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Attualità

Fare memoria del genocidio in Rwanda

Una testimonianza

Marcel Uwineza

8 Aprile 2017

Quaderno 4004

foto: flickr/trocaire

ABSTRACT — «Ogni ferita lascia una cicatrice, e ogni cicatrice parla di una storia: ci ricorda che siamo vivi». Mai come oggi è necessaria la saggezza di questo detto ruandese, soprattutto per quanto riguarda la tragica storia del Rwanda, che ha portato al genocidio perpetrato contro i tutsi e alle cicatrici che ha prodotto in tutto il Paese.

Il genocidio del 1994 si radicava nelle divisioni «etniche» tra gli hutu, i tutsi e i twa, che si erano intensificate nell’epoca coloniale (1890-1962) fino a sfociare in una conclusione atroce. Il genocidio è stato infatti il culmine di un’esclusione etnica di lunga data. Durante il genocidio — che si è perpetrato nell’arco di circa tre mesi, a partire dall’aprile di quell’anno — sono stati uccisi quasi un milione di tutsi e di hutu moderati, ossia coloro che si sono opposti alla pulizia etnica. Alla fine il Paese era in rovina: cadaveri dappertutto, innumerevoli le vedove, gli orfani e i rifugiati. Ogni ruandese è rimasto ferito, quale che fosse la sua appartenenza «etnica», sebbene le ferite siano state di diversa gravità.

I ruandesi non devono lasciarsi sopraffare dalle memorie non riconciliate, nemmeno in teologia, ma piuttosto devono aver fede in esse e con esse parlare di Dio. Ricordare significa esserci, ma anche agire e continuare ad agire per costruire una società in cui queste operazioni mostruose siano impensabili.

La memoria svolge infatti varie funzioni importanti. In primo luogo, ci spinge ad andare avanti e a stabilire forti legami tra ricordi e verità, perché le memorie selettive o false possono diventare in futuro ideologie oppressive. In secondo luogo, l’appropriazione critica della memoria consente all’umanità di non perdere ciò a cui la maggior parte delle persone tiene di più in assoluto: la dignità della persona umana sostenuta dall’amore del prossimo, perfino quando dimostra di essere un nemico. In terzo luogo, la memoria rafforza la fede della gente nell’andare avanti nonostante sofferenze insensate. In quarto luogo, la memoria ci aiuta a tenere presente il fatto che tutti cadiamo e abbiamo bisogno di perdono. In quinto luogo, rifiutare i ricordi di ciò che abbiamo fatto o di ciò che altri hanno fatto a noi equivale in pratica a rifiutare la nostra vera identità. Infine, la memoria della sofferenza conduce alla solidarietà.

Ci sono dunque tanti elementi per poter affermare che la memoria è di importanza decisiva per il futuro del Rwanda: si tratta anche di un imperativo teologico. Cosa sta facendo la Chiesa ruandese in tale direzione?

********

IN REMEMBERANCE OF THE GENOCIDE IN RWANDA. A testimony

«Any wound leaves a scar and every scar tells a story: it reminds us that we are alive». Today, more than ever, the wisdom of this Rwandan saying is necessary, especially with regard to the tragic history of Rwanda, which led to the genocide of Tutsis, and to the scars that it left throughout the country. The Rwandans should not be overwhelmed by unreconciled memories, even in theology, but they must rather have faith in them and with them talk about God. There are many elements to be able to say that remembrance is of decisive importance for the future of Rwanda: it is mainly about a theological imperative. What is the Rwandan Church doing in this regard?

Non è disponibile la versione digitale di questo articolo, è possibile leggerlo solo nella versione cartacea o e-book


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Fare memoria del genocidio in Rwanda

Marcel Uwineza

Corrispondente de "La Civiltà Cattolica". Direttore Hekima University College di Nairobi (Kenya).


8 Aprile 2017

Quaderno 4004

  • pag. 172 - 185
  • Anno 2017
  • Volume II

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