulato kantiano, la tesi dell’immortalità dell’anima. Mentre i temi dell’esistenza di Dio e della libertà umana hanno una notevole rilevanza anche nella filosofia odierna, lo stesso non si può dire per quello dell’immortalità. Certamente, la dottrina della risurrezione o eventualmente della reincarnazione appartiene al nucleo essenziale della fede delle diverse religioni, ma nell’ambito della filosofia l’anima immortale passa sotto silenzio.
Di fronte a questo fatto può essere interessante riflettere sui motivi che hanno indotto un filosofo come Kant a dedicare ampio spazio all’immortalità nella sua metafisica. Per anticipare già i risultati delle considerazioni che seguono, riteniamo sostanzialmente poco convincenti le argomentazioni di Kant al riguardo. Tuttavia nella sua filosofia pratica si trovano molti spunti che rendono attuale la tematica in una maniera diversa. Inoltre nel corso del nostro ragionamento toccheremo una serie di problemi rilevanti dal lato filosofico, come l’idea del sommo bene, il grado di virtù che noi uomini possiamo raggiungere, il ruolo della libertà nella morale e infine il rapporto tra virtù e felicità.
L’idea del sommo bene
Secondo una concezione abbastanza diffusa, il merito di Kant nei confronti della filosofia pratica consiste soprattutto nella elaborazione del cosiddetto imperativo categorico. Quest’ultimo costituisce per Kant l’unico fondamento di determinazione della buona volontà morale. Si può ritenere che compia il bene soltanto colui che ha deciso espressamente di conformare le massime del suo comportamento alla legge morale. L’etica di Kant non presuppone dunque un determinato concetto di bene, da cui si dovrebbero dedurre i doveri etici, ma Kant, al contrario, stabilisce anzitutto il principio morale fondamentale, da cui deriva poi l’idea di bene. La sua etica trova la propria origine nella coscienza individuale, o più precisamente nella voce della coscienza, che ci induce a non strumentalizzare un altro per realizzare i propri interessi, ma a considerare ogni persona come fine in se stesso, dotata di una dignità assoluta.
Kant tuttavia non si accontenta soltanto di riflettere sul dovere morale. Sollecitato dal suo amore per la metafisica egli si chiede ulteriormente quale sia l’oggetto del volere morale, cioè quale sia il senso del bene. Nella seconda metà della Critica della ragion pratica elabora la teoria del bene perfetto che deve orientare chi agisce moralmente. Benché egli chiami «sommo bene» questo oggetto della ragion pratica, seguendo in tal senso la tradizione classica, la sua idea si distanzia notevolmente dal summum bonum di Aristotele o di Tommaso d’Aquino. L’aspetto che la caratterizza più a fondo è che per Kant il sommo bene contiene due elementi distinti tra loro, vale a dire, da un lato, la virtù e, dall’altro, la felicità, ossia la beatitudine.
Nessuno contesterà certamente il fatto che l’idea del bene ha a che fare con la moralità. Per Kant «la perfetta adeguatezza dell’intenzione alla legge morale è la condizione suprema del sommo bene»[3]. Ma a questo riguardo può rimanere aperto anzitutto se per virtù si debba intendere in primo luogo un’intenzione irreprensibile oppure se si pensi alle singole azioni che ognuno compie in base ai suoi buoni intenti. In ultima analisi, una cosa condiziona l’altra, poiché come soltanto se si compie costantemente il bene si giunge alla virtù, così l’intenzione, se è animata dalla virtù, si manifesta sempre nelle opere buone. Nonostante qualche oscurità nei dettagli, di cui parleremo nel prossimo paragrafo, il primo elemento del sommo bene si inserisce bene quindi nell’immagine tradizionale di Kant come fautore del dovere morale assoluto.
Più difficile da capire è perché il sommo bene per Kant abbia a che fare necessariamente con la felicità dell’uomo. A prima vista con il discorso sulla beatitudine egli sembra introdurre un elemento estraneo nella sua filosofia pratica, fondata esclusivamente sul concetto di dovere morale. Ed effettivamente la felicità non va intesa come qualcosa il cui raggiungimento ci induce ad agire moralmente. Ciò che è bene sul piano morale dobbiamo compierlo soltanto perché è il bene o, come dice Kant, «per dovere». Tanto più sorprendente è la naturalezza con cui egli parla della felicità come di uno degli elementi che costituiscono l’oggetto della ragion pratica.
