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Introduzione
Karl Rahner, sebbene non conoscesse personalmente l’America Latina, aveva un fine olfatto per i nuovi apporti teologici e per questo curò un paio di libri dedicati a due di essi provenienti da quel continente: Teología liberadora e Religión popular – Religión del pueblo[1]. Il primo affrontava la teologia della liberazione. Per quanto riguarda il secondo tema, non era stato trattato dal Concilio Vaticano II, ma era sorto come tale a partire dalla realtà latinoamericana e dalla pastorale e dalla riflessione postconciliari, soprattutto in Argentina. Oggi Papa Francesco, che conosce per esperienza questo tema, gli ha dato particolare rilievo nell’Esortazione Evangelii gaudium (EG), riprendendo l’impostazione del Documento di Aparecida (Brasile, 2007) della V Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano e caraibico: infatti in quell’Esortazione tratta — ma adesso a un livello universale — di «spiritualità» e di «mistica» popolari.
Questo articolo si propone di rispondere, seguendo la prospettiva di entrambi i documenti, alla domanda sul soggetto: se, oltre all’ovvio soggetto personale di tale spiritualità e mistica, si possa parlare anche di un soggetto collettivo, e come lo si debba intendere.
Dalla religiosità popolare alla mistica popolare
Quantunque la religiosità popolare in America Latina risalga alla prima evangelizzazione e al meticciato culturale della sua fondazione, la teologia non aveva riflettuto sul tema fino a dopo il Vaticano II. In questo cambiamento hanno svolto un ruolo chiave le riflessioni pastorali teologiche e interdisciplinari della Commissione pastorale episcopale — creata dall’episcopato argentino dopo il Concilio —, guidata dai professori della Facoltà di Teologia di Buenos Aires Lucio Gera e Rafael Tello[2].
Più tardi, a quanto pare sono stati alcuni vescovi sudamericani — ispirati da questa nascente «teologia del popolo» — a portare il tema al Sinodo sull’evangelizzazione (1974). Esso fu quindi assunto da Paolo VI nella sua Esortazione postsinodale Evangelii nuntiandi, al n. 48. Questo documento segna un passaggio importante nella sua descrizione pastorale: infatti la denomina non tanto «religiosità popolare» o «religione del popolo», bensì «pietà popolare».
Il Documento della III Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano (Puebla, 1979), che applica l’Esortazione pontificia all’America Latina, riconosce il cattolicesimo popolare latinoamericano come «incarnazione del Vangelo» nella cultura. Uno dei redattori principali della sezione «Evangelizzazione della cultura» fu il già citato Gera, mentre quella dedicata alla «Religiosità popolare» si deve al padre schöenstattiano cileno Joaquín Alliende, che su questo punto aderiva a quella che egli aveva denominato «scuola argentina di pastorale popolare»[3].
La IV Conferenza (Santo Domingo, 1992) parla già esplicitamente di «inculturazione», e prosegue sul percorso tracciato. Ma sarà Aparecida (2006) a esplicitare un nuovo carattere della pietà popolare, parlando a più riprese di «spiritualità popolare», e una volta di «mistica popolare»[4]. Nel frattempo, infatti, il teologo peruviano Gustavo Gutiérrez, considerato il «padre» della teologia della liberazione, aveva scritto — fra le altre — notevoli pagine sulla spiritualità popolare, e il gesuita argentino Jorge Seibold aveva forgiato il concetto di «mistica popolare»[5]. Esso fu usato ad Aparecida da vescovi argentini, e venne poi assunto nel Documento dal Comitato di redazione presieduto dal cardinale Bergoglio.
Si è pertanto compiuto un itinerario di rivalutazione pastorale e teologica della religiosità popolare, finché il magistero universale ora la considera — in EG — «luogo teologico» e le affida un ruolo chiave riguardo alla nuova evangelizzazione[6].
La questione del soggetto: personale e comunitario
Nell’opera citata, Gutiérrez sottolinea che quella spiritualità riguarda «il percorso di tutto un popolo» — non soltanto di individui —, come nei casi di Israele nel deserto e della Chiesa primitiva, secondo il libro degli Atti[7]. Sicché applica al nostro caso ciò che Giovanni Paolo II afferma in Dives in misericordia, n. 4, sull’esperienza del popolo ebraico, tanto «sociale e comunitaria, come pure individuale e interiore». Allo stesso modo, gli scritti inediti del succitato Rafael Tello, che di recente hanno cominciato a vedere la luce, trattano degli atti e dell’abito delle virtù teologali, specialmente della fede, vissuti non soltanto personalmente, ma anche comunitariamente, quando, per esempio, egli espone «il cristianesimo popolare secondo le virtù teologali» (1966)[8]. Si pone, quindi, il problema di comprendere questa esperienza teologale in quanto collettiva, dai punti di vista sia teologico sia filosofico.
