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Gli apologisti cristiani del II secolo avevano formulato e sostenuto per primi la tesi secondo la quale la filosofia antica avrebbe trovato compimento nel cristianesimo. Di tale idea si era fatto paladino soprattutto il filosofo platonico Giustino, convinto difensore delle potenzialità speculative della nuova religione, da lui professata eroicamente fino al martirio (ca. 165 d. C.). Da allora in poi tale convinzione ha attraversato i secoli, trovando accoglienza e sviluppo nella cultura europea, specialmente nell’ambito del platonismo. L’umanista Marsilio Ficino (1433-99) e il poeta Friedrich Hölderlin (1770-1843) l’hanno esposta in modi per certi aspetti avvincenti.
Tuttavia, come spesso accade nella storia delle idee, anche in questa pur dorata rappresentazione della realtà cristiana si annidava un germe di antinomia, che avrebbe potuto compromettere il riconoscimento del carattere soprannaturale del Messaggio, qualora questo fosse stato troppo ravvicinato alla verità del pensiero umano. Di fatto ciò si verificò per opera di quei pensatori del secolo dei Lumi che rivendicarono l’esclusività dei diritti della ragione. E non pochi intellettuali positivisti dei due secoli successivi hanno considerato il cristianesimo un evento del tutto umano. Oggi, siffatto atteggiamento del pensiero si impone sovente specialmente negli ambienti accademici e della comunicazione, sebbene riesca a coniugarsi con manifestazioni di diffuso e rispettoso interesse nei riguardi dell’istituzione ecclesiastica.
La riflessione che la Chiesa propone in quest’anno dedicato all’Eucaristia[1] induce a chiederci se nell’ambito di tale pensiero «laico» ci sia qualche attenzione anche nei riguardi di quello che per i credenti è l’elevato mistero eucaristico. E sembra che si debba rispondere affermativamente. Proprio l’Ultima Cena di Gesù con gli Apostoli, infatti, costituisce oggetto di un interesse, che a volte prende spunto dalle connessioni che vi si vogliono ravvisare con il «simposio», tema centrale nella filosofia platonica e pratica diffusissima nelle consuetudini degli antichi greci e romani. Mette conto tenere in considerazione alcuni tra i più recenti e significativi studi elaborati al riguardo[2], giacché essi sono in qualche modo indicativi delle tendenze culturali degli ambienti nei quali ci è dato testimoniare la nostra fede.
La convivialità
In realtà, la filologia classica individua nel convito pagano alcuni elementi di valenza universale, che ritiene presenti anche in quello eucaristico. Si tratta di accostamenti, che, sebbene per certi aspetti impropri, possono nondimeno consegnare ai credenti suggestivi spunti di contemplazione: come ha scritto Giovanni Paolo II, infatti, l’Eucaristia «porta inscritto nella sua struttura il senso della convivialità»[3].
Una prima fondamentale proprietà del convito viene colta, al di là delle sue estrinsecazioni storiche, nell’etimologia del suo nome, un nome che fu coniato, con felice intuito, dai greci e dai latini. Syndiaitasthai è la relativa parola greca, che porta in sé l’idea del «vivere insieme», derivando da diaita, vita. E, nella lingua latina, esprimeva la stessa idea la parola convivium. Poiché lo stare insieme a tavola è davvero — come è stato acutamente osservato — la «visibilizzazione» di una comunanza di vita[4]. Ora, bisogna proprio riconoscere che questo mirabile significato semantico rifulge nell’evento eucaristico: non solo ne riflette l’intensa carica di umanità, ma è anche figura di quella unità ineffabile che l’evento stesso di fatto realizza. Lo stesso miracolo di unità si ripete, in forza del mandato di Gesù («fate questo in memoria di me»), in ogni celebrazione dell’Eucaristia.
Connessa con questo aspetto è la funzione sociale ravvisata dagli studiosi nel simposio, quale «occasione per affermare l’identità del gruppo che si riunisce a convito»[5], e riconosciuta come propria anche dell’Ultima Cena. Pure tale riconoscimento non fa una grinza, se si considera quale sublime identità Gesù abbia voluto conferire al collegio apostolico, chiamandolo a primo testimone del grande mistero. E ogni successiva celebrazione eucaristica è di fatto «epifania» del corpo ecclesiale, come mirabilmente ha spiegato Giovanni Paolo II[6].
