a cura di V. FANTUZZI
L’uomo senza passato (Finlandia, 2002). Regista: AKI KAURISMÄKI. Interpreti principali: M. Peltola, K. Outinen, S. Kuosmanen, A. Tänti, E. Nikkari.
Un uomo scende da un treno. È solo. Non si sa da dove venga. Con in mano una grossa valigia attraversa l’atrio della stazione. Esce. È notte. L’uomo è stanco; si adagia su una panchina e si addormenta; viene svegliato all’improvviso dalle urla di tre teppisti che lo aggrediscono con violenza: prima lo insultano, poi lo derubano, infine lo massacrano con pugni, calci e colpi di bastone. Abbandonato inerte sul terreno, l’uomo si rialza. Ha perduto la memoria. Torna nella stazione ferroviaria e, grondando sangue, si avvia verso le toilettes. Lì il suo corpo esanime viene raccolto e portato all’ospedale dove, dopo un intervento chirurgico, sopraggiunge la morte. «Fatelo portare nell’obitorio», ordina un medico ai suoi assistenti.
Rimasto solo, il cadavere dello sconosciuto (interpretato da Markku Peltola) si rianima improvvisamente — è la seconda volta che accade —, indossa in fretta pantaloni e stivali, lascia inosservato l’ospedale. Rivediamo il suo corpo inerte sulla riva del mare nei pressi di Helsinki. Un barbone, credendolo morto, gli sfila gli stivali dai piedi e li sostituisce con un paio di scarpe da tennis. Due bambini dai capelli biondi, che sono andati ad attingere acqua a una fontana, passando lì vicino si accorgono che l’uomo non è morto; respira. Sono due fratellini che vivono con i genitori in una baracca. La madre, donna efficiente anche se povera, si prende cura dello sconosciuto. Il padre è un ubriacone sfaticato, che non tarderà a fare comunella con l’ultimo arrivato dopo che le premure della moglie lo avranno rimesso in piedi.
Le immagini del film dicono esplicitamente quello che dicono. Allo stesso tempo, però, si ha l’impressione che tra immagine e immagine si inseriscano significati, mai precisati in maniera univoca, affidati alla dimensione allusiva del linguaggio simbolico. Chi è quest’uomo che muore e risuscita, porta su di sé i segni delle percosse ricevute, ha il capo cinto da una fasciatura che (come accadeva a Francisco Rabal nel finale del film Nazarin, 1952, di Luis Buñuel) assomiglia a una corona di spine?
Non è la prima volta che il regista finlandese Aki Kaurismäki si cimenta con storie di diseredati e marginali. Egli professa un’ammirazione incondizionata per maestri del cinema come Bresson e Ozu (citato in una scena del film quando la macchina da presa indugia sul protagonista che, mentre mangia da solo in un ristorante giapponese, si sofferma ad assaporare il gusto del sakè). In questo film circola un’aria da sogno a occhi aperti che può far pensare a certi apologhi di Frank Capra o al mai dimenticato Miracolo a Milano (1951) della coppia De Sica-Zavattini. L’apparizione di un personaggio spaesato, che non riesce a trovare il suo posto nell’ambito della società, rievoca le comiche mute di Charlot, mentre l’humour surreale e vagamente metafisico, che di tanto in tanto fa capolino, richiama alla mente Buster Keaton, unico attore del muto che, anche dopo l’avvento del sonoro, si è sempre rifiutato di parlare.
Vivo, ma privo di identità (oltre ad aver perso la memoria, non ha addosso un documento e non ricorda nemmeno il suo nome), approdato in una bizzarra comunità di sradicati come lui, che dormono in container arrugginiti, lo sconosciuto impara a sue spese che nell’attuale società un individuo sconosciuto all’anagrafe, privo di un conto in banca, vale meno di nulla. Oltre a non trovare lavoro, non può nemmeno iscriversi nella lista dei disoccupati. Un giorno è coinvolto suo malgrado nella rapina di una banca. Il rapinatore è un piccolo imprenditore fallito (a causa della crisi economica del Paese), che rivuole i suoi soldi (bloccati in banca) per dividerli tra gli ex-dipendenti che è stato costretto a licenziare.
Il coinvolgimento nella rapina regala allo sconosciuto un momento di notorietà. La sua foto appare su un giornale. La moglie, dalla quale stava per divorziare quando è stato aggredito dai teppisti, lo riconosce. Riconquistata l’identità, lo sconosciuto (che ora sembra non essere più tale) ritrova una nuova libertà: quella di poter scegliere tra il cosiddetto consorzio civile e il mondo degli emarginati, tra i quali ha potuto usufruire di una elementare, ma sincera, solidarietà nel momento in cui tutti fingevano di non vederlo; un mondo parallelo sul quale aleggia il soffio delle parole, antiche e sempre nuove, pronunciate da Gesù: «Beati i poveri di spirito…» (Mt 5,3).