a cura di V. FANTUZZI
Dogville (Danimarca – Svezia – Germania, 2003). Regista: LARS VON TRIER. Interpreti principali: N. Kidman, P. Bettany, H. Andersson, L. Bacall, B. Gazzara, J. Caan.
L’idea scenografica sulla quale si basa il film Dogville del regista danese Lars von Trier è semplicemente geniale. Siamo in un teatro di posa, ma senza scenografie. C’è qualche mobile, ci sono i costumi e i rumori d’ambiente, ma non ci sono gli ambienti. Niente case, niente strade, alberi o pareti. Soltanto segni tracciati per terra, con scritte che indicano i diversi luoghi. La cittadina così delineata si chiama Dogville ed è situata in una zona mineraria tra le Montagne Rocciose. Siamo negli Stati Uniti. L’azione si svolge negli anni della grande depressione. Gli abitanti della città (che assomiglia piuttosto a un villaggio) entrano ed escono di casa, passeggiano per la strada principale, si recano nel luogo dove si svolgono le assemblee religiose…
Non essendoci pareti divisorie tra i diversi ambienti, tutto si svolge sotto gli occhi di tutti (come avviene di fatto in ogni piccola comunità), anche se ciascuno finisce con il vedere soltanto quello che vuole e con il fingere di non vedere tutto quello che preferisce ignorare. Unita da rapporti di affinità con le protagoniste di due precedenti film di von Trier (la Bess di Le onde del destino, cfr Civ. Catt. 1997 I 477-487, e la Selma di Dancer in the Dark, cfr ivi, 2001 I 439 s) la Grace interpretata da Nicole Kidman in Dogville è, come le altre, una vittima innocente sacrificata alla ferocia di un mondo malvagio e ottuso.
Diverso sarà il destino della terza eroina rispetto alle due precedenti, che finivano la prima violentata e uccisa da marinai stranieri su una nave attraccata nei pressi di una costa selvaggia, l’altra derubata e condannata alla sedia elettrica per un omicidio che non aveva commesso. La sorte di Grace prevede un finale a sorpresa, suggerito al regista dal noto song «Jenny dei pirati», parole di Bertolt Brecht e musica di Kurt Weill, inserito nell’adattamento in chiave espressionistica della Beggar’s Opera (L’opera dei mendicanti, 1728) di John Gay, che ha per titolo Dreigroschernoper (L’opera da tre soldi, 1928). Diviso in nove capitoli e un prologo (come un romanzo di Dickens), il film narra le disavventure della dolce e gentile Grace che, inseguita da una gang di criminali, giunge nella pacifica e austera Dogville, dove viene accolta, anche se con qualche difficoltà, dalla comunità formata da protestanti apparentemente ligi al precetto evangelico della carità.
Grace ricambia la cortesia con piccoli servizi che rende agli abitanti della città, i quali la trattano con benevolenza. Le cose cominciano a prendere una brutta piega per lei quando si viene a sapere che la polizia la sta cercando e ha messo una taglia sulla sua testa. Gli abitanti della cittadina si sentono autorizzati ad avanzare nei confronti dell’ospite pretese sempre meno accettabili. Si va dalla minaccia velata al ricatto vero e proprio. Il sopruso, sopportato con pazienza dalla vittima, si trasforma in autentica tortura. Ben presto si giunge alla violenza più efferata e abietta. Tom, aspirante scrittore che si dice innamorato di Grace e preoccupato del comportamento morale dei concittadini, con la sua inerzia aggrava ulterioremente la situazione di abbrutimento nella quale si trova la ragazza.
Oltre che al già ricordato binomio Brecht-Weill, il «cinema della crudeltà» di von Trier strizza l’occhio al teatro di Antonin Artaud. L’operazione di stile determina il senso della pellicola e giustifica i riferimenti ai luoghi canonici del teatro del Novecento (comprese certe messinscena in stile anni Trenta di Piccola città di Thornton Wilder). La luce di taglio, che accentua i contrasti del bianco e del nero, orienta lo spettatore verso il senso morale della vicenda. La reciproca «trasparenza» degli ambienti, alla quale si accennava, indica la corresponsabilità di ciascuno nei confronti di ciò che avviene nel mondo circostante.
Le scene del film sono intercalate da immagini riprese con una camera posta a perpendicolo sul teatro di posa sul cui pavimento i personaggi si muovono come pedine sul cartellone di un gioco di Monopoli. Allusione efficace all’occhio di Dio che dall’alto vede e provvede. L’apologo stigmatizza in primo luogo l’indifferenza: un male che, ipocritamente ammantato di rispettabilità, è alla radice di ogni altro male. L’improvviso capovolgimento della situazione, che nel finale provoca conseguenze catastrofiche per tutti gli abitanti di Dogville, non è lontano dalla minaccia, concernente pianto e stridore di denti, con la quale si chiudono varie parabole del Vangelo.