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Quando Dino Buzzati morì, esattamente il 28 gennaio 1972 (era nato a Belluno nel 1906), il quotidiano francese Combat gli dedicò un articolo intitolato «Dino Buzzati morto e vivo». «La morte di uno scrittore — vi si leggeva — è l’occasione per dimostrare che la sua opera vive sempre anche se l’uomo non è più. Il giornalista Buzzati lo sapeva. I suoi libri sono sempre vivi, e di quale vita!». A distanza di 30 anni, il giudizio di Combat si rivela profetico. Mentre altri autori del suo tempo — e a noi più vicini — svaniscono nell’ombra, Buzzati si afferma come una presenza viva e inquietante. La ristampa delle sue opere avviene con ritmo preciso e la critica non smette di approfondirne l’originalità, la bellezza formale e la ricchezza di contenuto. L’«Associazione Internazionale Dino Buzzati», costituita a Feltre nel 1988, ha come struttura permanente il Centro Studi Buzzati che pubblica la rivista Studi buzzatiani e la collana «Quaderni del Centro Studi».
Quali le ragioni della vitalità dello scrittore bellunese? In uno stile semplice, lineare, limpido, egli mette il lettore dinanzi al mistero della vita: l’ignoto che la circonda, la morte che la incalza, l’angoscia che l’assedia. Questo mistero sguscia dalla quotidianità del vivere, apparentemente banale; anzi ce lo portiamo dentro, senza saperlo, e quando ne diventiamo consapevoli lo sgomento ci assale per il premere delle domande ultime: ha un senso la vita? che cos’è il mistero? siamo pellegrini o sventurati? il cielo è muto e vuoto? «Romanziere della solitudine e dell’assurdo» definiva Buzzati Le Figaro, in occasione della sua morte, e così concludeva: «Alla sua eterna ricerca dell’assoluto, alla sua patetica ricerca di una certezza, Buzzati apportava una chiarezza e una precisione che l’avevano fatto soprannominare il Kafka di cristallo».
Incontrammo Buzzati, nei lontani anni Sessanta, al Centro San Fedele di Milano, in occasione di una tavola rotonda sulla sua opera. Parlammo della dimensione religiosa della sua narrativa e così concludemmo: nella sua opera ci sono notevoli squarci religiosi, e la sua ispirazione letteraria rivela un’anima naturaliter christiana. Il suo dio però è vago, nebuloso, equivoco; la sua religione si confonde col sentimento; il suo al di là ha il sapore di una bella favola; la sua ricerca approda al mistero, espressione più di un nostro bisogno che di una realtà trascendente. Talvolta però questo bisogno è così vivo da configurarsi come verità del nostro essere.
Buzzati sottoscrisse la nostra analisi, ringraziando. Ricordiamo il suo sguardo: fondo, quasi smarrito nel tentativo di scrutare il mistero che si annida in ogni persona; e la sua bontà, la sua signorilità e timidezza, la sua modestia. Dava l’impressione di una persona che faccia fatica a muoversi in questo mondo, che cerchi altre terre dove abitare. Quali?
Buzzati scrittore religioso?
L’interrogativo ci introduce nell’analisi della sua religiosità. Eugenio Montale lo definì «un favolista essenzialmente cristiano»[1]. Giovanna Ioli parla di una sua «religiosità incombente» affermando che «Dio esiste nei luoghi di Buzzati più che in molti autori che lo dichiarano»[2]. Giorgio Pullini nota che «la realtà rimane per Buzzati un fatto trascendentale, al di fuori e al di sopra della sua ricerca personale, un dato di partenza mitico»[3]. Fausto Gianfranceschi sostiene che non è possibile comprendere Buzzati prescindendo dalla dimensione religiosa della sua opera[4]. Anche Domenico Porzio insiste sulla nascosta anima religiosa buzzatiana, che egli scorge soprattutto nel linguaggio simbolico e metaforico dello scrittore[5]. Altri studiosi trattano l’argomento ma in termini piuttosto vaghi e frettolosi, quasi si trattasse di un tema marginale.
Si può definire Buzzati uno scrittore religioso? Per evitare ogni equivoco, diciamo subito che egli non ha una religione, nel senso che non accetta un credo, cristiano o cattolico che sia, strutturato di dogmi, di riti, di verità rivelate. Egli ha un forte sentimento religioso che gli deriva dalla sua anima profonda e che si manifesta come presentimento, nostalgia, attesa, malessere interiore, intelligenza metaforica e mitica. Tale sentimento costituisce la religione naturale o religiosità. Essa ha una triplice origine. In primo luogo è originato dal sentimento del numinoso, universalmente avvertito ed espresso in una varietà di modi. Secondariamente dalla struttura dell’uomo: essere finito con un’apertura all’infinito; ora, essendo la realtà che lo circonda limitata e finita, egli avverte un malessere che lo induce a cercare, in altre direzioni, altre realtà. Infine, dinanzi all’evento della morte, l’uomo sente un prepotente bisogno di sopravvivenza per non morire del tutto e per incontrare le persone care. Bisogno vano o presagio d’immortalità? La religione naturale pertanto comporta la ricerca di altre realtà e il bisogno di oltrepassare i confini dell’umano per raggiungere quelle terre dove l’inquietudine possa placarsi.
