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Nell’omelia che, il 18 aprile 2005, il cardinale Joseph Ratzinger fece durante la Missa pro eligendo Romano Pontifice[1] vi era una chiara descrizione della situazione dottrinale presente nella Chiesa negli anni precedenti. Egli richiamò l’attenzione sul problema del relativismo e delineò il cammino che la Chiesa avrebbe dovuto percorrere per non lasciarsi guidare dalle ideologie, ma per rimanere docile alla guida dello Spirito.
Basandosi sul brano di Ef 4,11-16, egli fece notare che «avere una fede chiara, secondo il Credo della Chiesa, viene spesso etichettato come fondamentalismo. Mentre il relativismo, cioè il lasciarsi trasportare “qua e là da qualsiasi vento di dottrina”, appare come l’unico atteggiamento all’altezza dei tempi odierni». Il rovescio della medaglia di questa «fede chiara» porta a uno stato in cui «si va costituendo una dittatura del relativismo che non riconosce nulla come definitivo e che lascia come ultima misura solo il proprio io e le sue voglie».
Il Cardinale parla dunque di una «dittatura del relativismo» centrata sull’«io» e sui suoi «desideri»[2]. Per soddisfare questi desideri e per permettere che l’«io» rimanga al centro occorre trovare una «ideologia» di sostegno, arrivando così a lasciarsi trascinare dalle «correnti ideologiche» e dalle «opinioni alla moda». E Ratzinger lamenta che la fedeltà al deposito della fede sia tacciata di «fondamentalismo».
Nel contesto di queste affermazioni, dobbiamo chiederci che cosa intendesse il cardinale Ratzinger con «relativismo» e come, successivamente, Benedetto XVI abbia sviluppato la sua opera pastorale, tenendo conto di ciò che egli stesso aveva descritto come una «immaturità della fede». È necessario questo chiarimento, perché i termini «relativismo» e «fondamentalismo» possono diventare un cliché nel quale vengono messi insieme diversi contenuti poco distinguibili. Essi possono trasformarsi in un’arma polemica a cui ricorrere contro qualsiasi avversario, contro qualsiasi tentativo di mettere in pratica i princìpi della fede e della dottrina della Chiesa. Lo stesso Joseph Ratzinger riconosce, in un articolo del 1991, «che in alcune situazioni un pizzico di relativismo e un poco di scetticismo possano giovare, non intendiamo metterlo in discussione. Ma il relativismo risulta totalmente inadeguato a far da comune fondamento su cui poter vivere»[3].
Il seguito dell’omelia del cardinale Ratzinger chiarisce quale sia il punto di autentico ancoraggio della Chiesa. Perché, a fronte del relativismo, «noi, invece, abbiamo un’altra misura: il Figlio di Dio, il vero uomo. È lui la misura del vero umanesimo. “Adulta” non è una fede che segue le onde della moda e l’ultima novità; adulta e matura è una fede profondamente radicata nell’amicizia con Cristo. È quest’amicizia che ci apre a tutto ciò che è buono e ci dona il criterio per discernere tra vero e falso, tra inganno e verità. Questa fede adulta dobbiamo maturare, a questa fede dobbiamo guidare il gregge di Cristo. Ed è questa fede – solo la fede – che crea unità e si realizza nella carità».
Ratzinger mette così insieme gli elementi che costituiscono una base solida di fronte al relativismo: una «fede adulta» che si esprime nella carità; una «carità» radicata nella fede e che si alimenta con l’«amicizia con Cristo»; e, a partire da questa amicizia, la fede matura è capace di «discernere» «tra vero e falso» e «crea unità».
Il fluttuare delle ideologie si fonda, in definitiva, sull’amore di se stessi e sul velleitarismo delle proprie idee.