Seibold si è soffermato molte volte sulla «mistica popolare», esaminando eventi non infrequenti nella pietà popolare latinoamericana. Eppure, quando si dedica a spiegare il momento mistico, egli torna a valersi, a ragione, delle esperienze di santa Teresa o di san Giovanni della Croce, ma senza considerare la dimensione comunitaria in quanto tale. Piero Coda, in studi non correlati con la pietà popolare, confronta la mistica del santo carmelitano con quella contemporanea di Chiara Lubich, aprendo nuove piste di riflessione[9]. Per quest’ultima esiste una quarta notte oscura, quella culturale — pertanto, vissuta socialmente —: la cella giovannea è l’altro — e non quella di un convento —, e la figura di «Gesù in mezzo» aiuta a comprendere la comunità ecclesiale e quella dei focolari come comunità in quanto tali.
Tutti questi elementi potranno aiutarci a gettare luce sulle prospettive che Papa Francesco adotta quando tratta la mistica popolare non come individuale, ma come comunitaria, senza che per questo sia una realtà meno strettamente personale.
Spiritualità e mistica popolari nell’«Evangelii gaudium»
Per Papa Francesco, la Chiesa è un mistero che ha le sue radici nella Trinità stessa, come già affermava il Vaticano II nei primi paragrafi della Lumen gentium, Costituzione dogmatica sulla Chiesa, e della Ad gentes, sulle missioni; ma questo mistero si concretizza nella storia, nel Popolo fedele di Dio, pellegrino ed evangelizzatore, che trascende i suoi aspetti istituzionali[10].
Per questo il Papa intreccia di frequente pneumatologia trinitaria ed ecclesiologia, vale a dire, da un lato, l’iniziativa divina con l’azione da protagonista dello Spirito Santo e, dall’altro, la sua azione nel Popolo di Dio come soggetto collettivo: per esempio, quando ci chiede di restare «in ascolto dello Spirito, che ci aiuta a riconoscere comunitariamente i segni dei tempi»[11].
Allo stesso modo, i due aspetti ritornano, con la priorità di quello pneumatologico, quando egli tratta dell’evangelizzazione delle culture e della sua traduzione in pietà popolare, anzitutto quella dei poveri. È così che, riferendosi al «sostrato cristiano di alcuni popoli, soprattutto occidentali», e al fatto che «qui troviamo, specialmente tra i più bisognosi, una riserva morale che custodisce valori di autentico umanesimo cristiano», egli lo attribuisce a «ciò che semina lo Spirito Santo» e al battesimo che la maggior parte della popolazione ha ricevuto. Di conseguenza, «qui bisogna riconoscere molto più che dei “semi del Verbo”» [12], ovvero contemplarne i frutti[13].
Ma non si tratta di ogni individuo preso da solo e sommato agli altri, bensì del popolo in quanto popolo, considerato comunitariamente, come soggetto collettivo di cultura; infatti, come constata il Papa, una cultura evangelizzata ha molte più risorse che non una mera somma di credenti davanti agli attacchi del secolarismo attuale, e «possiede una sapienza peculiare»[14].
Questa sapienza popolare può essere interpretata come indivise et inconfuse teologale e umana. Infatti essa è, al tempo stesso, operata comunitariamente dallo Spirito come frutto dell’inculturazione del Vangelo in un popolo, e sorge naturalmente dal popolo, poiché la sapienza teologale s’incarna nella sua sapienza umana. Infatti la grazia non presuppone soltanto la natura, ma anche la cultura, e in essa prende carne[15]. Notiamo che il soggetto di una cultura non è soltanto ogni individuo preso separatamente, ma piuttosto si tratta, in primo luogo, dello «stile di vita di un popolo»[16].
Il Papa fa esplicito riferimento a questo tema come a qualcosa che è ovviamente connesso con la sapienza e con la cultura popolari, dopo aver riconosciuto che esse non poche volte evidenziano debolezze: «Ma è proprio la pietà popolare il miglior punto di partenza per sanarle e liberarle»[17]. Con ogni evidenza egli sottintende che il soggetto di quella pietà è collettivo: il Popolo fedele inculturato, vale a dire incarnato nei popoli della terra, ciascuno dei quali possiede la propria peculiare cultura[18]. Essa s’incarna grazie all’azione gratuita dello Spirito in tutti e in ciascuno, secondo l’analogia con l’incarnazione del Verbo.
Tuttavia Papa Francesco distingue chiaramente questa pietà dal cristianesimo delle devozioni, individualista e sentimentale. I criteri per distinguerli rinviano alla dimensione comunitaria, poiché sono la preoccupazione per la promozione sociale e per la formazione dei fedeli[19]. Infatti Dio «ha scelto di convocarli [gli esseri umani] come popolo e non come esseri isolati. Nessuno si salva da solo, cioè né come individuo isolato né con le sue proprie forze. Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che comporta la vita in una comunità umana» (EG 113).