Di queste altre terre Buzzati è cercatore appassionato e originale. Da autentico scrittore, ha una peculiare capacità di farcene percepire la nostalgia e il bisogno. La loro percezione, che va oltre il quotidiano e l’immediato, può configurarsi col meraviglioso, col diverso e con lo strano, ma anche col misterioso, col metafisico, col soprannaturale. Egli è tutto proteso a captare e comprendere questa realtà, perché in essa è in gioco il nostro destino e si condensa il senso della nostra vita. «La differenza, l’originalità assoluta di Buzzati — afferma Geno Pampaloni — è la seguente: […] per Buzzati la metafisica è un’etica, è una morale; se il reale e il tempo è spesso menzogna, la verità sta altrove, sta al di là, e cercarla e conoscerla con pazienza e coraggio è la vera moralità dell’uomo»[6].
Cercare la verità altrove: senza perdersi nei meandri dell’inconscio considerandolo fonte di conoscenza essenziale, attenti a scorgere la verità nascosta sia nella realtà quotidiana, sia nel sogno, nella fantasia e nel presentimento di un assolutamente Altro. In merito la Ioli cita tre versi di Alano di Lilla per il quale ogni creatura è un libro: Omnis mundi creatura / quasi liber et pictura / nobis est et speculum, e rimanda al testo paolino: «Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo faccia a faccia. Ora conosco in maniera imperfetta, ma allora conoscerò perfettamente»[7].
Buzzati ha il dono di percorrere i sentieri della vita e di scorgere segni e voci che a noi sfuggono e che rimandano a qualcos’altro, che sta dietro. «Ogni manifestazione del reale è il segno di qualche cosa che sta dietro, ogni avvenimento ha una controparte ideale. Come un libro non si esaurisce nei segni impressi nelle sue pagine, così la vita umana non si esaurisce nei suoi accadimenti […]. Ciò indica il modo tradizionalmente corretto di leggere il gran libro del mondo. Il simbolo, la metafora […] diventano la realtà, quella non immediatamente visibile e tangibile, e quella da decodificare; e a sua volta la realtà diventa simbolo»[8].
I luoghi del mistero
Ci sono luoghi nei quali, secondo Buzzati, il mistero del mondo si rivela con maggiore intensità: le montagne e il deserto. «Le montagne sono nascoste ma si sentono vicine; sono immobili e solitarie, sprofondate nelle nubi», ora «cariche di notte» ora ammantate di luce; attraggono, ma fanno anche paura. Regno del silenzio, «massimo simbolo della suprema quiete a cui l’uomo è tratto per vocazione e tentazione invincibile»[9]; simbolo anche della trascendenza, dell’immobilità e del bisogno di tendere verso l’alto. Con la montagna, il deserto. Sconfinato regno dell’ignoto, dei miraggi e dei presagi. «Secondo me quello che soprattutto fa impressione nel deserto è il senso dell’attesa. Uno ha la sensazione che debba succedere qualche cosa, da un momento all’altro. Proprio lì, scaturito dalle cose che si vedono»[10]. Che cosa cela l’orizzonte? È un termine o l’inizio di altri spazi? Che cosa, o chi, ci attende laggiù? Quali verità nasconde? Il protagonista di Ombra del Sud racconta di un suo viaggio in Africa; costeggia il deserto senza mai addentrarsi in esso. A Porto Said scorge un uomo, un arabo forse. Mentre lo addita al compagno, l’uomo scompare, ma per riapparire in altre località, in modo enigmatico e insistente. «Non cercava nulla, lo sapevo perfettamente. Di carne ed ossa o miraggio, egli era comparso per me, miracolosamente si era spostato da un capo all’altro della città indigena per ritrovarmi e fui consapevole (per una voce che mi parlava dal fondo) di una oscura complicità che mi legava a quell’essere». Lo strano è che è soltanto lui a vederlo; gli appare e poi svanisce nel nulla. Che cosa vuole? «Non so chi tu sia, se uomo, fantasma, o miraggio, ma temo che ti sia sbagliato. Non sono, ho paura, colui che tu cerchi. La faccenda non è molto chiara ma mi pare di aver capito che tu vorresti condurmi più in là, ogni volta più in là, sempre più al centro, fino alle frontiere del tuo incognito regno […]. Tu vuoi soltanto farmi capire — mi sembra — che il tuo monarca mi aspetta in mezzo al deserto, nel palazzo bianco e meraviglioso, vigilato da leoni, dove cantano fontane incantate […], dove probabilmente sarei felice»[11].
