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A 83 anni di età, Jean-Luc Godard ha presentato in concorso al festival di Cannes 2014 un film — che si avvale della tecnologia innovativa e non poco spiazzante del 3D — con il quale ha ottenuto il premio speciale della giuria. Il film, che ha per titolo Adieu au langage, è uscito con qualche ritardo nelle sale italiane, dove è stato proiettato in versione originale con sottotitoli. Ma privo dell’effetto 3D.
Lo spettatore è invitato a partecipare a un evento anomalo rispetto alla consueta fruizione cinematografica, capace di stimolare in lui la voglia d’ingaggiare una sorta di partita a scacchi con un autore che, se da una parte non ha mai perso la sua capacità di stupire, dall’altra ha saputo mantenersi fedele, pur nel mutare delle circostanze, al criterio da lui formulato una cinquantina di anni fa quando, nel bel mezzo del clamore suscitato dall’avvento della Nouvelle Vague, enunciò categoricamente che il cinema è uno strumento fatto per pensare.
Sulle rive di un lago
In un biglietto scritto a mano, riprodotto nel dossier per la stampa, Godard scrive: «L’idea del film è semplice. Una donna sposata e un uomo libero s’incontrano, si amano, litigano, si separano. Un cane va e viene tra città e campagna. Le stagioni passano. L’uomo e la donna sono di nuovo insieme. Il cane è con loro. L’uno è nell’altro, l’altro è nell’uno. Ecco le tre persone. L’ex marito manda tutto in frantumi. Comincia un secondo film uguale al primo. Ma non è così. Dalla specie umana si passa alla metafora. Tutto finisce tra i guaiti di un cane e i vagiti di un neonato».
Vedendo Adieu au langage ci si accorge che le cose non sono semplici come dice Godard. Oltre a darle un prologo e un epilogo, il regista divide la pellicola in due capitoli: «1. La natura», «2. La metafora», suddivisi a loro volta in due parti che si alternano reciprocamente. Protagonisti del primo capitolo sono Josette (Héloïse Godet) e Gédéon (Kamel Abdeli). Protagonisti del secondo sono Ivitch (Zoé Bruneau) e Marcus (Richard Chevallier). L’ex marito di Josette è un banchiere, quello di Ivitch è un organizzatore di eventi. Il cane, che ha nome Roxy, svolge il suo ruolo con naturalezza.
L’aspetto più rilevante del film consiste nella sua frammentarietà. Ciò che, secondo l’aspettativa comune, dovrebbe restare in sottofondo, fungendo da tessuto connettivo rispetto a ciò che di solito viene posto in maggiore evidenza, balza improvvisamente in primo piano. L’attenzione, che segue con fatica il filo di un ragionamento, è distolta dal suo percorso per via di un’interruzione, un inciso, un improvviso cambio di argomento, un salto da una storia a un’altra.
L’eterno conflitto tra natura e cultura viene riproposto nel film con una variante: invece che di cultura, si preferisce parlare di metafora. Così come esiste un linguaggio naturale, tautologico (una rosa è una rosa…), con altrettanta naturalezza si può passare dal linguaggio naturale al linguaggio metaforico, quando la rosa, riflettendo senza rendersene conto su se stessa, parla della propria bellezza.
Svizzera. Lago di Ginevra. Un piroscafo, il Savoie, scivola sull’acqua trasportando gruppi di turisti. Inquadrato con la macchina da presa sul pelo dell’acqua, il piroscafo sembra suggerire metaforicamente l’idea di un viaggio verso terre lontane, ma non è così. Siamo a due passi dalla casa dove Godard si è ritirato da alcuni decenni con la moglie, Anne-Marie Miéville, per condurre una vita semieremitica. Il film non propone altri viaggi se non quelli che si possono fare con l’aiuto dell’immaginazione.
Eppure, a pensarci bene, anche senza allontanarsi dalla propria casa c’è tutto un mondo da scoprire. Basta fare attenzione a tante piccole cose che sfuggono a chi non è dotato, diciamo così, di uno sguardo da artista. La macchina da presa può essere usata come un microscopio, tanto più al giorno d’oggi, con le possibilità che offrono le nuove tecnologie elettroniche. Ecco là una pozzanghera con foglie morte che vi marciscono dentro. C’è chi si limita ad allungare il passo per andare oltre. Ma c’è chi si sofferma e vede aprirsi davanti ai suoi occhi un ventaglio dai colori smaglianti, ricchi d’infinite sfumature, tra spicchi di cielo azzurro che si riflettono nello specchio d’acqua e raggi di sole che, facendosi largo tra il fogliame degli alberi circostanti, ravvivano le diverse gradazioni di grigio che il terriccio assume quando diventa fango.
