a cura di V. FANTUZZI
Russian Ark (Russia – Germania, 2002). Regista: ALEXANDER SOKUROV. Interpreti principali: S. Dreiden, M. Kuznetsova, L. Mazgovoy.
Ammirato lo scorso maggio a Cannes, dove è stato presentato in concorso al festival cinematografico, visto di sfuggita a Roma il mese successivo (nell’ambito della manifestazione «Cannes a Roma»), se troverà un distributore sensibile alle ragioni dell’arte cinematografica, il bel film di Alexander Sokurov, Russian Ark, potrebbe essere il gioiello che impreziosisce il circuito alternativo (quello delle sale d’essai) nella prossima stagione. Si tratta di un sogno a occhi aperti, la cui realizzazione ha comportato un autentico tour de force sotto il profilo tecnico ed espressivo: un pianosequenza di 90 minuti, una ripresa, cioè, effettuata tutta di seguito, senza interruzioni, all’interno dell’Ermitage di San Pietroburgo, girato con una telecamera digitale ad alta definizione, affidata a un «virtuoso» della steadycam (il tedesco Tilman Büttner, già collaboratore di Tom Tykwer nel film Lola corre, 1998).
La ripresa è stata eseguita, dopo diverse prove, nel pomeriggio dello scorso 23 dicembre. 860 tra attori e figuranti sono stati convocati sul set fin dal giorno precedente, per essere affidati alle mani di 53 truccatrici e 65 sarte, che li hanno trasformati in personaggi appartenenti a diverse epoche (dal Settecento ai nostri giorni). La telecamera impiegata è il modello Sony HDW-F900, messo sul mercato nel 2000, che consente di registrare immagini di qualità equivalente a quella che si può ottenere con una normale cinepresa a 35 mm. Lo stesso modello è stato utilizzato da George Lucas in alcuni passaggi de L’attacco dei cloni. Il capo operatore ha fatto costruire uno speciale supporto che gli ha consentito di trasportare la telecamera (35 chili compreso il materiale accessorio) lungo un percorso di un chilometro e mezzo tra scale, saloni, gallerie, androni, ripostigli… Le 36 grandi sale del museo, percorse una dopo l’altra, offrono materia ad altrettante sequenze del film.
L’Ermitage, come ognuno sa, è un complesso monumentale che ingloba, assieme ad altri edifici, il Palazzo d’Inverno. Residenza fastosa degli Zar, accoglie collezioni d’arte che ne fanno uno dei musei più grandi del mondo. Un narratore invisibile guida lo spettatore nella visita, la quale non può essere che sommaria, poiché una visita accurata richiederebbe più giorni, mentre una semplice scorsa attraverso le cose principali non può durare meno di mezza giornata. Il narratore invisibile è presente, oltre che con la parola, con lo sguardo e con l’udito. Tutto ciò che si vede sullo schermo è visto con i suoi occhi; tutto ciò che si sente nella colonna sonora è udito con i suoi orecchi. Gli si fa incontro un interlocutore che, invece, si vede: è un diplomatico francese vestito di scuro. I due, spostandosi da un ambiente all’altro, compiono un viaggio immaginario (un sogno, si diceva) attraverso il tempo.
Camminando insieme a loro incontriamo diversi personaggi, ora anonimi e ora celebri (come Caterina II e Nicola II attorniato dalla famiglia, destinata come lui a una sorte atroce), assistiamo a cerimonie di corte, oppure a colloqui segreti tra potenti che complottano contro altri potenti. Alle sale piene di gente si alternano ambienti quasi vuoti. I due interloquiscono con alcuni visitatori del museo o sostano davanti a quadri e a statue, che entrano a far parte del film come se fossero persone vive. Il tutto si conclude con la scena grandiosa del ballo. Il maestro Valery Gergiev, direttore stabile del teatro Mariinskij, guida un’orchestra di 80 elementi in una travolgente mazurca, mentre nel salone delle feste volteggiano decine di ballerini e si addensano centinaia di comparse in un quadro sontuoso che rappresenta la nobiltà russa nel momento in cui sta per congedarsi dalla scena della storia. Siamo nel 1913.
La macchina da presa di Sokurov, con i suoi movimenti ampi e sinuosi, si misura non solo con le grandi arti del passato (architettura, scultura, pittura, musica, danza…), ma anche con le cosiddette arti minori (dall’abbigliamento alla chincaglieria, dal cibo a tutto ciò che compone uno stile di vita). Arte come vita per descrivere un mondo nel quale la vita è vissuta come opera d’arte. Il film si intitola giustamente «Arca russa», per indicare che, al di fuori del perimetro che cinge quel mondo incantato, non c’è salvezza. Dal film trapela una nostalgia sconfinata per un mondo che non c’è più e del quale, se non ci fosse la magia del cinema a farlo rivivere, perfino il ricordo svanirebbe nel nulla.