Sarebbe felice perché il deserto rivela verità occulte e incantate meraviglie. Quali non dice. Non dice neanche chi è il monarca che lo attende nel palazzo bianco e meraviglioso, in mezzo al deserto. Le montagne e il deserto, ma anche il bosco e il mare sono luoghi privilegiati del mistero. Esso però, a uno sguardo attento, si rivela in ogni luogo e in ogni circostanza, ora freddo e spietato, ora rasserenante e benefico. Di fronte a quali verità ci mette?
Innanzitutto di fronte al fluire del tempo: mostro che tutto corrode, tutto livella, tutto getta nell’ombra. Corre il tempo. «Il suo battito silenzioso scandisce sempre più precipitoso la vita, non ci si può fermare neanche un attimo, neppure per un’occhiata indietro. “Ferma, ferma!” si vorrebbe gridare, ma si capisce che è inutile. Tutto quanto fugge via, gli uomini, le stagioni, le nubi; e non serve aggrapparsi alle pietre, resistere in cima a qualche scoglio, le dita stanche si aprono, le braccia si afflosciano inerti, si è trascinati ancora nel fiume, che pare lento, ma non si ferma mai»[12].
Col passare degli anni la solitudine incalza fino a renderci estranei agli altri e a noi stessi. Estranei e fastidiosi. Gli amici? Non vi conoscono più. Voi vi affannate a cercarli, ma i vostri «passi riecheggiano misteriosi da una casa all’altra dicendo: “Che fai? Che vuoi? Non ti accorgi come tutto è inutile?». I nipoti? Nel racconto La polpetta tre «carissimi ragazzi», stufi di sopportare il vecchio nonno, decidono di avvelenarlo. Gli piacciono le polpette? Bene, ne preparano una al cianuro. «Garantito che la mangerà». Il vecchio scopre l’inganno. Non si ribella, non accusa: «Ciao, ragazzi, ho capito. Me ne andrò senza fare troppo rumore. Graziosi, siete, assomigliate maledettamente a un tipo che esisteva tanti anni fa; e che portava il mio nome. (Per fortuna vostra non sapete. Non sospettate. Poveri figlioli. Neanche il tempo di riderci su. Tra un secolo, o tra un anno, o tra un mese. O tra un giorno. O tra un’ora. Tra un minuto, o meno, sarete esattamente come me. Vecchi. Pensionati. Rugosi, da sbattere nella spazzatura!) […] Seduto allo scrittoio, aiutandomi col tagliacarte d’ottone dorato, comincio a mangiare. E a morire, come desiderate voi, ragazzi cari»[13].
Si allontanano anche i figli, trascinati da altri interessi, da diversa mentalità, da nuovi affetti. Il tempo ci ha consumato; non solo, ci ha anche tradito, sbandierandoci la sottile tentazione dell’attesa. Abbiamo creduto che lo scorrere del tempo fosse la condizione per la concretizzazione di un’attesa di felicità, ma l’attesa è rimasta attesa. Ci siamo così trovati al traguardo della vita con le mani vuote e l’anima spenta.
L’attesa e la morte
Il tema dell’attesa nella poetica buzzatiana è ricorrente. Presentato nelle sue svariate sfaccettature, ha come sfondo comune la delusione, l’inganno e la morte. Esso è sviluppato in molti racconti, ma ne Il deserto dei Tartari ha la sua più piena espressione. È un romanzo che richiama Franz Kafka: azione esteriore ridotta, sfondi grigi e desolati, atmosfere rarefatte, impregnate di sensi reconditi, uomini che giocano col loro destino.
Il tenente Giovanni Drogo è destinato alla Fortezza Bastiani, posta ai margini di una pianura desertica, i cui confini si perdono all’orizzonte. Dal deserto potrebbero giungere i barbari invasori; gli uomini della Fortezza li affronterebbero e annienterebbero, conquistandosi quella gloria che avrebbe aureolato la loro esistenza. «Dal deserto del nord doveva giungere la loro fortuna, l’avventura, l’ora miracolosa che almeno una volta tocca a ciascuno». Passano gli anni, diventano vecchi i fucili, vecchi gli ufficiali, tramonta l’amore, ma l’attesa dell’«ora miracolosa» resta, incatenando Giovanni Drogo alla Fortezza. Proprio quando sembra che i Tartari spuntino davvero dal deserto, Drogo è malato. Entra nella sua camera il comandante e gli dice: «Ho una buona notizia: oggi verrà una magnifica carrozza a prenderti». Prima di raggiungere la sua città, verrà anche la morte a prenderlo, in una squallida locanda.