Nel giardino delle Muse
Il cinema, che un tempo veniva indicato come decima Musa, sembra fatto apposta per accogliere in sé tutte le arti che lo hanno preceduto e dalle quali, in qualche modo, deriva: architettura, scultura, pittura, oltre alle cosiddette «arti minori», ma anche letteratura, musica, danza, poesia… Un regista che vuole essere padrone per intero della sua opera deve sorvegliare in ogni momento l’afflusso dei contributi che provengono dall’esterno. Non può limitarsi a scegliere: questo sì, questo no. Ma deve essere capace di dosare e miscelare gli ingredienti come in un cocktail.
Godard dispone di una grande abilità in questo campo. Elaboratissime sono le colonne sonore dei suoi film, dove la musica classica si mescola con la musica moderna, i rumori con il silenzio. Tra i materiali presi a prestito dalle arti del passato, assieme ai capolavori della pittura (Monet) e della scultura (Rodin), non mancano citazioni ricavate da film classici, immagini in bianco e nero che contrastano con quelle dai colori saturi, ottenute con le moderne tecnologie digitali.
Mentre la natura s’inserisce armoniosamente nel contesto delle arti per comporre accostamenti di suoni e colori ora gioiosi e ora mesti, la storia interviene con esplosioni e bagliori di luce che provocano sgomento.
L’uomo e la donna che si confrontano nelle diverse sequenze non sanno di trovarsi al centro di pulsioni contrastanti, le cui radici affondano nella natura stessa, che li ha fatti non uguali, ma simili e complementari, soggetti a limiti e manchevolezze che possono essere fonte di reciproca infelicità. A ciò si aggiunge la dura eredità della storia, che ha lasciato dietro di sé lungo i secoli una scia ininterrotta di prevaricazioni e prepotenze.
Il film spezzetta in un’infinità di frammenti tutto ciò che si riferisce all’esperienza quotidiana delle due coppie che si avvicendano sullo schermo. In casa o fuori vediamo Josette e Gérard, oppure Ivitch e Marcus, alle prese con incidenti non sempre gradevoli, che rendono complicata la vita di relazione.
Godard tratta le due vicende speculari non come se fossero vissute dai personaggi di una fiction, ma da persone reali. Il personaggio, come dice Ivitch guardando alla televisione la protagonista del film Metropolis di Fritz Lang, è costretto a muoversi dentro uno schema, a comportarsi secondo regole prestabilite, a recitare la sua parte… La persona non recita: è. Per questo Godard evita, nella misura del possibile, le scene costruite e privilegia il frammento «rubato» alla realtà.
Nel frammento diventa significativo ciò che apparentemente non lo è. Due piatti sporchi rimasti sul tavolo dopo la cena. Stop a un incrocio davanti al semaforo rosso. Pioggia e neve nel buio. Schizzi di fango sul parabrezza, che il tergicristallo stenta a rimuovere. Tutti i diaframmi che si frappongono tra chi guarda e la cosa guardata. Bagliori di luce riverberati da superfici lucide. Al caos che ingombra gli esterni, ripresi nel contesto urbano, si contrappone la precisione geometrica degli interni, sulla quale interviene però la posizione sghemba della macchina da presa che produce immagini oblique.
Ai giochi di parole, frequenti nei dialoghi di Godard, si associano giochi d’immagini. Un uomo e una donna davanti a uno specchio, ripresi con una determinata angolazione, possono sembrare quattro invece di due.
Uno schizzo di vernice rossa (pare sangue) nel lavabo o nella vasca da bagno allude ai tanti casi di violenza domestica di cui purtroppo sono piene le cronache in questa società che si dice opulenta.
Josette, che ha una vistosa cicatrice tra il naso e il labbro superiore, pronuncia a nome di tutte le donne maltrattate le parole di un’eroina antica, Antigone, rielaborate da un drammaturgo moderno: «Mi date il disgusto con la vostra ostentata gioia di vivere e con l’idea che la vita deve essere amata a ogni costo. Io sono qui per un’altra cosa. Sono qui per dire no e per morire».