L’umanità non è una somma di individui, ciascuno per conto suo, ma è caratterizzata storicamente da diversi popoli[20], reciprocamente correlati, ciascuno soggetto della propria cultura; e Dio convoca tutti coloro che appartengono a questi popoli per delineare il suo Popolo fedele, che è la Chiesa. Pertanto «la nozione di cultura è uno strumento prezioso per comprendere le diverse espressioni della vita cristiana presenti nel Popolo di Dio»[21]. Essa possiede, quindi, una funzione ecclesiologica e pastorale, oltre che sociologica o etnologica. Serve infatti per riflettere e per mettere in pratica il «volto pluriforme» della Chiesa, opera dell’unico Spirito del Padre e del Figlio incarnato.
«Quando una comunità accoglie l’annuncio della salvezza, lo Spirito Santo ne feconda la cultura con la forza trasformante del Vangelo. In modo che, come possiamo vedere nella storia della Chiesa, il cristianesimo non dispone di un unico modello culturale, bensì, “restando pienamente se stesso, nella totale fedeltà all’annuncio evangelico e alla tradizione ecclesiale, esso porterà anche il volto delle tante culture e dei tanti popoli in cui è accolto e radicato” (Novo Millennio Ineunte, n. 40). Nei diversi popoli che sperimentano il dono di Dio secondo la propria cultura, la Chiesa esprime la sua autentica cattolicità e mostra “la bellezza di questo volto pluriforme” (ibidem). Nelle espressioni cristiane di un popolo evangelizzato, lo Spirito Santo abbellisce la Chiesa, mostrandole nuovi aspetti della Rivelazione e regalandole un nuovo volto» (EG 116).
Notiamo che si tratta di bellezza che attrae, ma anche di verità che riluce, perché in questo modo si scoprono elementi ancora inespressi della stessa Rivelazione, vale a dire un altro lineamento del volto di Cristo, alla luce dello Spirito che continua a «incarnarlo» nell’umanità.
Come già si è detto, le radici ultime di questa pluralità nell’unità (di comunione) di un medesimo soggetto comunitario — di un noi-Popolo di Dio — si trovano nella Trinità stessa, sicché Papa Francesco aggiunge: «Se ben intesa, la diversità culturale non minaccia l’unità della Chiesa. È lo Spirito Santo, inviato dal Padre e dal Figlio, che trasforma i nostri cuori e ci rende capaci di entrare nella comunione perfetta della Santissima Trinità, dove ogni cosa trova la sua unità. Egli costruisce la comunione e l’armonia del Popolo di Dio. Lo stesso Spirito Santo è l’armonia, così come è il vincolo d’amore tra il Padre e il Figlio. Egli è Colui che suscita una molteplice e varia ricchezza di doni e al tempo stesso costruisce un’unità che non è mai uniformità, ma multiforme armonia che attrae. L’evangelizzazione riconosce gioiosamente queste molteplici ricchezze che lo Spirito genera nella Chiesa» (EG 117).
Ma non sono soltanto la pneumatologia e la teologia trinitaria a illuminare questa ecclesiologia del Popolo di Dio — soggetto comunitario della chiamata divina e dell’evangelizzazione — nei e a partire dai popoli della terra (soggetti comunitari di cultura): essa riceve luce anche dalla cristologia, come già appariva nell’analogia dell’inculturazione e nella menzione dei semi e dei frutti del Verbo. Infatti, seguendo il filo del medesimo pensiero, Papa Francesco aggiunge: «Non farebbe giustizia alla logica dell’incarnazione pensare ad un cristianesimo monoculturale e monocorde»[22].
Qualche paragrafo più avanti Francesco farà esplicita menzione di «soggetti collettivi attivi»[23], riferendosi ai popoli e implicitamente al Popolo fedele — in quanto esso come tale annuncia comunitariamente il Vangelo — e alla sua pietà popolare. Infatti «possiamo pensare che i diversi popoli nei quali è stato inculturato il Vangelo sono soggetti collettivi attivi, operatori dell’evangelizzazione. Questo si verifica perché ogni popolo è il creatore della propria cultura e il protagonista della propria storia. […] Quando in un popolo si è inculturato il Vangelo, nel suo processo di trasmissione culturale trasmette anche la fede in modi sempre nuovi; da qui l’importanza dell’evangelizzazione intesa come inculturazione. […] Si può dire che “il popolo evangelizza continuamente se stesso”» (EG 122).