Questa è la vita? Illusione e inganno? Gioco ironico e funereo? Il finale del romanzo ci orienta verso altre interpretazioni. Quando Drogo si rese conto della prossimità della morte volle affrontarla con dignità. «E subitamente gli antichi terrori caddero, gli incubi si afflosciarono, la morte perse l’agghiacciante volto, mutandosi in cosa semplice e conforme a natura. Il maggiore Giovanni Drogo, consunto dalla malattia e dagli anni, povero uomo, fece forza contro l’immenso portale nero e si accorse che i battenti cadevano, aprendo il passo alla luce»[14]. Si entra nella luce — nella vita — attraverso la morte (il portale nero), attraverso cioè il superamento del tempo e delle vane attese. «La “luce” di Buzzati — nota Giovanna Ioli — non è altro che il simbolo di quella fede mai dichiarata, eppure sempre offerta in dono al lettore»[15].
Il tema della morte, in Buzzati, oltre che ricorrente, è ossessivo, quasi un ritornello che scandisce la sua opera, ora in ritmi beffardi e desolati, ora in note aperte a un’ipotesi di speranza ultraterrena. Lo scrittore la scorge dappertutto, accovacciata negli angoli più impensati, gli occhi fissi sui mortali, protesa a ghermirli, incurante di tutto. Talvolta essa è capace anche di misericordia, come avviene nel racconto Il mantello. Il soldato Giovanni torna a casa, accolto con grida di gioia dalla madre e dai fratellini. Pallido e sfinito, fa fatica anche a sorridere. Nonostante il caldo, rifiuta di togliersi il mantello perché deve uscire. Un tale lo aspetta fuori, deve andare con lui. Inutile ogni insistenza. Quando sta per uscire, un fratellino gli solleva un lembo del mantello che scopre una ferita sanguinante. «[…] aprì il cancelletto, due cavalli partirono al galoppo, sotto il cielo grigio […]. E allora la mamma finalmente capì, un vuoto immenso che mai e poi mai nei secoli sarebbero bastati a colmare, si aprì nel suo cuore. Capì la storia del mantello, la tristezza del figlio e soprattutto chi fosse il misterioso individuo che passeggiava su e giù per la strada, in attesa. Così misericordioso e paziente da accompagnare Giovanni alla vecchia casa (prima di condurselo via per sempre), affinché potesse salutare la madre; da aspettare parecchi minuti fuori del cancello, in piedi, lui signore del mondo, in mezzo alla polvere, come pezzente affamato»[16].
Un interrogativo assilla Buzzati: la morte è una fine o un inizio? un uscio che immette in un altro mondo o che sconfina nel nulla? la realizzazione delle nostre speranze o il loro naufragio? Talvolta gli appare come la porta del nulla, altre volte come la rivelazione, sia pure opaca e incerta, di un altro mondo. Ne I due autisti ricorda il trasporto del feretro materno in un lontano cimitero. Durante il tragitto i due autisti del furgone si raccontavano frivolezze, ridevano, con la rabbia in corpo per non potersi fermare alle migliori trattorie. Il figlio si struggeva nel rimorso di non aver assistito la vecchia madre ammalata per assecondare il proprio «schifoso egoismo». Troppo tardi, ora, per rimediare alla sofferenza e alla solitudine della madre. Lei non vede e non sente. Morta e distrutta. «Niente? Proprio niente rimane. Di mia mamma non esiste più nulla? Chissà. Di quando in quando, specialmente nel pomeriggio, se mi trovo solo, provo una sensazione strana. Come se qualcosa entrasse in me che pochi istanti prima non c’era, come se mi abitasse un’essenza indefinibile, non mia eppure immensamente mia, e io non fossi più solo, e ogni mio gesto, ogni parola, avesse come testimone un misterioso spirito. Lei! Ma l’incantesimo dura poco, un’ora e mezzo, non di più. Poi la giornata ricomincia a macinarmi con le sue aride ruote»[17].
L’incantesimo è una rivelazione? Forse, ma la vita con il frastuono delle sue «aride ruote» ci macina. Ci stordisce e aliena. Ci rendiamo così incapaci di comprendere — o almeno di sospettare — che, se il tempo è illusione e menzogna, la verità potrebbe essere altrove, oltre la morte, e che occorre cercarla con pazienza e coraggio. In merito, è sintomatico Il colombre. Narra di uno squalo che quando sceglie la sua vittima la insegue per anni finché non riesce a divorarla. Stefano Roi crede di essere stato scelto come vittima. Ossessionato dalla presenza del mostro, prima si allontana dal mare, poi vi ritorna, deciso ad affrontarlo per il combattimento estremo. Prende il largo e all’improvviso lo squalo emerge di fianco alla barca.
