
Costituito da paragrafi brevi, appunti scritti di getto, a metà strada tra riflessione diaristica e corrispondenza epistolare, il Diario di preghiera di Flannery O’Connor è un testo difficile da classificare. Si tratta di una serie di annotazioni contenute in un quadernino nero, ritrovato dall’amico Bill Sessions tra le cataste di inediti ancora sepolti nella soffitta di Andalusia, in Georgia, la fattoria dove la scrittrice viveva e scriveva. Non destinato alla pubblicazione, fu composto dal 1946 al 1947, lontano da casa, a Iowa City, dove una Flannery appena ventenne si era recata per studiare giornalismo e da dove invece ritornò con la consapevolezza che la sua strada era cambiata: aveva chiesto a Dio di diventare una scrittrice e la sua preghiera era stata esaudita.
Flannery O’Connor, nata nel 1925 a Savannah, in Georgia, da genitori di origine irlandese, nella sua breve vita scrisse ventisette racconti e due romanzi, prima che una grave insufficienza del sistema immunitario, chiamata «lupus eritematoso», ereditata dal padre, la spegnesse alle prime ore del mattino del 3 agosto del 1964, a soli trentanove anni. Nonostante la malattia e la produzione limitata, i ventisette racconti e i due romanzi le fruttarono in vita due lauree ad honorem e tre volte la vittoria dell’O. Henry Award, mentre nel 1988 la sua opera (che consta anche di lettere e saggi) fu inclusa nella prestigiosa collana Library of America. Nel 1979 John Huston trasse un film dal romanzo d’esordio del 1952, La saggezza nel sangue. A tutt’oggi, nel suo paese, Flannery O’Connor è molto letta e amata, come una autrice di culto.
Per uno scrittore «credere» è «vedere»
La poetica della scrittrice si fonda sulla concretezza e sulla «materialità», non sulle emozioni tumultuose o sulle idee grandiose. Con i concetti astratti e i presupposti teorici non si fanno storie. Per la O’Connor scrivere narrativa significa affrontare la realtà tramite ciò che si può vedere, sentire, odorare, gustare, toccare. Profondamente cattolica in un Sud radicalmente protestante, la scrittrice dà a Dio e alla dimensione spirituale una consistenza materiale o, per meglio dire, «sacramentale». Dio è un dato dell’esperienza, non un’intuizione della mente. Per la scrittrice non è il materiale a spiritualizzarsi, ma lo spirituale a materializzarsi, secondo il principio dell’Incarnazione. E ciò fa a pugni con ogni forma di psicologizzazione o mera simbolizzazione. La O’Connor punta al mistero. La sua visione del reale, pur concretissima, non è mai da école du regard, non è mai
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