La riflessione sull’evangelizzazione della cultura di un popolo e quella sull’inculturazione del Vangelo in essa[24] sfociano naturalmente nella menzione della religiosità evangelizzata ed evangelizzatrice, propria del Popolo del Signore, inteso a sua volta come soggetto e agente comunitario, sotto la guida dello Spirito. Di conseguenza, il Papa prosegue dicendo: «Qui riveste importanza la pietà popolare, autentica espressione dell’azione missionaria spontanea del Popolo di Dio. Si tratta di una realtà in permanente sviluppo, dove lo Spirito Santo è il protagonista» (EG 122).
Nell’azione protagonista della terza persona della Trinità il Papa lega, da un lato, l’azione dei popoli del mondo evangelizzati e, dall’altro, quella del Popolo di Dio incarnato in essi, perché riconosce che quest’ultimo è laos ex ethnōn[25], ovvero «popolo formato a partire da popoli», senza confondere l’uno e gli altri, ma anche senza separarli, se i secondi sono evangelizzati nelle rispettive culture. Per questo Papa Francesco aggiunge immediatamente: «Nella pietà popolare si può cogliere la modalità in cui la fede ricevuta si è incarnata in una cultura e continua a trasmettersi»[26].
Più avanti tratteremo di come il Papa pone il problema attuale delle società multiculturali, quando affronta il tema della città pluriculturale.
I paragrafi successivi sono dedicati a questa pietà, e fanno riferimento alla sua rivalutazione da parte di Paolo VI e di Benedetto XVI. Citando l’ultima Conferenza dell’episcopato latinoamericano, utilizzano le denominazioni che danno il titolo a questo articolo: «Nel Documento di Aparecida si descrivono le ricchezze che lo Spirito Santo dispiega nella pietà popolare con la sua iniziativa gratuita. […] I Vescovi la chiamano anche “spiritualità popolare” o “mistica popolare” (Documento di Aparecida, n. 262). Si tratta di una vera “spiritualità incarnata nella cultura dei semplici”» (EG 124).
E, senza citarlo esplicitamente, il testo riprende le considerazioni e i commenti di Enrique Ciro Bianchi sulla teologia di Rafael Tello a proposito del «cristianesimo popolare secondo le virtù teologali», in cui quest’ultimo si serve delle categorie tomiste per pensare la fede[27].
Inoltre il Papa si riferisce alla mediazione simbolica e ai pellegrinaggi, entrambi fenomeni caratteristici della cultura popolare in quanto essa è propria di un soggetto collettivo. Infatti, da un lato, afferma che quella spiritualità scopre ed esprime i contenuti attraverso la via simbolica, non usando la ragione teorica, e che nell’atto della fede accentua il credere in Deum (credere in Dio, confidando in lui e amandolo) sul credere Deum (credere ciò che egli ha rivelato su di sé); dall’altro, avvalora «il camminare insieme verso i santuari» come gesto credente ed evangelizzatore[28].
E, come aveva già fatto prima, Papa Francesco ricorre alla conoscenza per connaturalità (come la teorizza san Tommaso) per spiegare il suo pensiero. Questo mostra che si tratta di una chiave importante per coglierlo. È chiaro che qui non si tratta — come prima — del soggetto comunitario popolare[29], ma dell’altra faccia della medaglia, ovvero quella del suo pastore, il quale conosce, «dalla connaturalità affettiva che l’amore dà», che quella pietà, specie nei più poveri, è manifestazione di vita teologale e, perciò, dono dello Spirito Santo[30]. Pertanto «le espressioni della pietà popolare hanno molto da insegnarci e, per chi è in grado di leggerle, sono un luogo teologico a cui dobbiamo prestare attenzione, particolarmente nel momento in cui pensiamo alla nuova evangelizzazione» (EG 126).
Questa affermazione corona e, per adesso, costituisce il culmine di quanto è stato detto in precedenza dal magistero degli ultimi Papi e da quello episcopale latinoamericano riguardo al tema che trattiamo.
Più ancora, si direbbe che la «mistica popolare» stia molto a cuore a Papa Francesco, perché poi egli torna a riferirvisi nel momento meno prevedibile, quando applica alla «totalità o integrità del Vangelo» il principio per cui «il tutto è più della parte, ed è anche più della loro semplice somma»[31], nella linea del testo già citato sul fatto che una cultura evangelizzata è di più e ha più resistenza che non la mera somma dei credenti[32]. Poi egli completa queste considerazioni dicendo: «La “mistica popolare” accoglie a suo modo il Vangelo intero e lo incarna in espressioni di preghiera, di fraternità, di giustizia, di lotta e di festa. […] Il Vangelo possiede un criterio di totalità che gli è intrinseco: non cessa di essere Buona Notizia finché non è annunciato a tutti, finché non feconda e risana tutte le dimensioni dell’uomo, e finché non unisce tutti gli uomini nella mensa del Regno. Il tutto è superiore alla parte» (EG 237).