Non mancano parole che potrebbero essere utili per cercare di capirsi reciprocamente. Anzi, a dire il vero, di parole ce ne sono perfino troppe. «Le parole: sono stanco di sentirne parlare», è una battuta del film. Godard tenta di sbarazzarsi delle parole in eccesso. «Cerco la povertà del linguaggio», dice. Il percorso indicato non va dal meno al più, ma dal più al meno. Dalla parola al balbettio, dal rumore al silenzio.
Dopo essersi inebriato delle sue conquiste intellettuali, che non gli assicurano la felicità, ma, al contrario, sembrano farlo precipitare sempre più in basso, tra ansie e nevrosi, all’uomo non resta forse che cambiare direzione. Ritornare alle origini. Riscoprire (nel senso più genuino) la propria animalità. Un’indicazione in questo senso sembra provenire dalla presenza del cane Roxy, che si fa sempre più insistente a mano a mano che il film si avvia verso la conclusione.
Godard e la moglie dipingono ad acquerello. Il pennello scioglie le zollette di colore riducendole in poltiglia. «È difficile oltrepassare la superficie per arrivare in profondità», dice lui. I due si scambiano qualche battuta sui problemi che non sono ancora riusciti a risolvere: quello della sofferenza e quello dell’eternità. Il film sta per finire. Si odono nella colonna sonora i guaiti di un cane e i vagiti di un neonato. Muore il vecchio linguaggio con il suo groviglio, divenuto inestricabile, di significanti e significati logorati dall’uso. Nasce un linguaggio nuovo, duttile e maneggevole, vicino alla natura.
Spigolature
Mentre scorrono le ultime immagini del film, l’emozione che avvertiamo richiama alla mente altre emozioni che Godard ci ha regalato con film che si sono succeduti lungo il corso dell’ultimo mezzo secolo, a partire dal suo esordio clamoroso.
Era il 1960 quando giunse sugli schermi italiani À bout de souffle (Fino all’ultimo respiro), realizzato l’anno precedente con metodi ritenuti sbrigativi. Il mondo degli addetti ai lavori si divise nettamente in due parti. Ai commenti sarcastici dei denigratori si opponevano gli elogi sperticati di chi diceva che, dopo di allora, il cinema non sarebbe stato più quello di prima. Cosa si vedeva sullo schermo?
Michel (Jean-Paul Belmondo) ruba un’automobile a Marsiglia e, sulla strada per Parigi, uccide un poliziotto che lo insegue in motocicletta. Arrivato a Parigi, incontra Patricia (Jean Seberg), una giovane americana che vorrebbe fare la giornalista e che egli invita ad andare con lui in Italia. Per convincere se stessa che non ama Michel, Patricia lo denuncia. Rifiutando una possibilità di fuga che gli viene offerta da un amico, Michel, colpito da una pallottola alla schiena, muore su un marciapiede degli Champs-Elysées.
Si è parlato a lungo dell’anarchismo di Michel-Belmondo, del suo vivere alla giornata senza princìpi né punti di riferimento, passando da un furto d’auto a un omicidio, da una promessa non mantenuta a un colpo di testa che gli costa la vita (omicidio o suicidio mascherato?). In bilico tra il tutto e il niente, Michel opta per il niente, anche perché, a pensarci bene, il tutto che pretende di avere a buon prezzo in realtà non esiste. Nutrito dai falsi miti del cinema americano, egli si congeda dal pubblico con l’ultima boccata di fumo, l’ultima smorfia, l’ultima parolaccia rivolta alla donna che lo ha tradito (alla vita che lo sta lasciando…): Dégueulasse.
Ma più che alle questioni di fondo che l’argomento può sollevare, l’attenzione prevalente è stata rivolta alla forma del film. Il modo disinvolto con il quale è stato realizzato, nel disprezzo di tutte le regole che, fino a quel momento, venivano considerate come l’ABC del cinema che conta. Sapere dove si vuole arrivare e scegliere la strada più breve per arrivarci: questa è la regola che, da sola, fa piazza pulita di tutte le altre. Rossellini c’era arrivato per necessità di cose quando, nell’immediato dopoguerra, era stato preso tra l’urgenza di dire quello che in quel momento non poteva essere taciuto e la mancanza di mezzi idonei per poterlo fare. L’emergenza aveva spronato l’energia creativa ad andare oltre un limite che, fino a quel momento, era ritenuto invalicabile.
«Si può fare», deve essersi detto Godard all’inizio della sua avventurosa carriera. È una questione d’intelligenza e di coraggio.