Nella prassi conviviale pagana gli studiosi colgono inoltre il soddisfacimento di profonde esigenze dell’animo umano. Anche in questo caso, il riscontro proposto a riguardo del convito eucaristico è tutt’altro che privo di fondamento. A patto naturalmente che vada bene inteso. La letteratura laica, interpretando lo stato emozionale dei singoli partecipanti ai simposi greci e romani, parla di «evasione individuale» dalla guerra, dall’attività politica, dal lavoro, dalla famiglia[7]. E non c’è dubbio che precisamente queste realtà sono fonte di preoccupazione che si placa nella pace interiore donata dal convito eucaristico. «Via le risse, via le guerre», cantava Anacreonte (fr. 56 Gentili): basta tralasciare il riferimento ai doni elargiti dagli dèi con cui il poeta completava l’espressione, e l’inno è bell’e pronto per le riunioni eucaristiche.
Sulle stesse realtà, tuttavia, l’Eucaristia non stende affatto quel velo di dolce passeggero oblio conosciuto dai banchettanti pagani: a loro riguardo la partecipazione eucaristica alimenta al contrario un costruttivo impegno. Tale differenza è, del resto, esaltata dalla stessa critica laica col contrapporre in modo efficacissimo le due situazioni esistenziali conseguenti ai rispettivi conviti: da un lato, il commensale pagano che, dopo avere conosciuto una gioia transeunte, «è restituito alla sua solitudine e ricondotto nelle braccia del tempo»; dall’altro, colui che ancora durante il «convito mistico» trova «l’inizio di una redenzione», insomma di un cambiamento «radicale»[8].
«Mangiare», «bere» e «gioire»
Un altro precipuo punto di contatto fra la tradizione conviviale greco-romana e l’Ultima Cena di Gesù suole essere individuato nella sequenza del «mangiare», del «bere» e del «gioire». Che nel simposio pagano siano presenti questi tre momenti risulta in modo palese da innumerevoli testimonianze letterarie e iconografiche. Gli studiosi ne hanno messo in evidenza la peculiarità, che non attiene alla mera e banale loro successione (qualsiasi desinare la comporta in qualche modo), ma alla funzione dinamica da essi assolta all’interno del meccanismo conviviale. Di tale «struttura» del simposio sono stati considerati inoltre i differenti modi e gradi di realizzazione, sicché quel «gioire» — che è il culmine dell’intera esperienza — viene rappresentato talvolta nella sua versione intellettuale e addirittura mistica. Ed è qui che si innesta la possibilità di riconoscere nell’esperienza profana quasi una prefigurazione dell’incontenibile gioia interiore donata dall’intima unione con Gesù Eucaristico.
Sebbene apparentemente meno rilevante, non resta tuttavia estranea alla spiritualità dell’Eucaristia la notazione che viene fatta sull’uso praticato in alcuni convivi pagani, in ossequio al quale i commensali accostavano le labbra a un’unica coppa: nel ricordarlo presente anche nell’Ultima Cena di Gesù, gli studiosi sottolineano lo spirito «comunitario e solidaristico» che in esso viene espresso[9].
Questi e simili approcci comparativi, nondimeno, riescono sì, come si vede, a portare talvolta luce sui significati delle narrazioni evangeliche, ma non sono in grado di proporre paralleli esatti: il racconto degli scrittori sacri — unico nel suo aspetto profondo — non si presta infatti ad essere assunto adeguatamente quale termine di raffronto. Gli evangelisti erano pienamente convinti che la verità relativa al loro Signore fosse il «vino nuovo» che aveva fatto scoppiare i «vecchi otri», e di questo «vino» essi stessi erano compenetrati. Si voglia o non si voglia credere alla realtà trascendente di questo loro Sitz-im-Leben, resta il fatto che quest’ultima imprime al contesto letterario evangelico un carattere che non è più quello con il quale può misurarsi la critica puramente razionale.