Su questo punto dobbiamo richiamarci alla tradizione. A cominciare da Aristotele i filosofi hanno ritenuto che l’eudaimonia sia una delle tendenze essenziali dell’uomo. Mentre gli antichi e i medievali hanno collocato su un piano spirituale la felicità da raggiungere, gli empiristi inglesi l’hanno fatta consistere nel piacere sensibile. Da quel momento in poi predomina spesso una concezione secondo la quale gli sforzi per soddisfare i nostri desideri e i nostri bisogni costituiscono un elemento essenziale della natura umana. Benché non sia nostra intenzione negare che queste fonti abbiano influenzato la concezione della felicità di Kant, crediamo che vi sia un motivo molto più verosimile in base al quale il sommo bene debba contenere una specie di sentimento di soddisfazione.
Per semplificare il discorso, richiamiamoci alla figura del buon samaritano del Nuovo Testamento. Senza che nessuno l’abbia costretto e senza pensare a un qualche tornaconto personale, questo samaritano assiste il giudeo aggredito dai briganti e giacente ferito sulla strada, e lo porta nella locanda più vicina. L’oggetto a cui tende la volontà del samaritano, secondo la parabola di Gesù, è senza dubbio il bene morale. Egli intende fare proprio ciò che prescrive la legge morale, cioè aiutare chi è nel bisogno. Tuttavia l’oggetto del suo volere non si esaurisce nel fatto che egli ravviva la sua buona intenzione e la mette in pratica. Il samaritano vuol fare qualcosa di più: tende in particolare a far sì che il ferito non soccomba alle piaghe, ma guarisca. Certamente, il raggiungimento di questo scopo dipende soltanto in parte dalla buona volontà del samaritano e perciò assume una rilevanza secondaria nel giudicare moralmente la sua azione. Un medico esperto, ad esempio, può prestare un soccorso più efficace rispetto a quello che può dare un viaggiatore di commercio. E l’esito dell’aiuto prestato dipenderà anche dalla gravità delle ferite. Ma sarebbe irragionevole pensare che il samaritano non abbia almeno il desiderio che il ferito possa essere aiutato realmente dal suo intervento.
Da parte nostra chiamiamo questo l’aspetto pragmatico della buona azione morale e riteniamo con ciò che ogni intenzione morale per necessità logica implichi la volontà di produrre realmente l’effetto che corrisponde a quella intenzione. Per raggiungere pienamente la virtù, è certo sufficiente che il samaritano faccia tutto quello che è in suo potere per salvare il ferito, ma il «sommo bene» implicito in questa situazione è ovviamente perfetto se quell’uomo aggredito dai briganti sta realmente meglio. Il raggiungimento di questo scopo, ossia il successo dell’agire morale, provocherà un sentimento di soddisfazione sia nel ferito sia nel samaritano: nel primo perché si sente meglio, nel secondo perché il suo agire ha raggiunto il risultato che si era proposto. A nostro giudizio è una esperienza di questo genere quella che Kant descrive con il concetto di bene. Egli definisce la felicità come «la condizione di un essere razionale nel mondo, a cui, nell’intera sua esistenza, tutto va secondo il suo desiderio e volere»[4]. Se un soggetto agisce secondo i princìpi morali, il concetto di bene include chiaramente il successo delle sue buone azioni. Se il concetto del sommo bene racchiudesse in sé soltanto l’elemento della moralità, sarebbe evidentemente incompleto.
La perfettibilità morale
La metafisica pratica di Kant prende le mosse dall’idea del sommo bene. Questa idea è un pensiero metafisico, in quanto non soltanto in essa sono collegati tra loro l’elemento della virtù e quello della beatitudine, ma perché la ragione ritiene che sia i due elementi sia il loro collegamento siano elevati alla più grande perfezione. Quasi come se conducesse una sorta di esperimento sul pensiero, Kant riflette sul problema di come ci si debba raffigurare l’oggetto ultimo o sommo di una ragione pratica che è sottoposta alle esigenze della legge morale. Inoltre egli riflette su quali siano le condizioni per cui un simile oggetto si possa veramente supporre. Detto in sintesi, l’idea di un sommo bene significa che la virtù perfetta può essere pensata unita alla felicità perfetta in maniera perfetta. Per poter capire l’argomentazione di Kant sull’immortalità dell’anima, tutto dipende dalla prima parte di questo asserto, cioè la perfezione della virtù. In che cosa consiste dunque la suddetta «perfetta adeguatezza dell’intenzione alla legge morale»?