Citando san Paolo, Ratzinger continua affermando che, al contrario, «la verità nella carità [è la] formula fondamentale dell’esistenza cristiana». Per questo sottolinea la necessità di fondare la vita cristiana su un rapporto autentico con Cristo, perché «in Cristo, coincidono verità e carità. Nella misura in cui ci avviciniamo a Cristo, anche nella nostra vita, verità e carità si fondono. La carità senza verità sarebbe cieca; la verità senza carità sarebbe come “un cembalo che tintinna” (1 Cor 13,1)».
È Cristo il centro della vita della Chiesa e del sentire della Chiesa. Nessuna corrente ideologica o dottrinale, nessuna appartenenza può occupare questo posto che appartiene solo a Cristo.
È nel Figlio di Dio e nella familiarità con lui che si trova il luogo del discernimento tra il vero e il falso, finalizzato alla costruzione della carità nell’unità. Ogni altro criterio è «relativista», il che indica in questo caso qualsiasi idea che vada contro Cristo e contro la logica di Cristo, il quale desiderava che tutti fossero una cosa sola, e lo fossero nell’amore (cfr Gv 17,21; 13,35 ecc.)[4].
Poi nell’omelia, partendo dalle parole di Gesù: «Non vi chiamo più servi… vi ho chiamato amici» (Gv 15,9-17), il Cardinale spiega che cosa significhi tale amicizia con Cristo, che egli considera il fondamento della vita cristiana. E segnala due caratteristiche di questa amicizia alla quale il Signore ci invita. 1) Il primo elemento è la rivelazione del piano di Dio, del quale Cristo ci ha resi partecipi: «Non ci sono segreti tra amici: Cristo ci dice tutto quanto ascolta dal Padre; ci dona la sua piena fiducia e, con la fiducia, anche la conoscenza. Ci rivela il suo volto, il suo cuore. Ci mostra la sua tenerezza per noi […]. Affida il suo corpo, la Chiesa, a noi. Affida alle nostre deboli menti, alle nostre deboli mani la sua verità […], il mistero del Dio “che ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito” (Gv 3,16). Ci ha reso suoi amici». 2) Il secondo elemento è la «comunione delle volontà […], nella quale si realizza la nostra redenzione».
Tutto questo nella prospettiva indicata dalla prima lettura (Is 61,1-3a.6a.8b-9), che ci offre «un ritratto profetico della figura del Messia». A partire da questa figura il Cardinale mette in evidenza che «Gesù Cristo è la misericordia divina in persona: incontrare Cristo significa incontrare la misericordia di Dio». E, a nostra volta, noi siamo partecipi della missione messianica di «proclamare l’anno di misericordia» (Is 61,2), perché «il mandato di Cristo è divenuto mandato nostro attraverso l’unzione sacerdotale; siamo chiamati a promulgare, non solo a parole ma con la vita, e con i segni efficaci dei sacramenti, “l’anno di misericordia del Signore”».
Non è esagerato affermare che queste parole del cardinale Ratzinger, alla vigilia del conclave che lo avrebbe eletto successore di Giovanni Paolo II, sono diventate il programma del suo pontificato.
Uno sguardo d’insieme sul ministero pastorale e sull’esercizio del pontificato da parte di Benedetto XVI chiarisce concretamente come egli abbia inteso l’attuazione di un pensiero non relativista. Vedremo come in nessuno dei casi che prenderemo in considerazione papa Benedetto XVI si chiuda al dialogo con le situazioni concrete, e come la risposta che egli dà alla situazione sia ancorata a questa familiarità con Cristo e con la Parola di Dio, come spinta verso la verità e l’unità, che si fondano nella carità.
Considereremo ora due casi nei quali Benedetto XVI ha dato risposte originali, richieste dalla carità, laddove la verità serve l’unità.
