FILM
a cura di V. FANTUZZI
Il nastro bianco (Germania-Austria-Francia-Italia, 2009) Regista: MICHAEL HANEKE. Interpreti principali: C. Friedel, U. Tukur, B. Klaussner, J. Bierbichler, R. Bock, S. Lothar.
In un villaggio agricolo della Germania del Nord (dove le legioni romane non sono mai riuscite a penetrare) la vita procede anno dopo anno con il ritmo di un orologio di precisione. Qualcuno potrebbe dire che l’ordine regna sovrano in questo microcosmo perfettamente isolato dal mondo esterno, anche nel 1913, anno nel quale il regista austriaco Michael Haneke ha ambientato il suo film Il nastro bianco, realizzato in un rigoroso ed elegante bianco e nero.
Partiamo dal concetto di ordine, sotto il cui presidio, in linea di principio, dovrebbe scorrere la vita del villaggio. Esso è tutelato da personaggi chiamati a svolgere, per così dire, ruoli istituzionali. Padrone di tutto ciò che si vede all’intorno è il barone (Ulrick Tukur) che vive in una villa signorile, centro del potere incontrastato che egli esercita su tutti gli altri. Poi c’è l’intendente (Josef Bierbichler), braccio destro del padrone. Il Pastore (Burghart Klaussner) estende alla coscienza e alla mentalità i princìpi in base ai quali il potere viene esercitato legittimamente da chi lo detiene e dev’essere accettato con rassegnazione da chi non ce l’ha. Il medico (Rainer Bock) rappresenta la scienza. Il maestro (Christian Friedel) incarna i valori della cultura.
L’ordine, dal quale tutto sembra dipendere, è però soltanto una maschera dietro la quale si celano l’ingiustizia, la sopraffazione e la violenza che, salendo progressivamente di livello, hanno raggiunto e perfino superato il limite di ogni umana sopportazione. Da qui gli incidenti, vere e proprie azioni di programmato disordine, che capovolgono l’ordine apparente trasformandolo nel suo contrario. Chi ha teso una corda quasi invisibile tra due alberi, che provoca una rovinosa caduta del medico da cavallo e il suo conseguente ricovero in ospedale? Di lì a poco una contadina muore per un incidente sul lavoro. Il figlio della donna attribuisce la responsabilità dell’accaduto al barone e rimprovera il padre di non ribellarsi contro la prepotenza di chi tiene soggiogato lui e la famiglia come se si trattasse di animali. Il padre non parla, ovviamente, perché teme ritorsioni. Ci penserà il figlio a vendicare la madre decapitando con furore i cavoli del padrone.
Dopo aver vendicato la madre con l’ecatombe dei cavoli, il figlio si dà alla latitanza. La sua famiglia, molto numerosa, è privata dal barone di ogni fonte di sostentamento. Una notte scoppia un violento incendio (probabilmente doloso) nella fattoria. Il giorno successivo viene trovato impiccato il padre della famiglia messa sul lastrico. La disperazione può spingere a gesti estremi. Gli incidenti si susseguono lungo il film. Particolarmente raccapriccianti sono quelli che hanno come vittime alcuni bambini: il figlio del barone e un povero disabile figlio della levatrice (Susanne Lothar), la quale, dal canto suo, intrattiene una torbida relazione con il medico.
Dai gangli della sia pur minima società il concetto di autorità, intesa come potere assoluto, si estende alle singole famiglie dove il padre si comporta da padrone nei confronti della moglie e dei figli. In questo modo, con le migliori intenzioni, vengono perpetrati crimini mostruosi. Il potere arbitrario, esercitato dal padrone di casa, fa sì che egli possa coltivare indisturbato i suoi vizi. La levatrice è innamorata del medico, che è vedovo. Lui, dopo aver abusato di lei, la umilia con parole che sono un concentrato di frustrazione e sadismo. C’è il sospetto, non infondato, che con un comportamento di questo genere il medico abbia provocato la morte della moglie. Ora le sue attenzioni morbose si rivolgono alla più grandicella delle figlie.
Haneke osserva con puntigliosità i rapporti che intercorrono tra adulti e bambini. La pedagogia è, con tutta evidenza, l’argomento che gli sta più a cuore. Si tratta, come già si è capito, di una pedagogia sbagliata, per non dire perversa. Le punizioni corporali vengono inflitte a freddo per colpe praticamente inesistenti. Così accade nella famiglia del Pastore, dove ai colpi di verga si aggiungono umiliazioni impartite in pubblico con calcolata ferocia. I ragazzi, va da sé, si ribellano. La figlia più grande del Pastore si vendica facendo trovare al padre sulla scrivania il cadavere dell’uccellino che lui teneva in gabbia, al quale era particolarmente affezionato. Il figlio dell’intendente, che ha rubato un piffero al figlio del barone, sfida il padre e viene da lui massacrato con lo staffile in un impeto d’ira.
Quando il film è stato presentato al festival di Cannes, dove ha vinto la Palma d’oro nella primavera del 2009, alcuni critici hanno osservato che Il nastro bianco descrive l’ambiente dal quale successivamente sarebbe nato il nazismo. A nostro avviso, però, non c’è bisogno di evocare il fantasma di Hitler, che apparirà nel cielo plumbeo della Germania due decenni più tardi, se si tiene conto che il film si conclude con lo scoppio della prima guerra mondiale. I giovanotti che vediamo lavorare nei campi o danzare sull’aia nella festa per il raccolto stanno per diventare carne da cannone in quella che il Papa di allora (Benedetto XV) non esitò a definire «inutile strage».