Il mistero dell’Incarnazione
Tale critica, quand’anche tenga conto delle peculiarità della letteratura religiosa (e ciò normalmente si verifica grazie alla serietà scientifica degli studiosi), si trova tuttavia di fronte a parametri del tutto nuovi, come è nuovo — lo si lasci dire, abissalmente nuovo — il mistero dell’Incarnazione, cuore della fede cristiana. Tale mistero poggia su due inconfondibili idee-forza. La prima è quella grazie alla quale la religio si fa concezione assoluta della trascendenza: è cioè la ragionevole convinzione che Dio, se veramente Dio, è il totalmente «Altro», l’inconoscibile in sé (diverso pertanto anche dal Dio della speculazione filosofica di tutte le culture, che pure è un Dio sostanzialmente già affrancato dall’antropomorfismo). L’altra idea è quella per la quale la «rivelazione» viene concepita come incontro ineffabile fra trascendenza e immanenza: l’idea cioè che tale Dio non possa riservare alle proprie creature altra finalità al di fuori di quella di partecipare alla propria stessa gloria trinitaria, e che tale progetto d’amore egli ha di fatto manifestato inviando il Figlio e pertanto sottoponendo pienamente alle leggi della natura umana e ai condizionamenti della storia colui che mai può tuttavia cessare di essere Dio. Una sottomissione, questa, coinvolgente anche il messaggio, che pur rimaneva un messaggio infinitamente al di sopra dell’umana comprensione.
Le conseguenze di tale realtà di fede non possono essere eluse sul piano della critica storica. Letteratura e avvenimenti concernenti il cristianesimo portano incisi i segni (e, non di rado, le ferite) del tempo, e tuttavia i credenti, pur avendone piena consapevolezza, non possono scandalizzarsene, riconoscendovi gli effetti del misterioso «abbassamento» operatosi per primo nel Figlio di Dio.
Per restare nell’ambito delle pericopi eucaristiche, occorre convenire che sovente le espressioni riportate dagli evangelisti e da san Paolo, pur proponendo l’identico mistero, riproducono il diverso modo di sentire e di ricordare della fonte, i suoi angoli visuali, i suoi interessi, il richiamo di altre culture, e che in virtù di tutto questo viene dato un risalto particolare a taluni detti e a taluni fatti, mentre altri vengono trascurati. E certamente è del tutto legittimo che gli studiosi — siano o non siano credenti — indaghino su tali riverberi presenti nei testi sacri. Sul piano dell’analisi storico-filologica le loro conclusioni, anche quando non sostenute dalla credenza, possono a volte risultare giustificate, e anzi condivisibili.
Ma tali analisi, allorché intendono giudicare ciò che è al di là degli elementi formali e concettuali dei testi — che è come dire ciò che costituisce la sostanza della rivelazione —, falliscono, per il semplice motivo che ad essi manca la chiave di lettura. Questa risiede nella prospettiva teologica tenuta dagli autori sacri, in forza della quale essi hanno guardato all’intimo senso degli avvenimenti nel quadro dell’economia della salvezza. Di tali avvenimenti essi hanno pertanto trascurato i particolari contingenti, ma non negato la realtà, attingendo di conseguenza una verità a suo modo anche storica.
La critica razionalista
L’illegittima interferenza della critica razionale crea però situazioni incresciose allorché risulti positivamente indotta dalla non credenza. In questi casi essa assume carattere polemico e ha conseguenze, più di quanto si possa credere, sul sentire comune. Ci guardiamo bene dall’esprimere giudizi sulle disposizioni d’animo soggettive di coloro che imprimono tale timbro all’interpretazione dei Vangeli. Ma riteniamo opportuno rilevare alcune delle loro distorte affermazioni, che più hanno attinenza con la delicata tematica eucaristica.
E, prima di ogni cosa, il punto centrale: quelle parole — «questo è il mio corpo» —, che risuonano uguali in tutte e quattro le narrazioni. Sono parole che si impongono per la loro infrangibile identità letterale: Marco (14,22) e Matteo (26,26) le collegano con la gestualità di Gesù («prendete»), e Matteo anzi ne fa risaltare l’inaudita crudezza («mangiate»); Luca (22,19) e Paolo (1 Cor 11,24) ne rivelano il valore sacrificale («che è dato per voi») e le proiettano nei secoli («fate questo in memoria di me»); ma nessuno di loro osa cambiarne un iota. La vertiginosa verità che qualsiasi uomo dotato di sensibilità percepisce in queste parole dovrebbe indurre quanto meno a esitare a proporne una banale, per quanto dotta, spiegazione. Eppure, ci si è adagiati sul terreno dell’antropologia (delle «sciences de l’homme»): in esso, assieme a una serie quasi illimitata di concetti riconducibili all’istituzione di pasti condivisi, si è trovato posto anche per «la Santa Comunione dei cristiani», definita «forma traslata in cui “si mangia il Dio”»[10].