Di questo testo così ricco considereremo ora solamente ciò che si riferisce alla suddetta mistica. Questa infatti non comprende soltanto i momenti di preghiera comune o di celebrazioni e feste comunitarie, ma tutta la vita cristiana completamente trasfigurata dallo Spirito, che opera sia personalmente sia comunitariamente in tutte le dimensioni umane. Lo Spirito opera comunitariamente attraverso la sua azione al tempo stesso personale e interpersonale in e da Cristo Capo. Sicché i cinque sostantivi scelti dal Papa per la sua descrizione: «preghiera, fraternità, giustizia, lotta e festa», nel loro insieme e singolarmente, vanno interpretati secondo entrambe le chiavi, quella della comunità e quella di ogni individuo, nella loro reciproca interazione e ricezione, poiché tutti accolgono attivamente l’iniziativa dello Spirito, protagonista principale dell’evangelizzazione. Nemmeno in questo caso si deve applicare la figura della sfera, ma quella del poliedro[33].
Come comprendere il soggetto comunitario della spiritualità popolare?
Quando Paolo VI parla dell’evangelizzazione delle culture, si riferisce anche alla «coscienza collettiva»[34]. E, seguendo la stessa linea, Papa Bergoglio affronta sia il Popolo fedele di Dio sia i popoli come «soggetti collettivi attivi»[35], cosa che alla luce della teologia risulta indubbia. Ma quando, in questo contesto, si parla di «coscienza», «soggetto», «agente», «evangelizzatore» e così via, che cosa ci dice una riflessione filosofica? Non si tratta forse di pure metafore? Esiste, nell’uso individuale e collettivo di quei sostantivi, una vera analogia intrinseca, o piuttosto si scade in una certa equivocità?
Per chiarirlo, faremo riferimento in primo luogo all’interpretazione di Gerard Whelan su come Bernard Lonergan pensa il soggetto plurale di una cultura comune, applicandola al nostro problema. Poi commenteremo il rigetto di Paul Ricœur del plus di spirito hegeliano per pensare il «noi» come soggetto comunitario, accettandone la critica a Hegel. Questo ci darà spunto non soltanto per approfondire la già citata analogia del poliedro — opposta al modello sferico hegeliano —, ma anche per rispondere alla domanda sulle società multiculturali, ovvero se questa figura possa o non possa essere applicata anche ad esse.
Il soggetto comunitario e storico della cultura secondo Lonergan
Nel suo studio ancora inedito su «Pope Francis, Bernard Lonergan, and contextual Theology», Whelan spiega la comunitarietà del soggetto di una cultura secondo Lonergan, in base alle quattro operazioni trascendentali esposte da questo pensatore, ovvero: esperienza, insight, giudizio e decisione. Infatti, un’esperienza comune porta a intellezioni (insights) comuni, e queste a giudizi di realtà e di valore condivisi; e infine questi portano a opzioni comuni, in modo che si ottiene un «senso comune» proprio di una società determinata[36]. Pensiamo che questa sia una buona base per proporre la nostra questione, anche se forse, seguendo lo stesso Lonergan, occorrerà fare un passo ulteriore dal comune al comunitario.
Il Papa spiega che la spiritualità popolare si esprime soprattutto con simboli[37]. Dunque, se applichiamo quanto detto a simboli condivisi, soprattutto religiosi, ma anche nazionali, politici o sportivi e via dicendo, e agli stati d’animo affettivi che essi inducono — per esempio, la venerazione di una stessa immagine di Cristo o della Vergine, la partecipazione a un pellegrinaggio o a una processione, la celebrazione di una festa popolare —, si direbbe che non si tratti soltanto di un fenomeno comune, ma che si tratti anche di un fenomeno comunitario, così che le persone non lo condividono soltanto in quanto individui, ma anche in quanto comunità interpersonale, secondo una cultura comune, vale a dire secondo uno stesso «mondo di significato e di valore» (Lonergan) ricevuto dalle generazioni precedenti[38].
Basandosi su quanto abbiamo fin qui presentato, nel paragrafo seguente cercheremo di fare un passo avanti, ovvero di comprendere il «noi» comunitario in quanto tale, evitando due scogli contrapposti: l’individualismo, che si ferma alla mera somma di particolari, e il collettivismo, che li diluisce in un soggetto collettivo pensato come totalità uniforme, sia essa dialettica o meno.
