The Wrestler (Usa, 2008). Regista: DARREN ARONOFSKY. Interpreti principali: M. Rourke, M. Tomei, E. R. Wood, M. Margolis, T. Barry, W. Stevens, J. Friedlander, E. Miller, D. Summers.
Nel film Il bidone (1955) Federico Fellini mostrava un gruppo di imbroglioni che, per truffare ingenui contadini, mettevano in scena ritrovamenti di falsi tesori avallati da altrettanto falsi prelati. Prima di entrare in azione (o, se si preferisce, in scena) i «bidonisti» si accordavano sui rispettivi ruoli e sul copione che stavano per recitare. Ne risultava, per quanto riguarda il film, un gioco di rinvii tra preparazione del colpo (inteso come spettacolo nello spettacolo), recita vera e propria, ritorno dalla finzione alla realtà dopo la rappresentazione. Un simile gioco di rinvii tra ciò che si svolge dietro le quinte (i contendenti che si mettono d’accordo sui trucchi da adottare per sbalordire il pubblico) e ciò che si svolge sul ring (inteso come palcoscenico di uno spettacolo cruento) è adottato dal regista Darren Aronofsky (nato a Brooklyn nel 1969) nel film The Wrestler, dedicato al wrestling, uno sport estremo, detto anche catch, nel quale due lottatori dotati di una prestanza fisica fuori dal comune si affrontano (almeno in apparenza) senza esclusione di colpi.
La macchina da presa si sofferma sui particolari più significativi, che vanno dai preparativi degli incontri agli accessori ritenuti indispensabili (come l’apparecchio acustico, strumento tipico del pugile «suonato» o la lametta nascosta sotto la fasciatura del polso per procurarsi ferite sanguinanti quando lo spettacolo lo esige), all’abuso di medicinali (anabolizzanti e antidolorifici) comprati sottobanco. Una serie di dettagli, ripresi con minuziosità, fanno di questo film una sorta di documentario su uno sport che mescola trucchi clamorosi con autentici strumenti di tortura, come frammenti di vetro, spille, ferro spinato e perfino una cucitrice da ufficio i cui punti, infissi nella carne viva, devono essere rimossi con le pinze dopo l’incontro.
L’impressione di assistere a un documentario è accentuata dalla presenza, nel ruolo principale, dell’attore Mickey Rourke, un pezzo d’uomo che, dopo aver raggiunto i vertici della fama nella seconda metà degli anni Ottanta, ha conosciuto nel decennio successivo momenti di decadenza sul piano professionale come su quello umano. Dal 1991 al 1994 Rourke ha ripreso l’attività di pugile che aveva abbandonato da giovane quando aveva preferito dedicarsi al cinema. In quel periodo ha collezionato le cicatrici che adesso mostra nel film. Alle ferite riportate sul ring si sono aggiunti alcool e stupefacenti mentre gli interventi della chirurgia plastica completavano l’opera della trasformazione di quello che era stato il simbolo di una gioventù vissuta al massimo delle possibilità nel personaggio male invecchiato che vediamo al centro di questo film. Il successo ottenuto da The Wrestler (Leone d’oro come miglior film alla Mostra di Venezia 2008) rappresenta un momento di riscatto per l’attore che va ricordato tra l’altro per aver interpretato il ruolo di san Francesco in uno dei due film che Liliana Cavani ha dedicato al poverello di Assisi (cfr Civ. Catt. 1989 II 568-581).
«Una massa di carne maciullata», così si definisce il protagonista della pellicola, Randy Robinson, in arte «The Ram» (che significa l’ariete). Un pesante ciondolo con la testa di un ariete dalle corna attorcigliate appeso al collo e una pelle di montone indossata sul dorso coperto di tatuaggi, compongono con la calzamaglia verde fluorescente la sua tenuta da combattimento. Sulle larghe spalle ricade la capigliatura alla nazarena. Un po’ per scherzo e un po’ sul serio la sua amica Cassidy (Marisa Tomei), che fa la spogliarellista in uno degli squallidi locali da lui frequentati, lo definisce «ariete sacrificale». Poi, per avvalorare la sua asserzione, cita le parole di uno dei canti del servo di Jahweh: «È stato trafitto per i nostri peccati, schiacciato per le nostre iniquità. Il castigo che ci dà salvezza si è abbattuto su di lui. Per le sue piaghe siamo stati guariti» (Is 53,5). La citazione, come è facile intuire, non è ricavata dalle pagine della Sacra Scrittura, ma dalla colonna sonora di un film truculento: The Passion di Mel Gibson (cfr Civ. Catt. 2004 II 364-372), segno evidente che la parola di Dio non può essere costretta entro i limiti di una comunicazione autorevole, ma sceglie con libertà le vie da seguire per giungere là dove vuole.
Metafora di una redenzione? Dopo aver raggiunto l’apice del successo nel corso degli anni Ottanta, analogamente a quanto è accaduto all’attore che interpreta il suo ruolo, Randy «The Ram» sta attraversando un periodo nero. Aiutato da Cassidy, fa i conti con il proprio passato e scopre che la sua vita è un fallimento completo. Come trovare una via di uscita? Colpito da un infarto, il campione decide di ritirarsi. Il bypass non gli permette di affrontare altri combattimenti. Cerca di riannodare i rapporti con la figlia adolescente, abbandonata da anni, ma arriva tardi a un appuntamento e la perde definitivamente. È qui, nel confronto del padre fallito con la figlia inconsapevole, che affiora il ricordo del Bidone felliniano, anche se il mezzo secolo trascorso tra i due film apre, per quanto riguarda la differenza tra le fanciulle di oggi e quelle di allora, un baratro che dà le vertigini. Randy accetta la sfida lanciata da un campione di wrestling da lui umiliato nel passato, che chiede la rivincita. Scende di nuovo sul ring. Finirà la sua vita alla grande, secondo il suo stile. Il regista gli regala l’ultima inquadratura facendolo uscire di scena (o di campo, come si dice in gergo) attraverso il lato superiore dello schermo.