Se À bout de souffle è la ricerca di un modo nuovo di pensare il cinema, Vivre sa vie (Questa è la mia vita, 1962) è la verifica della possibilità che questo modo di fare cinema, privo di fronzoli e ornamenti inutili, ha di raggiungere l’anima di una persona. Il film è diviso in dodici quadri numerati e preceduti da un breve sommario.
1) Nanà (Anna Karina), inquadrata di spalle al banco di un bar, sta parlando con Paul (André S. Labarthe). È la conversazione amara di due ex innamorati che si sono lasciati. Tutti e due sono senza quattrini.
2) Un unico piano-sequenza nel negozio di dischi dove lavora Nanà che serve un cliente. Chiede a una collega se può prestarle 2.000 franchi. La risposta è no.
3) Nanà, che non può pagare l’affitto, viene sfrattata. Va al cinema e vede La passione di Giovanna d’Arco (1928) di Dreyer. Il suo primo piano, con gli occhi sgranati, si alterna sullo schermo con quelli della Falconetti e di Antonin Artaud, il quale annuncia a Giovanna l’approssimarsi dell’ora della sua morte sul rogo. Le lacrime della Karina si «mescolano» con quelle della Falconetti.
4) Nanà viene interrogata dalla polizia. È stata denunciata per essersi appropriata di 1.000 franchi. Lei dice di averli raccolti per terra.
5) Sui boulevards extérieurs Nanà vede le donne da marciapiede che aspettano i clienti. Incontra un uomo (Gilles Quéant) che la invita a entrare con lui in un albergo. Non sa come ci si comporta in casi di questo genere.
6) Nella strada di un quartiere malfamato Nanà incontra un’amica, Yvette (Guylaine Schlumberger), che, abbandonata dal marito, fa la vita per mantenere la famiglia. In un bar Yvette presenta Nanà a Raoul (Sady Rebbot), che è il suo protettore.
7) Nanà scrive una lettera alla tenutaria di una casa chiusa chiedendole di potersi stabilire da lei. Sopraggiunge Raoul, che le propone di lavorare per lui.
8) Raoul accompagna in auto Nanà, che gli chiede informazioni su quello che dovrà fare. Raoul elenca con voce da speaker radiofonico tutti i commi del regolamento che le professioniste del sesso sono tenute a osservare.
9) Nanà si sente trascurata da Raoul, che una domenica pomeriggio non la porta al cinema. Vede un ragazzo biondo che gioca da solo al biliardo e la guarda non come se fosse una cosa, ma come la persona che effettivamente è.
10) Nanà si è impratichita del mestiere. Per accontentare un cliente particolarmente esigente, chiede aiuto a una collega. Sentendosi esclusa dal gioco, prova un senso di frustrazione.
11) In un caffè, Nanà abborda uno sconosciuto. È il filosofo Brice Parrain, con il quale ha una lunga conversazione sull’uso della parola e sul silenzio, sulla verità e sull’inganno, sul senso della vita e sull’amore…
12) Torna il ragazzo biondo del biliardo. Parla con Nanà usando il linguaggio del cinema muto. Nanà, innamorata del giovane, vuole rompere con Raoul, ma questi la porta in un luogo di periferia, dove intende cederla per denaro a un altro protettore. I due uomini non si mettono d’accordo sul prezzo. Estraggono le pistole e sparano. Nanà muore colpita da entrambi.
«Bisogna prestarsi agli altri e darsi a se stessi»: è una frase di Montaigne che chiude il film e ne esprime il significato.
Tra cielo e mare
Nel 1963 Godard viene in Italia per girare Le mépris (Il disprezzo), un film tratto dal romanzo omonimo di Alberto Moravia. Secondo il regista, si tratta di un grazioso e volgare romanzetto da leggere in treno, pieno di sentimenti classici e fuori moda nonostante la modernità delle situazioni. «Ma proprio con questo genere di romanzi — egli dice — spesso si possono fare buoni film».
La storia. Lo scrittore e sceneggiatore Paul Javal (Michel Piccoli), sposato con la bella Camille (Brigitte Bardot), è stato chiamato a Cinecittà dal produttore americano Prokosch (Jack Palance). Questi sta realizzando un film tratto dall’Odissea, affidato al regista Fritz Lang (che recita nel ruolo di se stesso), ma teme che il prodotto sia poco commerciale e chiede a Javal di intervenire sulla sceneggiatura. In sala di proiezione si vedono inquadrature solari di eroi e statue policrome. Giunge Camille e Prokosch inizia subito a corteggiarla. Paul sembra favorire la cosa e Camille ne è seccata.