Il rifiuto del «plus» di spirito e la comunione pluriforme nello Spirito
Per rispondere al tema filosofico dell’altro e del noi, Paul Ricœur preferisce l’analogia di Husserl dell’alter ego (altro io) a partire dall’io individuale, al reciproco riconoscimento hegeliano[39]. Infatti egli teme la strumentalizzazione populista — e spesso totalitaria — di questo plus, quando per esempio Hegel si riferisce allo «spirito del popolo» o risolve in assolutizzazione dialettica la relazione tra l’io, l’altro e il noi. Il filosofo francese giustamente respinge sia la riduzione dell’io e dell’altro a meri momenti della totalità del noi, sia lo «spirito» inteso dialetticamente alla maniera hegeliana. Infatti Hegel pensa lo spirito a partire dal nous[40] greco, interpretato come la relazione conoscitiva e dialettica soggetto-oggetto.
Ma per Papa Francesco non si tratta di questo, bensì di interrelazione di amore e dello Pneuma cristiano. Questi, come vincolo di amore tra il Padre e il Figlio[41], rispetta e garantisce nell’identità di un unico Dio le distinzioni interpersonali fra entrambi e di entrambi con lo stesso Spirito. Di conseguenza lo Spirito, nella comunione del Popolo di Dio, rafforza la personalità di ognuno dei suoi membri, nella reciproca interrelazione, ma in maniera irriducibile a ciascuno e a un «noi» concepito come totalità dialettica. Per questo, quando l’Esortazione si riferisce alla pietà popolare, ribadisce che essa è relazionale e allude a volti personali e non a forze anonime[42].
L’analogia non è nemmeno con la relazione cognitiva e dialettica soggetto-oggetto, ma con l’interrelazione etica (o meglio, più che etica) di comunione nella distinzione propria di Dio che è Amore e delle persone come relazioni. Pertanto la sua realtà non si rappresenta nelle figure hegeliane del cerchio o della spirale: «Il modello non è la sfera, che non è superiore alle parti, dove ogni punto è equidistante dal centro e non vi sono differenze tra un punto e l’altro. Il modello è il poliedro, che riflette la confluenza di tutte le parzialità che in esso mantengono la loro originalità» (EG 236).
Appare chiaro che, in questo testo, Francesco ha in mente sia il Popolo di Dio sia i popoli-nazione — nel quale e nei quali i poveri occupano un posto speciale, e in cui non va escluso il contributo originale di alcuno —, perché poi prosegue dicendo: «Sia l’azione pastorale sia l’azione politica cercano di raccogliere in tale poliedro il meglio di ciascuno. Lì sono inseriti i poveri, con la loro cultura, i loro progetti e le loro potenzialità. Persino le persone che possono essere criticate per i loro errori, hanno qualcosa da apportare che non deve andare perduto» (ivi).
In contrapposizione sia a Hegel sia a Husserl, può soccorrerci, per spiegare meglio il pensiero del Papa, ciò che Jean-Luc Marion dice sul reciproco riconoscimento (di amore) e sul terzo. Egli ricorre nientemeno che alla dottrina trinitaria di Riccardo di San Vittore, in cui il terzo è lo Spirito come codilectus (co-amato)[43]. Infatti il «noi» così viene inteso non come totalità compatta o dialettica, ma grazie alla correlazione etica (che avviene già nel linguaggio) tra l’«io», il «tu» e il «lui» («lei») in quanto differenti e irriducibili tra loro, concepiti in unità plurale e comunione, che non li riduce a meri momenti di una totalità, ma nemmeno li somma come semplice addizione di individui di per sé non correlati.
Teniamo presente, inoltre, che per Marion il terzo è, nella coppia uomo-donna, il figlio (o, quantomeno, la sua possibilità)[44], e che Gaston Fessard basa la sua concezione di «popolo» sulla fraternità dei diversi figli e figlie, considerati come terzi[45]. Anche qui la fenomenologia ante litteram di Riccardo di San Vittore illumina quanto si è detto nelle parti precedenti di questo articolo sui popoli (e sul Popolo di Dio), così come, d’altra parte, l’esperienza del noi fraterno, di «una fraternità mistica, contemplativa»[46], e di «essere popolo» e «appartenere a un popolo»[47], può far comprendere meglio il mistero trinitario e, in esso, il ruolo dello Spirito.
In un incontro che si tenne a Parigi nel 1981[48], Lévinas respinse il «noi-popolo», perché lo considerava come «alcuni con altri che procedono insieme», secondo una considerazione esclusiva dell’«essere-con» (mitsein) heideggeriano, al quale egli contrapponeva il «faccia a faccia» o il «di fronte a» (coram) dell’alterità etica dell’altro, secondo la sua concezione. Sia Carlos Cullen sia l’autore del presente articolo gli risposero che il noi non è né un io collettivo né una somma di voci individuali, ma piuttosto è configurato da «io, tu, lui (lei)» nelle loro interrelazioni etiche che li rendono comunità, alla quale le persone che le danno vita sono irriducibili. Pertanto, per comprendere il noi, è necessario pensare le relazioni interpersonali non soltanto secondo la preposizione «con» — alcuni con altri —, ma anche secondo il coram — di fronte a (ciascun altro) —, e anche il «fra» — dell’interpersonale e, nel caso della Chiesa, di «Gesù in mezzo» — e il «da», perché ciascuno riceve lingua e cultura dagli altri.