La comunione con la Fraternità San Pio X
Il 10 marzo 2009 papa Benedetto XVI scrive una lettera ai vescovi della Chiesa cattolica per rispondere alla perplessità suscitata dal provvedimento di togliere la scomunica ai vescovi ordinati nel 1988 da mons. Lefebvre, sperando «di contribuire in questo modo alla pace nella Chiesa»[5]. Nella lettera il Papa afferma che l’aver tolto la scomunica è stato un «gesto discreto di misericordia», per il quale «la remissione della scomunica mira allo stesso scopo a cui serve la punizione: invitare i quattro Vescovi ancora una volta al ritorno [all’unità]».
Benedetto XVI sostiene che «l’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo costituisce in questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità per la Chiesa». Per questo si domanda: «Dobbiamo davvero tranquillamente lasciarli andare alla deriva lontani dalla Chiesa?». E volge il pensiero ai sacerdoti della Fraternità: «Penso ad esempio ai 491 sacerdoti. Non possiamo conoscere l’intreccio delle loro motivazioni. Penso tuttavia che non si sarebbero decisi per il sacerdozio se, accanto a diversi elementi distorti e malati, non ci fosse stato l’amore per Cristo e la volontà di annunciare Lui e con Lui il Dio vivente. Possiamo noi semplicemente escluderli, come rappresentanti di un gruppo marginale radicale, dalla ricerca della riconciliazione e dell’unità? Che ne sarà poi?».
Papa Benedetto qui parte dal presupposto che alla base dell’azione di questi sacerdoti ci sia un profondo amore per Cristo, anche se la manifestazione di questa amicizia con Gesù li ha portati al disaccordo con la dottrina della Chiesa. E certamente egli pensa che, nonostante questa discordanza, ci si debba chiedere: «Non dovrebbe la grande Chiesa permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo respiro che possiede; nella consapevolezza della promessa che le è stata data? Non dovremmo, come buoni educatori, essere capaci anche di non badare a diverse cose non buone e premurarci di condurre fuori dalle strettezze? E non dobbiamo forse ammettere che anche nell’ambiente ecclesiale è emersa qualche stonatura?».
Il Papa si rammarica anche che ciò sia stato occasione di tensione nella Chiesa e riconosce un certo meccanismo psicologico per il quale «a volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi – in questo caso, il Papa –, perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo».
Benedetto XVI termina la lettera sottolineando – a partire dal testo di Gal 5,13-15 – il principio fondamentale della carità, a favore della quale la Chiesa non sempre ha impegnato tutte le sue energie, per cui «è forse motivo di sorpresa che anche noi non siamo migliori dei Galati? Che almeno siamo minacciati dalle stesse tentazioni? Che dobbiamo imparare sempre di nuovo l’uso giusto della libertà? E che sempre di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore?».
Dopo aver detto che l’amicizia con Gesù Cristo ha portato i sacerdoti della Fraternità ad affermazioni contrastanti con la Chiesa, lascia intendere che, da parte sua, questa stessa amicizia con Gesù Cristo lo induce a proclamare la misericordia, sperando che questo gesto misericordioso divenga principio di unità nella crescita della carità.
Papa Benedetto risolve questo caso particolare partendo dal fondamento dell’unità nella carità. Per questo passa sopra alcune dissonanze nella dottrina del gruppo, invitandolo a ristabilire l’unità e concedendo, in concreto, la possibilità di mantenere abitualmente la tradizione liturgica che questo gruppo aveva utilizzato, raddoppiando così le forme della liturgia romana.
La comunione con gli anglicani passati alla Chiesa cattolica
La motivazione per l’accettazione dei gruppi anglicani che chiedono di entrare nella Chiesa cattolica è simile. Nella Costituzione apostolica Anglicanorum coetibus, del 4 novembre 2009[6], papa Benedetto scrive che, avendo alcuni gruppi di fedeli anglicani, mossi dallo Spirito Santo, espresso il desiderio di essere ammessi alla comunione cattolica, «il Successore di Pietro […], che dal Signore Gesù ha il mandato di garantire l’unità dell’episcopato e di presiedere e tutelare la comunione universale di tutte le Chiese, non può non predisporre i mezzi perché tale santo desiderio possa essere realizzato».