Lunga sequenza nell’appartamento nuovo, ma non ancora ammobiliato né interamente pagato, di Paul e Camille. Passando da una stanza all’altra in un continuo variare di comportamenti e attitudini, i due recitano il dramma della fine del loro matrimonio. Da quando si è accorta che Paul, per amore dei soldi, lascia che Prokosch le ronzi intorno, Camille ha cominciato a guardare il marito con occhi diversi. Dopo una nuova riunione con il produttore e il regista, tutti si danno appuntamento per l’indomani a Capri, dove si devono girare alcune scene.
A Capri iniziano le riprese sul mare (il ritorno di Ulisse a Itaca). La casa dove Prokosch abita è quella che è stata costruita su uno sperone di roccia negli anni Trenta del secolo passato dallo scrittore Curzio Malaparte, su disegno dell’architetto «razionalista» Adalberto Libera. Prosegue la corte sempre più serrata di Prokosch a Camille. Paul vorrebbe lasciare l’incarico che gli è stato affidato per dedicarsi al teatro che, a suo dire, gli è più congeniale del cinema.
La discussione avviene nel salone della villa, con ampie finestre, da dove si vedono le rocce a picco sul mare. Paul non riesce a togliersi dal volto la maschera dell’uomo mediocre e meschino, che suscita il disprezzo di Camille. Quest’ultima, che ha deciso di lasciare il marito per tornare a fare la dattilografa, accetta un passaggio da Prokosch, che sta per tornare a Roma con la sua rombante Alfa Romeo fuoriserie. Alle porte della capitale, vanno a sbattere contro un camion e muoiono entrambi, mentre sull’isola proseguono le riprese del film, perché, come dice Lang: «Bisogna sempre finire quello che si è cominciato».
Il film si divide in due parti: un pomeriggio a Roma e una mattinata a Capri. Roma è il mondo moderno: il nostro Occidente. Capri è il mondo antico: la natura com’era prima dell’avvento della nuova civilizzazione con le sue nevrosi. Più che la storia di una donna che disprezza il marito, il film dovrebbe essere visto come una storia di naufraghi del mondo occidentale, che approdano su un’isola deserta e misteriosa, il cui unico mistero consiste nella totale assenza di mistero. I personaggi dell’epoca moderna si muovono sotto lo sguardo del grande cinema (quello di Lang), così come i personaggi omerici si muovono sotto lo sguardo degli dèi.
Il 1965 è l’anno di Pierrot le fou (malamente tradotto in italiano come Il bandito delle undici). Ritroviamo Belmondo in un ruolo non del tutto dissimile da quello del protagonista di À bout de souffle. Una vita vissuta senza agganci concreti con la realtà, come una corsa folle verso la morte. Si chiama Ferdinand, ma la sua ragazza (che è la sua vita e la sua rovina) preferisce chiamarlo Pierrot. Ritorna anche Anna Karina, con il suo volto ovale da angioletto botticelliano. Si chiama Marianne Renoir, e il cognome rinvia senza dubbio al grande August, ai cui volti di donna è sovente accostato il primo piano dell’attrice.
Impossibile riassumere in poche righe le avventure rocambolesche di Ferdinand e Marianne, tra fughe, inseguimenti, scontri a fuoco, rapimenti, torture… Agendo con grande libertà sul corpo del film, Godard porta a compimento, tra inserti ed ellissi, quel lavoro di destrutturazione del linguaggio cinematografico tradizionale che aveva iniziato con À bout de souffle. Non si può tuttavia non ricordare il momento felice che Ferdinand e Marianne vivono immersi nella natura rigogliosa del Midi, quando cantano e danzano in una pineta in riva al mare. Pare che i due attori, dimenticando che sono dentro un film, si abbandonino a un gioco del tutto gratuito, che Godard asseconda con movimenti fluidi della macchina da presa. Questa scena può essere considerata come l’esatto contrario di quella vissuta da Piccoli e dalla Bardot nell’appartamento romano del Mépris, dove si accanivano nel riversare l’uno sull’altra le frustrazioni dell’infelice vita borghese.