Senonché, coloro che per primi avrebbero dovuto comprendere tale linguaggio «traslato», grazie alla comunanza culturale che li legava a chi ne aveva fatto uso, furono invece i primi a scandalizzarsene, quando Gesù aveva preannunciato l’Eucaristia con termini altrettanto crudi («la mia carne è vero cibo») (Gv 6,55). Essi, o comunque gli evangelisti che scrivevano di queste cose, non avevano mai ritenuto insensate le «allegorie» pasquali, che erano profondamente radicate nelle loro tradizioni religiose e cultuali. Ma il discorso di Gesù apparve ai discepoli che se ne andarono meritevole di essere chiaramente tacciato come sklèros (duro), proprio perché introduceva un elemento sacrificale del tutto incomprensibile per loro, anche se assunto a mo’ di simbolo. Oggi, il popolo di Dio si accosta alla Comunione intuendone quasi per istinto, grazie alla luce della fede, il vero significato: sa di unirsi intimamente al Cristo, perché lo crede realmente presente sotto il velo di quel pezzo di pane; e sa che mangiare il pane che nasconde il suo divino Maestro ha davvero un mirabile significato traslato, quello del reale nutrimento della propria anima.
L’irruzione della non credenza nella tematica conviviale tocca l’apice quando si viene a trattare delle sue connessioni con la morte. Sullo sfondo di una rievocazione quanto mai ricca e suggestiva di tale convivialità troviamo l’immancabile rilievo del destino di morte che incombe sulle «ultime» cene di Socrate e di Gesù di Nazareth. Dei due avvenimenti vengono colti con intelligente penetrazione storica i riflessi imperituri nella nostra civiltà, ma a un tempo, con altrettanta prevenzione razionalista, viene bandita da tale scenario «morale e intellettuale dell’Occidente» l’idea della risurrezione del Cristo: «Anche per coloro — ma quanti saranno oggi? — che riescono a interiorizzare una qualche fede nella risurrezione di Gesù, concetto estremamente alieno alla ragione e al principio di realtà, la Crocifissione conserva il suo terrore, la sua angoscia assoluta»[11]. D’accordo: la Risurrezione abbaglia la ragione, e se così non fosse svanirebbe lo splendore che ne fa «il punto focale dei desideri della storia e della civiltà»[12]. Ma la ragione merita che le sia tolta la capacità di arrestarsi davanti al Mistero? E ancor più, può essa sopportare di essere a tratti bendata nell’esercizio del compito che pure le è proprio? Ne rimarrebbe mutilata la consapevolezza della nostra identità civile, artistica, culturale, se impedissimo alla «ragion storica» di avvertire le risonanze profonde dell’«Alleluia» nei secoli.
Certo, questo «Alleluia» orribilmente tace dinnanzi alla «enormità della Crocifissione […] del secolo più bestiale della nostra storia». «Tra il Golgota e Auschwitz» il nostro pensatore laico[13] coglie con tremenda lucidità il nesso che coinvolge il cuore stesso della civiltà europea. E la sua spietata diagnosi della responsabilità di cui «le Chiese e i teologi cristiani» si sono resi colpevoli nei riguardi dell’odio per gli ebrei lascia — pur non volendolo — risuonare financo l’implorazione del «perdono» gridata alcuni anni fa da Giovanni Paolo II. Ma il lungo percorso storico di questo penosissimo antisemitismo esige di essere valutato pure nei momenti (e non furono pochi) in cui le luci ruppero le tenebre. All’affronto di chi parla di un antisemitismo cristiano «antico quanto i Vangeli e i Padri della Chiesa» pare come ribellarsi l’evangelista Luca, lui che aveva posto sulle labbra di Gesù in croce la più luminosa discolpa dei suoi crocifissori (ou gar oidasin ti poiousin,perché non sanno quello che fanno); e si erge, quasi a volerci insegnare la lettura delle pagine patristiche, il grande Giustino, lui che aveva avvertito, nel suo «Dialogo» con l’ebreo Trifone, quanto fosse costruttivo togliere la ruggine del rapporto compromesso.
