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ABSTRACT – Sono passati 25 anni da quel 19 marzo del 1994 e dal sacrificio di don Giuseppe Diana a Casal di Principe, la sua terra di nascita. Ma l’eco della voce di don Peppino non ha mai smesso di risuonare nella terra campana e nella cultura italiana. Per molti – inclusa la Chiesa della diocesi di Aversa, a cui apparteneva don Giuseppe – quel momento è stato come una soglia, un prima e un dopo per non rimanere oppressi dal male e trovare un riscatto spirituale e sociale.
Don Giuseppe era un sacerdote colto e coraggioso, senza ambizioni di carriera. Viveva in una zona che la polizia internazionale definiva il «triangolo della morte»: Casal di Principe aveva circa 20.000 abitanti; San Cipriano superava i 10.000 abitanti; Casapesenna ne aveva circa 7.000. In quelle terre dal 1985 al 2004 – lo Stato era quasi assente e la politica locale spesso complice della malavita – la camorra ammazzò 646 persone in 54 comuni del casertano, mentre dagli anni Novanta la magistratura sciolse 34 amministrazioni solamente nella provincia di Caserta.
Nel 1991, dopo l’esecuzione di un altro ragazzo innocente, don Diana dà voce a chi aveva paura di parlare e anche alla famiglia del ragazzo, che non si era neppure costituita parte civile. È questa la goccia che fa traboccare il vaso. Con altri parroci della forania di Casal di Principe scrive il documento «Per amore del mio popolo», ispirato a una lettera dei vescovi campani del 1982.
Quelle parole vengono pronunciate nella notte di Natale per invitare le comunità cristiane a ribellarsi; la camorra è definita come «una forma di terrorismo che incute paura, impone le sue leggi e tenta di diventare componente endemica nella nostra società campana». Dagli atti processuali della Corte di Cassazione sappiamo che, per i giudici, egli è stato ucciso per non aver celebrato in chiesa i funerali di un camorrista. In realtà c’è molto di più: a condannare don Giuseppe è stata la scelta di sottrarre i giovani ai tentacoli della camorra e di offrire loro un’alternativa di vita. Lo stesso copione, con lo stesso finale vissuto da don Pino Puglisi.
Ora, dopo 25 anni, la situazione sociale si è capovolta, come afferma il procuratore nazionale antimafia, Federico Cafiero de Raho, che si occupò delle indagini: «Ricordo il silenzio, le imposte chiuse dei balconi. Mi pareva di essere in uno di quei film western in cui c’è il duello finale e tutti si rintanano in casa per paura di essere coinvolti». Intorno al corpo senza vita di don Giuseppe Diana erano accorsi in pochissimi. C’era troppa paura per dire: «Basta con la camorra!». Oggi la sua testimonianza evangelica è per molti la forza per cambiare lo stile di vita e la cultura della propria terra.
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THE SACRIFICE OF DON GIUSEPPE DIANA
It has been 25 years since the Casalesi clan killed Don Giuseppe Diana. The consequences of that sacrifice have never ceased to be felt in the Campania region, and throughout Italian culture. Don Giuseppe was a cultured and courageous, yet humble priest. A love for the truth, and giving voice to the oppressed and concern to combat Mafia culture were his priorities even more so than his own life. For many people his evangelical witness gives them strength to change the lifestyle and culture of their own land.