«“Eccomi a te, finalmente”, disse Stefano. “Adesso, a noi due!”. E, raccogliendo le superstiti energie, alzò l’arpione per colpire. “Uh”, mugolò con voce supplichevole il colombre, “che lunga strada per trovarti. Anch’io sono distrutto dalla fatica. Quanto mi hai fatto nuotare. E tu fuggivi. E non hai mai capito niente”. “Perché?”, fece Stefano, punto sul vivo. “Perché non ti ho inseguito attraverso il mondo per divorarti, come pensavi. Dal re del mare avevo avuto soltanto l’incarico di consegnarti questo”. E lo squalo trasse fuori la lingua, porgendo al vecchio capitano una piccola sfera fosforescente. Stefano la prese fra le dita e guardò. Era una perla di grandezza spropositata. E lui riconobbe la famosa Perla del Mare che dà, a chi la possiede, fortuna, potenza, amore e pace dell’animo. Ma era ormai troppo tardi. “Ahimè”, disse scuotendo tristemente il capo. “Come tutto è sbagliato. Io sono riuscito a dannare la mia esistenza: e ho rovinato la tua”. “Addio, pover’uomo”, rispose il colombre. E sprofondò nelle acque nere per sempre»[18].
Il colombre è metafora della morte; meglio, è un messaggero della morte; ciò che esso ci porta o ci annuncia non è l’annientamento, è la felicità. Noi non lo sappiamo e sciupiamo la vita in fughe inutili e in sterili paure.
Pietà per l’uomo
Stordito com’è dal frastuono e dai miraggi della vita, l’uomo raramente riesce a percepire l’annuncio del cielo e resta prigioniero dell’illusione, della paura e degli eventi. Descrivendo questa prigionia, Buzzati avverte sentimenti di pietà. Pietà per Giuseppe Corte che si nutre di illusioni fino alla morte, e quando questa sopraggiunge si accorge che «le persiane scorrevoli, obbedienti a un misterioso comando, scendevano lentamente, chiudendo il passo alla luce»[19]. Pietà per la ragazza che, «la testa eretta, cammina fieramente […]. Tutta la sua vita sembra concentrarsi nella volontà di avanzare. Ma dove? […] Si direbbe che lei […] sappia dove porti la via — dopo brevi finti splendori trovarsi malata, sfinita e sola in mezzo all’avidità del mondo — ma ugualmente avanzi imperterrita, giocando per una bizza di donna l’intera vita»[20]. Pietà per noi stessi. «Che cosa sei, creatura mia? Un grazioso granellino di polvere sperduto nell’universo»[21]. Pietà per la signora Maria che, pur nell’imminenza del crollo della villa, si ostina a non voler credere alla catastrofe. Unica sua preoccupazione è conservare intatta la maschera mondana e salvo il suo raffinato fascino, anche quando gli spiriti dell’altro mondo battono alla porta e annunciano l’arrivo della morte[22].
Tutti gli scrittori percepiscono la sostanziale limitatezza e miseria dell’uomo, e assumono dinanzi ad esse atteggiamenti diversi: chi si ribella proclamando l’assurdo, chi si rassegna passivamente, chi tenta impossibili superamenti. In merito, F. Gianfranceschi istituisce un confronto tra Kafka e Buzzati: «Mentre Kafka è l’uomo dell’angoscia totale, perennemente perseguitato e perennemente in stato di accusa di fronte a un misterioso tribunale, Buzzati è anche l’uomo della pietà e della speranza di riscatto, dell’amore e della sincera partecipazione alla vita in tutte le sue manifestazioni. Mentre Kafka è chiuso nel suo bossolo di dolore, nel suo mondo di sofferenza ineluttabile, Buzzati si apre alla comprensione del prossimo, all’intuizione del numinoso. Insomma, ciò che diversifica i due autori è la sottile linea di separazione fra la tradizione ebraica e il completamento cristiano»[23].
Anche Un amore è percorso dal sentimento della pietà. È la storia grigia, insistita, narrata con crudo realismo, dell’amore del cinquantenne architetto Antonio Dorigo per una ragazza-squillo quindicenne, di nome Laide. Storia d’amore? Più esatto è dire storia di passione cieca, di schiavitù erotica, d’infatuazione degradante. Antonio sa che lei non lo ama, che lo tradisce, lo sfrutta, lo umilia, lo usa, ma una forza misteriosa, annidata nel suo profondo, gli impedisce di comportarsi con ragionevolezza e dignità. Pensa che sia la forza dell’amore, che domina e trasfigura la vita, che resisterle è impossibile poiché vivere è amare.