Il ricorso di Marion alla teologia trinitaria riccardiana è venuto poi a confermare varie di queste intuizioni, e ora ci aiuta a comprendere meglio il pensiero di Papa Francesco sul Popolo di Dio e sui popoli del mondo, il «soggetto collettivo attivo»[49] della spiritualità e della mistica popolari, e l’uso originale che Bergoglio fa del modello del poliedro.
La società multiculturale e la figura del poliedro
Il Papa conosce per sua esperienza pastorale società pluriculturali, come quella di Buenos Aires. Per questo afferma che «non bisogna dimenticare che la città è un ambito multiculturale»[50]. Ciò che egli ne dice si può applicare a ogni società con pluralità culturale, sia essa urbana o meno, ovvero: «Nelle grandi città si può osservare un tessuto connettivo in cui gruppi di persone condividono le medesime modalità di sognare la vita e immaginari simili e si costituiscono in nuovi settori umani, in territori culturali, in città invisibili. Svariate forme culturali convivono di fatto, ma esercitano molte volte pratiche di segregazione e di violenza. La Chiesa è chiamata a porsi al servizio di un dialogo difficile» (EG 74).
Dunque, come in ogni grande metropoli s’intrecciano varie «città invisibili» differenti, con i rispettivi immaginari culturali, così anche nell’odierna società globalizzata si danno sia la «cultura dell’incontro» — che la Chiesa deve incoraggiare —, sia il «meticciato culturale» di immaginari in un’autentica interculturalità[51], come anche la discriminazione culturale.
Il Popolo fedele di Dio può così perfezionare il suo «volto pluriforme» non soltanto con le ricchezze di nazioni o tappe storiche diverse, ma anche con quelle delle varie «città invisibili» in uno stesso spazio socioculturale, come è quello della città. Il fecondo incontro tra esse e i rispettivi immaginari può essere illustrato con l’immagine del poliedro.
Questa figura geometrica e la valorizzazione del meglio di ogni singolare dentro di essa si applicano allora tanto al Popolo di Dio pluriculturale quanto ai popoli nei quali si dà l’incrociarsi di culture, e alla relazione fra di essi, poiché è sempre possibile cercare una genuina interculturalità giusta, simmetrica e solidale. Quando il Papa respinge il modello della sfera e sceglie quello del poliedro, conclude il periodo constatando: «È l’unione dei popoli, che, nell’ordine universale, conservano la loro peculiarità; è la totalità delle persone in una società che cerca un bene comune che veramente incorpora tutti» (EG 236).
E, proseguendo nella linea di questo pensiero, si potrebbe aggiungere: è il Popolo fedele, il cui volto culturale è multiforme nella comunione dei diversi, perché è guidato dallo Spirito, vincolo di amore nella distinzione irriducibile tra il Padre e il Figlio.
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[1]. Cfr K. Rahner (ed.), Befreiende Theologie, Stuttgart – Berlin – Köln – Mainz, Kohlhammer, 1977; Id. (ed.), Volksreligion – Religion des Volkes, ivi, 1979.
[2]. Cfr J. C. Scannone, «Papa Francesco e la teologia del Popolo», in Civ. Catt. 2014 I 571-590; Id., Evangelización, cultura y teología, Buenos Aires, Docencia, 20122; S. Politi, Teología del pueblo. Una propuesta argentina a la teología latinoamericana. 1967-1975, Buenos Aires, Castañeda, 1992; M. González, Reflexión teológica en Argentina (1962-2010). Aportes para un mapeo de sus relaciones y desafíos hacia el futuro, Buenos Aires, Docencia, 2010.
[3]. Nel Documento di Puebla, si vedano specialmente quelle due sezioni. Cfr anche J. Alliende, «Diez tesis sobre pastoral popular», in Religiosidad popular, Salamanca, Sígueme, 1976, 119.
[4]. Cfr Documento di Aparecida, nn. 262-263.
[5]. Cfr, rispettivamente, G. Gutiérrez, Beber en su propio pozo. En el itinerario espiritual de un pueblo, Lima, Cep, 1983; J. R. Seibold, Mística popular, México, Buena Prensa, 2006.
[6]. Cfr EG 126.
[7]. Cfr G. Gutiérrez, Beber en su propio pozo…, cit., 101.
[8]. Cfr E. C. Bianchi, Pobres en este mundo, ricos en la fe. La fe de los pobres de América Latina según Rafael Tello, Buenos Aires, Ágape, 2012, specialmente il cap. 3.
