a cura di V. FANTUZZI
Lost in La Mancha (Gran Bretagna, 2001). Registi: KEITH FULTON – LOUIS PEPE. Documentario.
Il regista cinematografico inglese Terry Gilliam non è nuovo a imprese donchisciottesche. Nel 1989 lo si vide giungere baldanzoso a Cinecittà, occupare il teatro 5, che era il «regno» di Fellini e mettere insieme una squadra composta dai collaboratori più fidati dell’autore de La dolce vita e Amarcord (Giuseppe Rotunno come direttore della fotografia e Dante Ferretti come scenografo, oltre a Gabriella Pescucci come costumista), per dar vita a un progetto che aveva per titolo Le avventure del Barone di Münchhausen. Gilliam ignorava il metodo di lavoro di Fellini, che consisteva nel mettersi ogni mattina attorno a un tavolo con i suoi collaboratori per affrontare e risolvere con umiltà uno per uno gli innumerevoli problemi che la realizzazione di ogni scena comporta. Il film fu un fiasco clamoroso.
Qualche tempo fa, dopo averci pensato per più di dieci anni, Gilliam ha messo in piedi un altro progetto non meno ambizioso. Si trattava della traduzione in immagini cinematografiche di uno dei capolavori della letteratura universale: Don Chisciotte di Miguel de Cervantes. Il film, che si ispirava liberalmente al libro e giocava su diversi piani cronologici, avrebbe dovuto intitolarsi L’uomo che uccise don Chisciotte. Fu annunciato come la più costosa impresa cinematografica realizzata in Europa. La lavorazione iniziò nel settembre del 2000. Gilliam invitò a Madrid, dove avrebbero dovuto svolgersi le riprese, due amici (Keith Fulton e Louis Pepe) ai quali affidò il compito di girare un «dietro le quinte» del film. I due si trovarono a registrare un tale numero di inconvenienti che il loro documentario, di cui ci occupiamo, è diventato un film a sé stante, non meno spettacolare di quanto sarebbe stato il film di Gilliam qualora la sfortuna non si fosse accanita nel mandare all’aria il progetto.
Il teatro di posa all’interno del quale avrebbero dovuto svolgersi le riprese «sonore», affittato dalla produzione senza aver fatto un sopraluogo, risulta essere una cassa di risonanza dove ogni minimo brusio si trasforma in rumore assordante. Nulla di grave, per il momento, dato che gli attori che dovrebbero interpretare i ruoli principali del film (Jean Rochefort nei panni di Don Chisciotte, Johnny Depp e Vanessa Paradis in quelli di Sancho Panza e Dulcinea del Toboso) sono presi da altri impegni, né si sa come e quando si riuscirà a far coincidere la loro presenza sul set. Dopo l’arrivo degli interpreti dei ruoli maschili, le riprese hanno inizio all’aperto, su un terreno arido, ai piedi di una catena montuosa, sotto il sole a picco. Rochefort, vestito e truccato da hidalgo, viene fatto salire non senza fatica in groppa a Ronzinante, un cavallo tenuto a dieta per far sì che sui suoi fianchi si possano contare tutte le costole. Ci si accorge allora che il luogo scelto per le riprese si trova nei pressi di una zona militare sorvolata in continuazione dagli F16 dell’aviazione spagnola. Non si riesce a capire una sola parola dei dialoghi. Dense nubi (nel senso proprio e in quello figurato) si addensano nel cielo che sovrasta la troupe. Ben presto si scatena un temporale che, in men che non si dica, cede il posto a un autentico nubifragio. Il terreno sul quale i cineasti si sono accampati altro non è che il greto di un torrente, che si riempie ben presto di acque limacciose che scendono a precipizio dalla montagna travolgendo tutto ciò che si trova sul loro percoso.
L’indomani, mentre le condizioni meteorologiche permangono incerte, si tenta di fare un bilancio dei danni. Qualche inquadratura era stata girata prima della pioggia torrenziale, ma adesso il terreno, inzuppato d’acqua, ha cambiato colore. Il peggio deve ancora venire. Rochefort, che alla sua età (perfetta per il ruolo di Don Chisciotte) comincia ad accusare qualche disturbo alla prostata, incontra difficoltà nel salire in groppa a Ronzinante. L’attore deve rientrare a Parigi per un controllo medico. Dopo accurate analisi si saprà che, oltre alla prostata, soffre di una doppia ernia al disco. Le riprese vengono sospese e, anche a causa di altri inconvenienti, si decide di chiudere baracca e bu-rattini affidando la liquidazione dell’impresa fallimentare agli agenti delle assicurazioni assistiti dai loro consulenti giuridici. Tra lo sconcerto generale, l’unico a mantenere la calma è il regista. Sembra quasi che un oscuro presentimento lo abbia messo con largo anticipo sull’avviso che nel conflitto tra sogno e realtà, che si sarebbe inevitabilmente scatenato, la realtà (rappresentata nel film dai mulini a vento) avrebbe finito con il prevalere.
Paragonare Terry Gilliam a Don Chisciotte, come facevamo all’inizio, è fin troppo facile, ma in questo film, che aiuta a riflettere sul cinema, il mestiere stesso del cineasta viene descritto come una lotta contro i mulini a vento. Il cinema manipola la realtà, la modifica, la rielabora per portarla al livello dei sogni. Per compiere con successo un’attività di questo genere, il regista deve credere fermamente in quello che fa. Deve vedere giganti là dove gli altri non vedono che mulini. Deve convincere gli scettici che il suo punto di vista è quello giusto. La sua operazione potrà dirsi felicemente conclusa solo quando, a opera finita, riuscirà a coinvolgere in un rapporto di complicità non solo chi vede il film, ma anche chi ne scrive.