Ma la felicità è di breve durata. Incombe il finale tragico su un’isola del golfo di Marsiglia. Ferdinand uccide Marianne per errore. Poi prepara per se stesso una morte teatrale e fantasmagorica: si colora la faccia con vernice blu. Si lega attorno al capo candelotti gialli e rossi di dinamite e, in cima a una collina, dà fuoco alla miccia. All’ultimo momento ci ripensa, ma è troppo tardi. La carica esplode.
Le ultime immagini di Le mépris e di Pierrot le fou sono identiche. Sia sulla Costa Azzurra, sia nel golfo di Napoli, la macchina da presa scivola in lenta panoramica sulla linea dell’orizzonte, lasciandosi alle spalle il mondo degli uomini per fissare l’azzurro del cielo che si rispecchia nell’azzurro del mare, in un delirio di luce che è la stessa, sia qua sia là.
Il mare è quel mare, il cielo è quel cielo, la luce è quella luce… Ma, al di là del senso letterale delle cose, c’è un altro senso che può essere letto in trasparenza. Anche qui la natura si sposa con la metafora. In coincidenza con il finale tragico dei due film, cielo e mare, acqua e luce, con la loro presenza abbacinante esprimono un irresistibile anelito verso l’infinito.
Alle soglie del mistero
Godard è nato in un’agiata famiglia protestante e conserva ricordi gradevoli dell’ambiente, legato alla religione, nel quale ha trascorso l’infanzia e la prima giovinezza, anche se oggi ritiene di non appartenere a nessuna confessione specifica. Nella maggior parte dei suoi film si è tenuto lontano da argomenti che si riferiscono esplicitamente alla religione. Il tono anarchico che contraddistingue molte delle sue prese di posizione non ha mancato di attirare su di lui la fama di ribelle nei confronti di tutte le convenzioni comunemente accettate nei vari campi del pensiero e del comportamento, comprese quelle che riguardano la pratica religiosa.
Rispetto alla sostanziale laicità dei suoi film, ha suscitato una certa sorpresa nel 1982 l’uscita di Passion, un film il cui titolo, sia pure con un’ombra di ambiguità, pare riferirsi alla passione di Cristo. È la storia di un regista polacco, Jerzy (Radziwiłowicz), che sta girando un film basato su tableaux vivants tratti da capolavori dovuti al pennello di Rembrandt (La ronda di notte), di Goya (Le fucilazioni del 3 maggio), di Delacroix (L’ ingresso dei crociati a Costantinopoli), di El Greco (L’ Immacolata Assunta)…
Un po’ come accadeva in Le mépris, anche Passion è diviso in due parti, film e film nel film, che si avvicendano reciprocamente. La prima parte, quella con le riproduzioni dei quadri, è stata girata nei teatri di posa di Billancourt (presso Parigi). La seconda, con episodi di vita vissuta, è stata girata in Svizzera attorno al lago di Ginevra. I quadri sono accompagnati da musiche solenni, per lo più di chiesa (Beethoven, Mozart, Fauré…). Alla solennità della musica classica si oppongono i rumori sgradevoli che si associano alle azioni, quasi sempre conflittuali, della vita quotidiana.
Ci sono ovviamente interferenze tra ciò che si vede nei quadri d’autore e ciò che si vive nella realtà. C’è una relazione, ad esempio, tra i crociati che saccheggiano Costantinopoli, nel quadro di Delacroix, e i poliziotti che, chiamati dal padrone di una fabbrica, reprimono con violenza la protesta degli operai in sciopero. Si giunge così allo strano amalgama che si stabilisce tra L’ Immacolata Assunta di El Greco e il rapporto di Isabelle (Huppert), un’operaia attiva nel sindacato, licenziata dal padrone, con il regista Jerzy.
«Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, dona eis requiem…», mormora Isabelle mentre aspetta Jerzy in una camera d’albergo. È la preghiera che, nella colonna sonora, viene cantata sulle note del Requiem di Fauré mentre la macchina da presa, con un movimento di dolly, sale lungo l’ala piumata di un angelo per andare a scoprire il volto della Vergine circondata da cherubini… Il testo liturgico, la musica sublime, il pennello mosso dalla fantasia di El Greco, la macchina da presa gestita da Jerzy (alias Godard) avviluppano con un movimento unico il mistero che dal quadro rimbalza nella realtà, dove rimarrebbe privo di ogni possibilità di comprensione se non venisse in qualche modo riferito a ciò che il quadro rappresenta.
È a questo punto che, con ogni probabilità, si è fatta strada nella mente di Godard l’idea di fare quello che può essere considerato come il più straordinario dei suoi film, Je vous salue, Marie (1984), nel quale il regista affronta esplicitamente il suo rapporto problematico con la religione.