Kant stesso più volte identifica la perfezione morale con la santità del volere. Ma nello stesso tempo sottolinea continuamente che l’uomo in quanto essere sensibile non può raggiungere mai completamente l’ideale della santità. Non vogliamo insistere qui sul fatto che l’affermazione di Kant vale al di là di ogni eccezione, perché come premessa del suo ragionamento è sufficiente che il lettore convenga che la propria virtù non è perfetta e non lo sarà neppure in futuro. A questo punto potrebbe sembrare opportuno abbandonare completamente l’idea della perfezione morale. Invece di tendere alla santità del volere, dovremmo accontentarci delle nostre possibilità limitate. Kant percorre però un’altra via. Egli chiede di adottare «un processo all’infinito, verso quell’adeguatezza completa», cioè la fede in «un’esistenza, e una personalità dell’essere razionale stesso, perduranti all’infinito»[5] . Con questo postulato dell’immortalità dell’anima Kant crea la possibilità di avvicinarsi infinitamente all’ideale di una volontà santa, senza che con questo il concetto del sommo bene si svuoti ai suoi occhi.
Il postulato di Kant dell’immortalità tende perciò a supporre un tempo della prova morale prolungato all’infinito. Su questo punto la concezione kantiana si differenzia significativamente da quella cristiana, per la quale la morte rappresenta l’ultimo punto possibile per la conversione. Ci si deve chiedere soprattutto se il postulato realizzi quello che Kant promette. Esaminiamo perciò più attentamente l’idea di un progresso morale infinito. Come già abbiamo detto, tra i presupposti del ragionamento di Kant c’è anche quello che nessuno raggiunge mai lo stato della virtù perfetta. Ciò significa anzitutto che ogni uomo, in qualsiasi momento della sua esistenza, può compiere il male. Anche un alto grado di virtù non preserva dal trasgredire la legge morale, almeno in qualche caso. Proprio al contrario, è elemento essenziale della moralità che tutte le azioni morali siano libere e perciò fra un istante io posso commettere qualcosa di sbagliato. Il progresso infinito non toglie nulla perciò alla possibilità di cadere nel vizio. La crescita della virtù non elimina per nulla la libertà verso il male. Anche se in senso kantiano fossimo immortali e progredissimo costantemente in meglio, a rigor di termini questa condizione non muterebbe mai.
La supposizione kantiana di un avvicinamento asintotico alla perfezione conduce inoltre a un’altra conseguenza sgradita. Se è vero che il mio agire non corrisponde in nessun momento all’ideale della santità, allora ogni giorno aumenta la quantità del male che commetto. Quanto più mi avvicino alla virtù, tanto più ristretta diventa certamente la mia quota relativa di cattive azioni; ma il risvolto negativo del progresso infinito consiste nel fatto che la quantità del male di cui sono responsabile cresce sempre di più. Ora, Kant ritiene espressamente che almeno agli occhi di Dio il continuo progresso verso il meglio appare come virtù perfetta. Dio «scorge in questa serie, per noi infinita, il tutto dell’adeguatezza alla legge morale»[6]. Ma la conseguenza non è per nulla cogente. Con lo stesso diritto si potrebbe concludere che Dio abbraccia con un solo sguardo la totalità delle nostre opere cattive e perciò l’inadeguatezza dell’intenzione alla legge morale. La supposizione dell’immortalità non adempie perciò la funzione per la quale Kant introduce il postulato. Non si riesce a capire come l’esistenza perdurante all’infinito possa risolvere la difficoltà dell’imperfezione morale dell’uomo. L’ipotesi dell’immortalità quindi non aiuta a concepire la virtù perfetta quale primo elemento del sommo bene.