I princìpi ecclesiologici che muovono l’azione del Papa si basano sull’unicità e sull’unità della Chiesa di Cristo, per cui egli sottolinea chiaramente che «l’unica Chiesa di Cristo […], che nel Simbolo professiamo una, santa, cattolica e apostolica, “sussiste nella Chiesa Cattolica governata dal successore di Pietro, e dai Vescovi in comunione con lui, ancorché al di fuori del suo organismo si trovino parecchi elementi di santificazione e di verità, che, quali doni propri della Chiesa di Cristo, spingono verso l’unità cattolica” (Lumen gentium, n. 8)».
In questo caso il Papa concede la facoltà di celebrare l’Eucaristia e gli altri sacramenti, la Liturgia delle Ore e le altre azioni liturgiche «secondo i libri liturgici propri della tradizione anglicana approvati dalla Santa Sede, in modo da mantenere vive all’interno della Chiesa Cattolica le tradizioni spirituali, liturgiche e pastorali della Comunione Anglicana, quale dono prezioso per alimentare la fede dei suoi membri e ricchezza da condividere». Inoltre stabilisce che coloro che «hanno esercitato il ministero di diaconi, presbiteri o vescovi anglicani, che rispondono ai requisiti stabiliti dal diritto canonico (CIC 1026-1032) e non sono impediti da irregolarità o altri impedimenti (CIC 1040-1049), possono essere accettati dall’Ordinario come candidati ai Sacri Ordini nella Chiesa Cattolica». Precisa poi che «per i ministri coniugati devono essere osservate le norme dell’Enciclica di Paolo VI Sacerdotalis coelibatus, n. 42, e della Dichiarazione In June», il che significa che i ministri anglicani sposati che passano alla Chiesa cattolica sono esentati dal celibato, senza che ciò comporti una messa in discussione della pratica generale del celibato sacerdotale vigente nella Chiesa.
Qui vediamo di nuovo che il criterio del discernimento, in questo caso concreto, consiste nel rispondere all’azione dello Spirito che chiama alcuni membri della Chiesa anglicana alla piena comunione con l’unica Chiesa. In questo caso, ciò che papa Benedetto concede sul piano liturgico e della disciplina del celibato facilita il processo suscitato dallo Spirito. Nello stesso tempo, questa concessione è considerata un arricchimento della «comune ed essenziale Tradizione divina, conservando le proprie tradizioni spirituali, liturgiche e pastorali, che sono conformi alla fede cattolica». La diversità delle tradizioni delle Chiese non è considerata un impedimento per l’unità, perché «esiste […] una ricchezza spirituale nelle diverse Confessioni cristiane, che è espressione dell’unica fede e dono da condividere e da trovare insieme nella Tradizione della Chiesa»[7].
Il problema morale dell’uso del profilattico
Consideriamo ora anche un caso in cui il criterio del discernimento è il bene dei fedeli.
In un’intervista rilasciata si giornalisti nel suo viaggio in Camerun e in Angola (17-23 marzo 2009), papa Benedetto ha condannato l’uso del preservativo come mezzo per combattere l’Aids, affermando che «se non c’è l’anima, se gli africani non aiutano, non si può superarlo [il problema dell’Aids] con la distribuzione di preservativi: al contrario, aumentano il problema»[8]. Questa affermazione del Papa, non essendo stata interpretata nel contesto di tutta la sua esposizione, ha causato molte critiche, tanto da mettere in ombra le altre ricchezze della sua visita nei Paesi africani.
Per questo motivo, nel libro-intervista a Peter Seewald Luce del mondo[9], papa Benedetto riprende quanto aveva affermato all’inizio del suo viaggio apostolico in Africa e dichiara che «non si può risolvere il problema con la distribuzione di profilattici. Bisogna fare molto di più. Dobbiamo stare vicino alle persone, guidarle, aiutarle, e questo anche prima che si ammalino». E poi precisa che «i profilattici sono a disposizione ovunque, chi li vuole li trova subito. Ma solo questo non risolve la questione. Bisogna fare di più»[10].