Godard entra in contatto con i primi due capitoli del Vangelo di Luca non direttamente, ma attraverso la mediazione di un libro scritto dalla psicanalista credente Françoise Dolto in dialogo con il suo collega Gérard Séverin: L’ Évangile au risque de la psychanalyse (Parigi, 1977). Dalle pagine del Vangelo, secondo la Dolto, non provengono affermazioni apodittiche, ma «onde d’urto che colpiscono la coscienza e si propagano fino all’inconscio, facendone scaturire gioia e desiderio di conoscere…». Domande più che risposte. Un gioco nel quale Godard, i cui film sono zeppi di quesiti irrisolti, si è lasciato coinvolgere volentieri.
Je vous salue, Marie non è un’attualizzazione del mistero dell’Incarnazione. Non intende rispondere alla domanda: cosa accadrebbe se Gesù tornasse a nascere oggi tra noi? È semplicemente l’esposizione di un caso, intriso di mistero, nel quale sono coinvolti due giovani dei nostri giorni, che vivono nei pressi di Ginevra. Giuseppe (Thierry Rode) fa il tassista. Maria (Myriem Roussel) è una benzinaia che gioca a basket. Dopo la scritta «In quel tempo», che ritorna sovente nel film, appaiono immagini della natura.
Un’inquadratura della luna piena. Un aereo atterra. Ne scende un giovane male in arnese, dai modi bruschi, che si fa chiamare Gabriele, accompagnato da una bambina. Prende un taxi — l’autista è Giuseppe — e si fa portare al distributore dove Maria lavora aiutando suo padre. Giuseppe guarda l’individuo con diffidenza. È innamorato di Maria e vorrebbe uscire con lei. Lo sconosciuto dice alla giovane: «Tu avrai un figlio», e riparte con il taxi.
Maria comunica a Giuseppe di essere incinta. Ma, come aveva fatto con Gabriele, aggiunge: «Non conosco persona». Lui non le crede. Vorrebbe farla sua, ma lei resiste. Il medico di famiglia, dopo averla visitata, si convince che, pur essendo incinta, è vergine. Lunga inquadratura del sole. Giuseppe vede nuovamente Gabriele, che lo rimprovera e lo malmena perché non si fida di Maria. Lunga sequenza del travaglio di Maria, intervallato da immagini della natura.
Inverno. Il Natale è descritto in tre inquadrature: un aereo che atterra, un camera-car che segue uno spazzaneve mentre si odono vagiti fuori campo, una mucca che lecca il vitellino appena nato. Maria è venuta a partorire in una fattoria. Un asinello completa il presepe.
Maria porta il bimbo nella casa di suo padre. Giuseppe lavora nella stazione di servizio del suocero. Qualche anno dopo, il piccolo gioca a palla con gli amichetti e dà ad essi dei nomi nuovi. In casa è un po’ disobbediente, ma Maria non si preoccupa. Riappare Gabriele, che rivolge a Maria le parole del noto saluto (il titolo del film), ma pronunciate con un tono brusco, che le fa apparire come un segno di commiato.
Alla storia casta di Maria e Giuseppe si contrappone quella impudica di un professore di scienze che intreccia con una studentessa, di nome Eva, un rapporto all’insegna dell’usa e getta. Ma la struttura del film non è duplice, come accadeva in Le mépris e in Passion. Alla doppia serie delle immagini dedicate all’amore sacro (Maria e Giuseppe) e all’amore profano (Eva e il professore) se ne aggiunge una terza: quella delle immagini della natura (sole, luna, riflessi della luce nelle acque del lago, un temporale…), dove si vede quello che si vede, ma, nello stesso tempo, si può intuire la presenza di qualcosa che non si vede ma c’è. Un significato simbolico e misterioso, in qualche modo trascendente. La metafora. Luna uguale madre. Sole uguale Dio e così via… Il mistero di cui si parla in questo film non è l’Incarnazione del Figlio di Dio, ma è il mistero che si cela nella nascita di ogni uomo, la cui origine è solo in parte di natura umana. Il mistero che si manifesta in ogni atto di amore che, per essere sincero, richiede un atteggiamento di totale fiducia da parte di chi ama nei confronti di chi è amato.