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Ma, ciò detto, è doveroso riconoscere con quale rispetto l’indagine storico-filologica sa altre volte lasciare in prospettiva la valutazione dei fenomeni più direttamente concernenti l’ambito della fede. Così, possiamo apprendere quale sia stato il progressivo sviluppo delle varie forme di simposio, e come queste abbiano assunto in determinati contesti anche carattere intellettuale e filosofico, e poi sentirci avvertire, con estrema onestà scientifica, che da tutte si distingue «quella legata al cristianesimo»[14]. Oppure, dopo una bella lezione sul carattere sacro del simposio senofaneo, nel quale la tavola diventa quasi un altare, ci si fa intravedere la lunga strada ancora da percorrere per cogliere il senso autentico del convito di Gesù: «Qui siamo certo ancora molto lontani dal simposio cristiano, l’Eucaristia»[15]. E ancora, ci viene proposto un istruttivo raffronto col Fedone platonico, dove «Socrate vive la sua agonia come un banchetto comune», ma al tempo stesso si distingue con chiarezza la «sublimazione intellettuale e morale» dalla «sublimazione religiosa e mistica»[16]. Quanto, poi, alle considerazioni che vengono fatte intorno alla narrazione evangelica della «lavanda dei piedi», dopo esserne stata proposta una giustificazione assai concreta[17], ci si eleva a indicarne il valore «di solidarietà col povero, e di umiltà di fronte a questo»[18].
Atteggiamenti siffatti ci inducono a non dimenticare di mettere a frutto le competenze scientifiche del mondo «laico», per far sì che i contenuti della nostra fede diventino sempre più patrimonio comune.
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[1] Cfr Giovanni Paolo II, Lettera enciclica Ecclesia de Eucharistia (17 aprile 2003); Id., Lettera apostolica Mane nobiscum Domine (7 ottobre 2004). Ultimamente, inoltre, Benedetto XVI, nell’omelia pronunciata a Bari a conclusione del XXIV Congresso Eucaristico Nazionale (29 maggio 2005), ha avuto parole vibranti di esortazione a partecipare all’Eucaristia domenicale. Anche i vescovi italiani, nella loro XXXIX Assemblea Generale Ordinaria, hanno caldamente auspicato la più degna celebrazione dell’anno eucaristico (L’Eucaristia, fonte e culmine della vita e della missione della Chiesa, 25 febbraio 2004).
[2] Non intendiamo tanto elencare qui la relativa bibliografia, quanto concentrare l’attenzione su tre lavori, che ci sembrano ampiamente rappresentativi di altrettante prese di posizione. C’è anzitutto il punto di vista di chi, anche se forse non credente, espone il frutto di indagini condotte con rigoroso metodo e con acribia: valga ad esemplificare il bel libro di D. Musti, Il simposio, Bari, Laterza, 2001. Incontriamo poi gli studi nei quali non si fa mistero della non credenza: tale ci appare in modo sufficientemente esplicito il lungo e dotto articolo di G. Steiner, «Due cene. Le “ultime cene” di Socrate e di Gesù di Nazareth in una straordinaria analisi interpretativa. Il racconto del Convito e quello del Vangelo di Giovanni», in Micromega, 1996, n. 3, 97-125. Riteniamo infine opportuno non omettere di menzionare la posizione di quegli studiosi laici che sanno indagare con estremo rigore scientifico senza abbandonare il quadro dei riferimenti alla fede: emerge qui la figura di S. Accame, di cui giova citare L’istituzione dell’Eucarestia. Ricerca storica, Napoli, Libreria Scientifica, 1968.
[3] Giovanni Paolo II, Lettera apostolica Mane nobiscum Domine, n. 15.
[4] Cfr D. Musti, Il simposio, cit., 131.
[5] Ivi, 4.
[6] Cfr Giovanni Paolo II, Mane nobiscum Domine, cit., n. 21.
[7] Cfr D. Musti, Il simposio, cit., 4.
[8] Cfr ivi, 138
[9] Cfr ivi, 59.
[10] Cfr G. Steiner, «Due cene. Le “ultime cene” di Socrate e di Gesù di Nazareth…», cit., 98.
[11] Ivi, 99.
[12] Gaudium et spes, n. 45.
[13] Cfr G. Steiner, «Due cene. Le “ultime cene” di Socrate e di Gesù di Nazareth…», cit., 101 s.
[14] D. Musti, Il simposio, cit., 10.
[15] Ivi, 39.
[16] Ivi, 85 s.
[17] Cioè quella che, essendo la klinè concepita come giaciglio, nel quale ci si adagiava a piedi scalzi, si sarebbe reso necessario che questi fossero puliti.
[18] D. Musti, Il simposio, cit., 82.