Dell’amore però non riesce a comprendere il vero significato; lo inventa con la sua mente malata. In tal modo viene a trovarsi in balìa delle forze oscure del suo io. La conseguenza è fatale. Laide diventa, per lui, il caos che lo attira e annienta, il veleno che gli brucia i visceri ma di cui non sa fare a meno, l’abisso in cui si è dovuto buttare per scoprirne i segreti, l’incanto, l’orrore. Si è dovuto buttare? Preferibile credere che sia stato in esso buttato da un «disperato e drammatico vento» che gli ha obnubilato la mente. Questo è l’amore? Una maledizione che piomba addosso e resistere non è possibile? La storia di Dorigo si conclude con la riscoperta della morte. «Nella notte si guarda intorno. Dio che cos’è quella torre grande e nera che sovrasta? La vecchia torre che gli era rimasta sempre sprofondata nell’animo da quando era ragazzo. Della terribile torre però poco fa, nel turbine, si era completamente dimenticato, la velocità e il precipizio gli avevano fatto dimenticare l’esistenza della grande torre inesorabile nera. Come aveva potuto dimenticare una cosa così importante, la più importante di tutte le cose? Adesso era là di nuovo, si ergeva terribile e misteriosa come sempre, anzi sembrava alquanto più grande e più vicina. Per quasi due anni non ci aveva pensato neppure una volta, sembrava una favola, proprio lui che ne aveva sempre avuto l’ossessione nel sangue. Tanta era la forza dell’amore. E adesso all’improvviso gli era ricomparsa dinanzi, dominava lui la casa il quartiere la città del mondo con la sua ombra e avanzava lentamente»[24].
E Laide? Nell’ultima pagina del libro Dorigo la vede, per un attimo, che «sta al di sopra di tutti, è la cosa più bella, preziosa e importante della terra». Gli ha confidato di attendere una bambina. «Eccola dunque la ragazzina tremenda e senza cuore che doveva portarlo alla rovina. Che cosa le è successo? Chi l’ha cambiata? Che cosa le ha fatto nascere quel desiderio così diverso dal frastuono dei nights e dagli amori a pagamento?». In lei non ci sono soltanto i germi della corruzione; «trasmessi per recondite vie da antiche vene di sangue, in lei stavano nel fondo dell’animo i desideri per le gioie semplici ed eterne, domestiche, rassicuranti, banali forse, che sono il sale della terra».
Chi è Dio?
In Buzzati il termine «Dio» ricorre con frequenza e con diverse accezioni: semplice esclamazione, espressione di stupore, invocazione di aiuto, riferimento al mistero che ci avvolge, denominazione di un ipotetico essere trascendente, ignoto e fascinoso. Capita anche che il termine rifletta un genuino bisogno di fede, intesa come salvezza dalla solitudine e dalla morte. Esaminiamone alcuni.
«I Santi hanno ciascuno una casetta lungo la riva con un balcone che guarda l’oceano, e quell’oceano è Dio. D’estate, quando fa caldo, per refrigerio essi si tuffano nelle fresche acque, e quelle acque sono Dio»[25]. Così inizia il racconto I Santi che mette in scena due santi: Gancillo, poco venerato e quasi sconosciuto, e Marcolino, universalmente invocato. Un bel giorno Marcolino si reca a visitare Gancillo, quasi per giustificarsi. «Vedi? Io sono un tipaccio, eppure mi assediano dalla mattina alla sera. Tu sei molto più santo di me, eppure tutti ti trascurano. Bisogna aver pazienza, fratello mio, con questo mondaccio cane». Gioia dell’incontro, e invito a cenare insieme. In attesa che la pentola bolla, siedono sulla panca, scaldandosi e chiacchierando. «Dal camino cominciò a uscire una sottile colonna di fumo, e anche quel fumo era Dio». Chi è Dio? La felicità dell’Eden? La bellezza e la bontà della natura? La gioia dell’amicizia e della fraternità? L’anima del mondo?
Forse Dio è la salvezza dalla solitudine. «Isole solitarie siamo, seminate nell’oceano, e immenso spazio le separa». Gettarci a nuoto per raggiungere altre isole? Follia. Ci troveremo stanchi, gelati e tristi nel gregge infinito delle onde, senza più forze per ritornare. «Tutto inutile dunque? Tentiamo, tentiamo. Laggiù all’orizzonte sulle acque amare, deserte, naviga certe sere Dio con una sua barchetta, invisibile passerà accanto a te che nuoti disperato (può darsi benissimo) e ti toccherà con la sua mano»[26].