[9] . Cfr P. Coda, «Trinidad y antropología. Notas introductorias sobre el significado y el método», nel volume En diálogo por una antropología trinitaria para nuestros pueblos, che il Celam pubblicherà prossimamente.
[10]. Cfr EG 111.
[11]. EG 14 (corsivo nostro).
[12]. EG 68.
[13]. Cfr EG 126.
[14]. EG 68.
[15]. Cfr EG 115.
[16]. Concilio Vaticano II, Costituzione pastorale Gaudium et spes, n. 53 c.
[17]. EG 69.
[18]. Cfr EG 115.
[19]. Cfr EG 70.
[20]. Questa concezione è propria del teologo gesuita Suárez, della scuola di Salamanca, ed è stata ripresa dall’attuale Teologia del popolo. Cfr J. C. Scannone, «Lo social y lo político según Francisco Suárez», in Stromata 54 (1998) 85-118.
[21]. EG 115.
[22]. Cfr EG 117.
[23]. Cfr EG 122. In EG 30 il Papa dice che la Chiesa particolare «è il soggetto dell’evangelizzazione».
[24]. Quando padre Jorge Mario Bergoglio era rettore delle Facoltà di Filosofia e Teologia di San Miguel (Argentina), organizzò su questi due temi un Congresso internazionale di teologia (1985), i cui Atti sono stati pubblicati in Stromata 61 (1985), nn. 3-4; cfr in quel contesto il suo Discorso inaugurale sul tema del Congresso, alle pp. 161-165.
[25]. Si veda come Carlos Galli commenta questa espressione biblica nella parte speculativa della sua tesi dottorale (tuttora inedita nella sua integralità), di cui è stato relatore Lucio Gera: El Pueblo de Dios y los pueblos del mundo. Catolicidad, encarnación e intercambio en la eclesiología actual (1993). Nel Nuovo Testamento la parola greca laos viene usata quando si parla del Popolo di Dio, e l’espressione ethnōn si riferisce ai popoli-nazione.
[26]. EG 123.
[27]. Cfr E. C. Bianchi, Pobres en este mundo…, cit., cap. 5, sezione 6, dove si cita la Sum. Theol., II-II, q. 2, a. 2.
[28]. Cfr EG 124.
[29]. Cfr EG 119.
[30]. Cfr EG 125.
[31]. Cfr, rispettivamente, EG 237 e 235.
[32]. Cfr EG 68.
[33]. Cfr EG 236.
[34]. Paolo VI, Esortazione postsinodale Evangelii nuntiandi, n. 18.
[35]. EG 122.
[36]. Whelan rinvia alla teologia della storia esposta nei capitoli 7 e 20 di B. J. F. Lonergan, Insight. A Study of Human Understanding, London – New York – Toronto, Longmans – Green and co., 1957.
[37]. Cfr EG 124.
[38]. Cfr EG 122.
[39]. Cfr P. Ricœur, «La raison pratique», in Th. Geraets (ed.), Rationality Today, Ottawa, University Press, 1979, 238 ss.
[40]. Entrambe le parole greche nous e pneuma si traducono con «spirito», ma con i due diversi significati che, rispettivamente, vengono specificati nel testo.
[41]. Cfr EG 117.
[42]. Cfr EG 90.
[43]. Cfr J.-L. Marion, «El tercero o el relevo del dual», in Stromata 62 (2006) 93-120; J. C. Scannone, «La comunión del nosotros y el tercero. Comentario a la conferencia de Jean-Luc-Marion», ivi, 121-128; Id., «El reconocimiento mutuo y el tercero», in Stromata 64 (2008) 207-218.
[44]. Cfr J.-L. Marion, Le phénomène érotique. Six méditations, Paris, Grasset, 2003.
[45]. Cfr G. Fessard, «Le mystère de la société. Recherche sur le sens de l’histoire», in Recherches de Science Religieuse 35 (1948) 5-54; 161-225.
[46]. EG 92.
[47]. EG 270.
[48]. Cfr J. C. Scannone (ed.), Sabiduría popular, símbolo y filosofía. Diálogo internacional en torno de una interpretación latinoamericana, Buenos Aires, Guadalupe, 1984.
[49]. EG 122.
[50]. EG 74.
[51]. Sul «meticciato razziale e culturale» latinoamericano originario, cfr Documento di Puebla, n. 408; sull’attuale «meticciato di immaginari culturali», cfr J. C. Scannone, «Algunos caracteres socio-culturales de la situación latinoamericana actual como desafío a la teología», in C. Avenatti de Palumbo (ed.), Miradas desde el Bicentenario. Imágenes, figuras y poéticas, Buenos Aires, Educa, 2011.