Virtù e felicità
Nonostante questo giudizio disincantato, sarebbe errato ritenere del tutto fallito il progetto di Kant di costruire una metafisica pratica. È invece opportuno riflettere in maniera nuova sul concetto del sommo bene. Kant stesso ha dato il titolo di «Dialettica» alla sezione corrispondente della Critica della ragion pratica, perché egli vi tratta le contraddizioni e le tensioni che esistono tra virtù e felicità. Mentre la moralità dipende soltanto dalla libera volontà del soggetto, quando si parla di felicità sembra che si tratti di qualcosa che l’uomo può raggiungere con le proprie forze soltanto in maniera condizionata. I motivi al riguardo sono diversi. In primo luogo la nostra felicità dipende da molti fattori esterni che si sottraggono al nostro controllo. Nonostante tutti i progressi della scienza e della tecnica, l’umanità è ancora molto lontana dal poter dominare e influenzare il corso della natura, in modo da evitare il dolore e la sofferenza. Spesso sono proprio gli uomini a ostacolare vicendevolmente la loro felicità. Le cattive azioni degli uni comportano inevitabilmente conseguenze sul benessere degli altri. Kant accenna anche a un altro motivo, spesso trascurato: il fatto che normalmente non sappiamo ciò di cui abbiamo bisogno per essere felici un momento dopo. Anche se potessimo realizzare immancabilmente tutte le nostre intenzioni, la nostra felicità non sarebbe per questo ancora perfetta. Il benessere durevole dell’uomo naufraga non soltanto a causa delle sue limitate possibilità fisiche o per mancanza di buona volontà, ma anche perché egli non può conoscere quali siano le condizioni che gli permettono di essere veramente felice e soddisfatto.
Di fronte a questo dato di fatto l’idea del sommo bene si rivela ancora una volta problematica. Che cosa ci dovrebbe autorizzare a supporre che vi sia una qualche connessione tra felicità e morale? Chi o che cosa potrebbe assicurarci che le nostre buone azioni raggiungono realmente il loro scopo? Come si può escludere che alla fin fine abbiano successo proprio coloro a cui non importa nulla della virtù? Per Kant felicità e morale si possono pensare in unità soltanto a condizione che esista un Dio «che contenga il fondamento di quella connessione, cioè dell’adeguarsi esatto della felicità alla moralità» [7]. Soltanto Dio è in grado di creare il mondo con il suo ordine naturale e, nello stesso tempo, di aiutare gli uomini a raggiungere la felicità secondo le loro buone intenzioni. Non la ragione teoretica ma quella pratica fornisce perciò il fondamento per le nostre convinzioni metafisiche.
La metafisica pratica di Kant si fonda sulla supposizione che vi sia una corrispondenza totale tra l’ordine fisico della natura e l’ordine morale del volere e del dovere. La tesi dell’armonia è alla radice dell’idea del sommo bene e agli occhi di Kant si può sostenere soltanto per il fatto che la ragione riconosce Dio come creatore del mondo e dell’uomo. Diversamente dalle prove tradizionali dell’esistenza di Dio, il postulato kantiano non si fonda su princìpi teoretici, come quello di causalità, ma deriva dalla riflessione sul senso ultimo dell’agire per dovere. Se non vi fosse nessuna speranza in una compensazione tra felicità e virtù, ma se dipendesse soltanto dal caso il fatto che il nostro agire morale sia coronato da successo, ciò non nuocerebbe certamente al dovere morale, ma rivelerebbe che il concetto del sommo bene è un’illusione. Nella metafisica di Kant si tratta perciò non di alcune convinzioni scelte più o meno arbitrariamente, ma della conformità della ragion pratica con se stessa.
Partendo dalla tesi dell’armonia, vale la pena dare ancora uno sguardo ai due elementi che costituiscono l’idea del sommo bene. Come deve reagire la ragione di fronte al fatto che la virtù umana non è mai perfetta? La riflessione sul postulato kantiano dell’immortalità ha concluso che un’esistenza che continua all’infinito acuisce il problema, anziché risolverlo, poiché l’uomo in ogni momento possiede la libertà di scegliere nuovamente il male, e poiché la quantità di cattive azioni che si accumulano nel corso di una vita cresce continuamente. Per questi due motivi si può ritenere addirittura che sia un privilegio il fatto che l’uomo non esista eternamente, ma che il tempo delle scelte rilevanti sul piano morale abbia termine con la morte. Poiché tuttavia la morte non fa in modo che il male compiuto durante la vita sia inesistente, l’uomo non può evidentemente realizzare da se stesso la pretesa kantiana di una perfetta adeguatezza dell’intenzione alla legge morale.