Certamente Dio non è proprietà dei «galantuomini», di quanti cioè non conoscono il male e il peccato. Il disco si posò racconta di due marziani che fermano il loro disco volante sul tetto di una chiesa e sono invitati dal parroco a entrare nella sua camera e a dichiararsi. Di noi — dicono — sanno tutto; soltanto non riescono a capire che cosa siano quelle croci, disseminate dappertutto. Il parroco, Bibbia alla mano, spiega la creazione, l’Eden, il peccato, la redenzione. Ha la percezione che quei due appartengano a gente che non conosce il peccato: pura, come gli angeli del cielo. Quando uno dei due chiede se la morte del Figlio di Dio sia servita a qualche cosa, don Pietro — il parroco — «si limita a fare un gesto con la destra, sconsolato, come per dire: che vuoi? siamo fatti così, peccatori siamo, poveri vermi peccatori che hanno bisogno della pietà di Dio. E qui cadde in ginocchio, coprendosi la faccia con le mani». Quando i marziani se ne vanno, così brontola: «Oh, poveretti […]. Voi non avete il peccato originale con tutte le sue complicazioni. Galantuomini, sapienti, incensurati. Il demonio non lo avete mai incontrato. Quando però scende la sera, vorrei sapere come vi sentite! Maledettamente soli, presumo, morti di inutilità e di tedio […]. Oh, Dio preferisce noi di certo. Meglio dei porci come noi, dopo tutto, avidi, turpi, mentitori, piuttosto che quei primi della classe che mai gli rivolgono la parola. Che soddisfazione può avere Dio da gente simile? E che significa la vita se non c’è il male, e il rimorso, e il pianto?»[27].
Dio? Forse è «uno che ti aspetta», per renderti felice, per toglierti ogni pena, liberarti dalla fatica, dall’odio e dagli spaventi della notte. «Ma tu, uomo, non sai. Continui qui a stentare la vita, ti intristisci, le prime rughe si sono formate sul volto, ti lasci ormai portare via dagli anni». Dove ti aspetta? Forse in qualche lontana terra d’Oriente? Ma no. Forse in una delle nostre città, forse tra le mura della tua stessa casa, forse è di là dalla porta, nella stanza accanto. «Se ne sta quieto ad aspettarti, non parla, non tossisce, non si muove, non fa nulla per richiamare l’attenzione. A te scoprirlo. Ma tu, uomo, non ti alzi nemmeno, non apri la porta, non accendi la luce, non guardi. Oppure, se vai, non lo vedi. Egli siede in un angolo, tenendo nella destra un piccolo scettro di cristallo, e ti sorride. Però tu non lo vedi. Deluso, spegni, sbatti la porta, torni di là, scuoti il capo infastidito da queste nostre assurde insinuazioni: fra poco avrai dimenticato tutto. E così sprechi la vita»[28].
Dio non fa nulla per richiamare la tua attenzione? Sembrerebbe. In realtà non è così. In una stupefacente nota, dopo aver ringraziato Dio per le meraviglie della creazione, Buzzati così prosegue:
«Ringrazio anche per le innumerevoli paure, delusioni, penose attese, malattie, di avermi insomma evitato la possibilità di essere felice allo scopo che l’esistenza a poco a poco mi appaia sempre più ingrata; e che io impari a lasciarla senza eccessivi rimpianti.
«Meravigliosa sollecitudine! Tutto è stato studiato in modo — catena sterminata di tragedie, di viltà, di scelleratezze, di mortali indifferenze — in modo che a poco a poco questa casa mi piaccia un po’ meno. E io cominci invece a desiderarne un’altra, precisamente quella che mi aspetta, forse.
«[…] Tutto e tutti intorno a me, fissandomi negli occhi, senza mai lasciar prevalere la mia astuzia avidissima, mi additano col loro esempio la vanità delle cose, o mi fanno cadere perché io senta come è ruvida la terra; con pazienza infinita disfano, via via che le tento, le trame della mia attesa. Non basta, vi dico. Cieco, io rialzo ogni volta la testa spregiando tanta sapienza che dilaga nell’universo.
«Ogni mattino ricomincio, stupidamente mi accingo a godere questo palazzo misterioso. Il coro giornaliero di pene, di singhiozzi e di morti mi minaccia invano. Io non voglio capire. L’ospite sorridendo non si stanca di additarmi la porta, invitandomi a guardare più in là, verso il regno felice. Ma io stupido mi ostino, resto seduto a giocherellare, aspettando, trastullandomi con delle pietruzze. Incaponito, me ne sto fermo, e trasalgo a ogni scricchiolio, nella solitudine del giardino»[29].
Se non ne conoscessimo l’autore, verrebbe da pensare che questa pagina sia stata scritta da un padre del deserto o da un asceta del Medioevo. E invero talune pagine di Buzzati, quando descrivono la miseria della vita e l’anelito alla liberazione, hanno sapore ascetico. Soltanto manca in esse il conforto della Grazia e la gioiosa consapevolezza della speranza cristiana.