Benedetto XVI ammette che «in singoli casi» l’uso del profilattico è giustificato: «ad esempio, quando una prostituta utilizza un profilattico, e questo può essere il primo passo verso una moralizzazione, un primo atto di responsabilità per sviluppare di nuovo la consapevolezza del fatto che non tutto è permesso e che non si può far tutto ciò che si vuole»[11].
E a una nuova domanda del giornalista sul fatto che la Chiesa sia «fondamentalmente contraria all’uso del profilattico», Benedetto XVI risponde: «Naturalmente la Chiesa non considera i profilattici come la soluzione autentica e morale. Nell’uno o nell’altro caso, con l’intenzione di diminuire il pericolo di contagio, può rappresentare tuttavia un primo passo sulla strada che porta ad una sessualità diversamente vissuta, più umana»[12].
È interessante notare che, nel caso della prostituta, papa Benedetto presuppone un inizio di «responsabilità» e di «moralizzazione», che può essere considerato un primo passo verso la crescita della «consapevolezza del fatto che non si può far tutto ciò che si vuole». Così egli non elimina del tutto ciò che può essere considerato un processo iniziale di crescita morale. Non accetta che il profilattico sia la soluzione del problema, ma riconosce che, se da un lato esso evita il propagarsi irresponsabile della malattia, dall’altro e più in profondità – per quanto ciò possa sembrare paradossale – può essere letto come il seme nascosto di un’azione dello Spirito per la crescita morale e la formazione della coscienza. In questo caso, per evitare un male maggiore – il contagio della malattia –, Benedetto XVI ammette che l’uso del profilattico costituisce un male minore, e riconosce inoltre che può essere l’inizio di un cammino interiore verso un bene.
Il ministero papale e il pontificato
Un altro caso che ora vogliamo esaminare riguarda il governo pontificio e il magistero. Qui papa Benedetto prende in considerazione il bene del corpo della Chiesa.
Nello stesso libro-intervista che abbiamo citato, Benedetto XVI parla della possibilità che il Papa rinunci al suo ministero per motivi che considera gravi. Spiega che «quando un Papa giunge alla chiara consapevolezza di non essere più in grado fisicamente, mentalmente e spiritualmente di svolgere l’incarico affidatogli, allora ha il diritto e in alcune circostanze anche il dovere di dimettersi»[13].
Papa Benedetto chiarisce che il motivo che può portare a una rinuncia sta nella mancanza di forze per governare la Chiesa, e questo è per il bene della Chiesa stessa. In un precedente passaggio dell’intervista, egli aveva già spiegato che una rinuncia non può essere causata da una situazione critica che la Chiesa stia vivendo: «Quando il pericolo è grande, non si può scappare. Ecco perché questo sicuramente non è il momento di dimettersi. È proprio nei momenti come questo che bisogna resistere e superare la situazione difficile. Questo è il mio pensiero. Ci si può dimettere in un momento di serenità, o quando semplicemente non ce la si fa più. Ma non si può scappare proprio nel momento del pericolo e dire: “Se ne occupi un altro”»[14].
A partire da questa dichiarazione di Benedetto XVI, si comprende perché l’11 febbraio 2013, durante un Concistoro ordinario pubblico, egli abbia dichiarato che «dopo aver ripetutamente esaminato la mia coscienza davanti a Dio, sono pervenuto alla certezza che le mie forze, per l’età avanzata, non sono più adatte per esercitare in modo adeguato il ministero petrino. Sono ben consapevole che questo ministero, per la sua essenza spirituale, deve essere compiuto non solo con le opere e con le parole, ma non meno soffrendo e pregando. Tuttavia, nel mondo di oggi, soggetto a rapidi mutamenti e agitato da questioni di grande rilevanza per la vita della fede, per governare la barca di san Pietro e annunciare il Vangelo è necessario anche il vigore sia del corpo, sia dell’animo, vigore che, negli ultimi mesi, in me è diminuito in modo tale da dover riconoscere la mia incapacità di amministrare bene il ministero a me affidato. Per questo, ben consapevole della gravità di questo atto, con piena libertà, dichiaro di rinunciare al ministero di Vescovo di Roma, Successore di San Pietro»[15].
