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Come è possibile conservare la necessaria unità di confessione della fede accanto a un pluralismo teologico? Nel 1984 p. Jorge Mario Bergoglio S.I. — allora rettore del Colegio Máximo de San José presso San Miguel (Argentina), con le sue facoltà di Filosofia e Teologia — scrisse il saggio che qui pubblichiamo per rispondere a una domanda che appare anche oggi di attualità. La soluzione alla domanda è esposta a esiti inadeguati. Da una parte, infatti, c’è l’errore di voler ridurre tutto a un denominatore comune, a un’unità astratta. Questo, in fondo, implica che la pluralità venga considerata una realtà negativa, generando uno spirito di reazione, di conformismo, di ghetto, di integrismo. In tal modo la teologia rinuncerebbe alla sua missione creativa, finendo per diventare ideologia. Dall’altra parte, se giungesse a non preoccuparsi dell’unità della fede, questo comporterebbe la rinuncia alla verità, l’accontentarsi di prospettive parziali e unilaterali. Qual è, dunque, la forma cristiana di unità? Bergoglio, valorizzando la riflessione di H. U. von Balthasar, articola la sua riflessione affermando che il mistero resta tale anche dopo essere stato rivelato, per cui la comprensione della fede conosce innumerevoli gradi di profondità. Il mistero cristiano non è «addomesticabile»: comporta un massimo di unità nel corpo di Cristo che è la Chiesa, insieme a un massimo di differenza tra i suoi membri. Il segno sarà l’unanimità nell’espressione plurale. L’unità superiore implica, dunque, che si sopportino tensioni e conflitti, che possono mostrarsi come dissonanze, e che tuttavia non vanno mai confusi con la «cacofonia» del monismo gnostico.