Come conclusione riportiamo due testi nei quali Buzzati esprime il suo atteggiamento dinanzi alla religione. In un’intervista a Yves Panafieu, pochi mesi prima della morte, così si espresse: «Rimpiango di non avere la fede… Vorrei credere in Dio… Perché la fede in Dio (non dico nel Dio cattolico, ma in qualsiasi Dio) è una tale forza che ti cambia la vita! Non pretendo che ti possa fare felice, ma ti può fare assolutamente sereno di fronte a qualsiasi avversità… Quindi, questa nostalgia io ce l’ho! E chi è che può non averla?… Però io non credo più nel Dio che mi hanno insegnato, perché è una cosa assurda, crudele e ingiusta…»[30]. Non credeva — come anche noi non crediamo — nel Dio che punisce, nel Dio della legge ferrea, nel Dio freddo e lontano, dei filosofi e dei giansenisti. Il secondo testo è tratto dal suo libro più rivelatore In quel preciso momento: «Dio, pazientissimo, giorno e notte c’insegue, dove meno si pensa ci attende all’agguato, non ha bisogno di croci o di altari, anche nei vestiboli di marmo sterilizzato che non si possono nominare egli viene a tentarci proponendoci la salvezza dell’anima»[31]. Questi testi non definiscono un credente, ma uno spirito aperto alla fede che, a tentoni, cerca Dio perché ne percepisce l’esistenza e la presenza.
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[1] In Corriere della Sera, 21 marzo 1951.
[2] G. IOLI, Dino Buzzati, Milano, Mursia, 1988, 56. Segnaliamo questo volume della Ioli per acutezza di analisi e completezza di apparato critico.
[3] G. PULLINI, Il romanzo italiano del dopoguerra, Milano, Schwarz, 1961, 347.
[4] Cfr F. GIANFRANCESCHI, «Buzzati: la sua religiosità e i suoi critici», in A. FONTANELLA (ed.), Dino Buzzati. Atti del Convegno internazionale di Venezia, 3-4 novembre 1980, Firenze, Olschki, 1982, 75.
[5] Cfr D. PORZIO, «L’interpretazione religiosa nell’opera di Dino Buzzati», ivi, 68.
[6] G. PAMPALONI, «Lo scrittore», in Omaggio a Dino Buzzati. Atti del Convegno di Cortina d’Ampezzo, 18-24 agosto 1975, Milano, Mondadori, 1977, 61.
[7] G. IOLI, Dino Buzzati, cit., 34, e nota 94 (p. 62). Il testo paolino è in 1 Cor 13,12.
[8] G. GIANFRANCESCHI, Dino Buzzati, Torino, Borla, 1967, 150.
[9] D. BUZZATI, Barnabo dalle montagne, Milano, Mondadori, 1992, 99.
[10] Dino Buzzati: un autoritratto. Dialoghi con Yves Panafieu, ivi, 1973, 48.
[11] D. BUZZATI, «Ombra del Sud», in I sette messaggeri, ivi, 1942, 74 s.
[12] ID., Il deserto dei Tartari, ivi, 1983, 216 s.
[13] ID., Le notti difficili, ivi, 1993, 169.
[14] ID., Il deserto dei Tartari, cit., 254.
[15] G. IOLI, Dino Buzzati, cit., 149.
[16] D. BUZZATI, «Il mantello», in ID., La boutique del mistero, Milano, Mondadori, 1968, 70 (edizione fuori commercio per i lettori de «Il Sabato»).
[17] Ivi, 223.
[18] Ivi, 176.
[19] Ivi, 52.
[20] ID., In quel preciso momento, Venezia, Pozza, 1955, 17.
[21] Ivi, 35.
[22] ID., «Eppure battono alla porta», in ID., La boutique del mistero, cit., 53-65.
[23] F. GIANFRANCESCHI, Dino Buzzati, cit., 137.
[24] D. BUZZATI, Un amore, Milano, Mondadori, 1963, 344.
[25] ID., La boutique del mistero, cit., 150-154.
[26] ID., In quel preciso momento, cit., 36.
[27] ID., La boutique del mistero, cit., 142.
[28] ID., In quel preciso momento, cit., 74.
[29] Ivi, 23 s.
[30] Il testo riferisce un passaggio dell’intervista di Buzzati a Yves Panafieu. Lo riporta Pietro Biaggi in Avvenire del 24 gennaio 2002. P. Biaggi è autore dell’interessante volumetto Buzzati. I luoghi del mistero (Padova, Messaggero, 2001).
[31] ID., In quel preciso momento, cit., 158.