Rimane dunque come unica via di uscita la speranza che Dio perdoni all’uomo la sua colpa. Kant non intende rassegnarsi per nulla a una simile soluzione, perché a suo giudizio ogni genere di indulgenza e condono contrasterebbe con la giustizia divina[8]. Il fallimento della sua argomentazione sull’immortalità dell’anima dovrebbe costituire però un motivo sufficiente per prendere seriamente in considerazione l’alternativa da lui esclusa. È davvero più «ragionevole» pensare a un progresso morale continuo dell’uomo piuttosto che confidare che la giustizia di Dio possa sussistere assieme alla sua misericordia? Anche se per ipotesi non si potesse dare alcuna risposta filosofica definitiva a questa domanda, dovrebbe essere chiaro che l’idea della perfezione morale non conduce necessariamente alla fede nell’immortalità, ma può ugualmente suscitare una riflessione approfondita sul fatto che l’uomo è soggetto al perdono e sull’esistenza di un Dio misericordioso.
Se consideriamo ora l’altro elemento del sommo bene, la felicità, ci si prospetta quasi un’immagine opposta. Come abbiamo visto, Kant postula l’esistenza di Dio come condizione necessaria perché vi sia corrispondenza tra l’ordine fisico e quello morale. Se non vi fosse Dio, non vi sarebbe motivo di ritenere che il nostro agire morale eserciti un influsso determinante sul bene dell’umanità. È strano che Kant prenda così poco in considerazione il fatto che l’armonia tra moralità e felicità, insita nel concetto del sommo bene, trovi così scarso riscontro nella nostra esperienza quotidiana. Come mostra a sufficienza la lunga storia del dibattito sulla teodicea, la realtà offre numerosi esempi che inducono a dubitare non soltanto della misericordia di Dio, ma anche della sua giustizia. L’ammissione dell’esistenza di Dio non è per nulla sufficiente ad assicurare che virtù e felicità si corrispondano sempre. Quello che sappiamo del mondo fisico va contro la supposizione che tutti gli uomini raggiungano realmente un grado di felicità corrispondente alla loro intenzione morale.
Come già nel caso della perfezione morale, anche qui si offre la soluzione di mettere da parte completamente l’idea del sommo bene e di lasciar cadere la speranza nella felicità. Chi invece persiste nel ritenere che il sommo bene sia raggiungibile e con Kant continua a supporre che la felicità sia lo stato di un essere razionale «a cui, nell’intera sua esistenza, tutto va secondo il suo desiderio e volere», costui dovrebbe pensare che la sua esistenza nella sua totalità non si limiti alla vita terrena. Invece di ricorrere all’immortalità come condizione del progresso morale, è molto più ovvio vedere in essa la condizione per la vera felicità. Questa proposta non è una magra consolazione proiettata sull’aldilà, ma il tentativo di fare chiarezza sull’oggetto dalla nostra ragion pratica.
Poiché l’uomo non è soltanto obbligato moralmente a fare il bene, ma vuole anche raggiungere realmente questo bene, si pone il problema di ciò che resta al di là del dovere morale e delle condizioni metafisiche soggiacenti alle nostre possibilità fisiche perché si possa realizzare questo bene. La considerazione che Kant propone al riguardo suona così: la corrispondenza tra moralità e felicità, insita nell’idea del sommo bene, può essere pensata come possibile soltanto se si suppone che esista un Dio personale. Tuttavia, poiché non sempre la beatitudine viene raggiunta in questo mondo fisico da colui che agisce moralmente, anche la continuazione dell’esistenza oltre la morte va verso ciò che è pensabile sul piano filosofico. Se si suppone l’immortalità dell’anima, non ne deriva, come riteneva Kant, un’ulteriore occasione di dimostrare la propria virtù, ma si rivela possibile il secondo elemento del sommo bene, la felicità. A questa maniera ancora una volta si può constatare come le riflessioni di Kant sul concetto del sommo bene conducano effettivamente a valide prospettive metafisiche. Anche chi non condivide le sue conclusioni, dovrà confrontarsi almeno con le sue argomentazioni che qui abbiamo presentato. In ogni caso dovrebbe risultare chiaro che la tematica dell’immortalità dell’anima non può rimanere estranea al problema di una vita buona.
Copyright © La Civiltà Cattolica 2012
Riproduzione riservata
***
[1] Cfr I. Kant, Sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica, in Scritti precritici, Roma – Bari, Laterza, 1982, 399.
[2] Id., Critica della ragion pura, Milano, Bompiani, 2004, 51.
[3] Id., Critica della ragion pratica, Milano, Bompiani, 2004, 261
[4] Ivi, 267.
[5] Ivi, 261.
[6] Ivi, 263.
[7] Ivi, 267.
[8] Cfr ivi, 265.