Ricominciare daccapo
Torniamo ad Adieu au langage, che avevamo lasciato con i guaiti di un cane e i vagiti di un neonato che risuonavano nel finale. Tra i commentatori del film c’è chi non ha mancato di mettere l’accento sul fondo di amarezza e di scetticismo che pervade la visione dell’ultimo Godard, soprattutto per quanto riguarda la vita di coppia, esemplificata nei rapporti tra Josette e Gédéon, e in quelli tra Ivitch e Marcus, da uno stato di conflittualità permanente, privo di ogni possibilità di soluzione. Se questa è la condizione dell’uomo e della donna sulla terra (Adamo ed Eva cacciati dal Paradiso terrestre), è giunto forse il momento di cominciare a proporre qualcosa di nuovo, partendo dal linguaggio, che è l’elemento primordiale sul quale si fonda la vita di relazione. In questo può rivelarsi utile l’esempio del cane.
Le inquadrature che riguardano la vita di Roxy sono tra le più belle del film. È come se gli occhi di un cane potessero insegnarci a guardare in maniera diversa un ruscello, a scrutare in profondità l’acqua che zampilla dalla roccia e scorre limpida tra i sassi coperti da una peluria di muschio liscia come il velluto, oppure un prato, un bosco, la superficie del lago…
Guardando Roxy che scopre il mondo, ci si domanda: cosa vede e come lo vede? Il film suggerisce di guardare le cose come le vede lui… Roxy non si limita a osservare il ruscello che scorre, lo ascolta, lo annusa, ci si immerge dentro, lo beve… Attraverso lo sguardo di Roxy, Godard ci invita a fondare su nuove basi la nostra percezione, a mettere da parte i filtri culturali, che impediscono di vedere le cose come sono, a riconoscere che la natura è parte di noi, come noi siamo parte di un mondo che ci oltrepassa da ogni lato, del quale ignoriamo quasi tutto, a cominciare dalle cose più umili e semplici, che stanno sotto i nostri occhi, ma che non sappiamo né guardare né ascoltare.
Bisogna forse saper dire addio al linguaggio inteso come strumento elaborato da chi se ne serve per parlare senza farsi capire, per costruire labirinti nei quali i ragionamenti girano a vuoto e ad ogni passo si aprono trabocchetti che impediscono di raggiungere la verità, mentre le voci di chi parla senza costrutto si sovrappongono le une alle altre, fino a formare un chiacchiericcio confuso e assordante. Usciti dall’Eden, siamo giunti ai piedi della torre di Babele, dove regna la confusione delle lingue.
Perfino la natura, violentata dagli interventi pervasivi dell’uomo, sembra fare fatica a riconoscere se stessa.
Per entrare in sintonia con la natura, coglierne i suoni, i colori, gli odori, bisogna prima di tutto imparare ad apprezzare il silenzio. Mettere un freno non soltanto alle parole, inutili e fastidiose, che escono dalla bocca, ma anche ai pensieri che la mente rimugina con un lavorio incessante. Non siamo noi il perno attorno al quale ruota l’universo.
Guardare, ascoltare, percepire con i sensi, aprirci a ciò che ci circonda e che non vale meno di noi. Quante cose potremmo imparare non soltanto da un cane, ma perfino da un sasso che, immobile sul fondo di un torrente, si lascia levigare dall’acqua che scorre sopra di lui…
Ma, dopo aver praticato a lungo il silenzio, ci si accorge che, anche per dedicarsi alla contemplazione del creato, non si può fare a meno del linguaggio. La natura stessa ha un suo linguaggio. Partiamo da quello. Evitiamo d’inerpicarci per il sentiero sassoso delle elucubrazioni e dei ragionamenti. Limitiamoci a seguire un percorso piano, quello che la natura stessa ci offre. La mente scivola da cosa a cosa danzando sul tenue filo della metafora.
Bisogna essere un po’ acrobati, come gli insetti, per imparare a vivere nel mondo. Riapprendere il senso originario che le parole avevano quando sono state inventate lì per lì e pronunciate per la prima volta. Dare l’addio a un linguaggio logoro e vecchio, non più capace di cogliere il senso autentico delle cose, e riscoprire l’innocenza che il linguaggio aveva in origine. Questo è il compito della poesia. Potrebbe essere anche il compito del cinema, quando le immagini e i suoni, dei quali un film si compone, capitano tra le mani di un regista come Godard, che non si limita a ripercorrere la strada sulla quale tanti altri registi hanno camminato prima di lui, ma ha il coraggio di dire: «Adesso basta. Bisogna ricominciare daccapo».
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