Consapevole della gravità dell’atto inconsueto che sta per compiere, papa Benedetto è coerente con la riflessione che aveva fatto nell’intervista concessa a Seewald e, in pratica, con le caratteristiche che aveva attribuito al suo ministero pontificio, compreso come servizio alla Chiesa, così come l’aveva descritto nell’omelia della Messa Pro eligendo Romano Pontifice.
In effetti, il ministero petrino non ha assorbito completamente la persona di Joseph Ratzinger, ma le ha permesso di proseguire nel suo cammino personale di indagine teologica. Cosicché, nella Premessa al suo libro Gesù di Nazaret, egli afferma: «Non ho di sicuro bisogno di dire espressamente che questo libro non è in alcun modo un atto magisteriale, ma è unicamente espressione della mia ricerca personale del “volto del Signore” (cfr. Sal 27,8). Perciò ognuno è libero di contraddirmi»[16].
Papa Benedetto è anche consapevole della missione che gli è stata affidata con il ministero petrino in relazione alla Tradizione e alle Chiese. Nella catechesi del 10 maggio 2006, che fa parte di una serie di catechesi sul tema della Tradizione, egli spiega il valore della «successione apostolica», che «si presenta come continuità del ministero apostolico, garanzia della perseveranza nella Tradizione apostolica, parola e vita, affidataci dal Signore»[17].
Partendo da un testo di Ireneo di Lione, insegna che «questa rete della successione apostolica [è] garanzia del perseverare nella parola del Signore, [e] si concentra su quella Chiesa “somma ed antichissima ed a tutti nota” che è stata “fondata e costituita in Roma dai gloriosissimi Apostoli Pietro e Paolo”, dando rilievo alla Tradizione della fede, che in essa giunge fino a noi dagli Apostoli mediante le successioni dei vescovi».
Benedetto XVI sottolinea quindi che «la successione apostolica – verificata sulla base della comunione con quella della Chiesa di Roma – è il criterio della permanenza delle singole Chiese nella Tradizione della comune fede apostolica, che attraverso questo canale è potuta giungere fino a noi dalle origini».
La conclusione di questa catechesi rileva che «l’apostolicità della comunione ecclesiale consiste nella fedeltà all’insegnamento e alla prassi degli Apostoli, attraverso i quali viene assicurato il legame storico e spirituale della Chiesa con Cristo», ma nello stesso tempo è uno strumento nelle mani del Dio vivo, perché «nella parola degli Apostoli e dei loro successori è Lui a parlarci; mediante le loro mani è Lui che agisce nei sacramenti; nel loro sguardo è il suo sguardo che ci avvolge e ci fa sentire amati, accolti nel cuore di Dio. E anche oggi, come all’inizio, Cristo stesso è il vero pastore e guardiano delle nostre anime, che noi seguiamo con grande fiducia, gratitudine e gioia».
Con un sottile discernimento volto al bene della Chiesa, il Papa ha fatto dunque una distinzione tra il suo cammino «personale di ricerca del volto del Signore» e il «ministero che gli è stato affidato». Non l’ha fatto solo in vista della sua rinuncia, ma l’ha fatto anche nel corso del suo pontificato, per cercare di approfondire quella «amicizia con Cristo» che era la base del suo ministero. Cioè, se in un determinato momento, per il bene della Chiesa, è stata necessaria questa distinzione tra ministero e cammino personale di ricerca e conoscenza di Cristo e che il Papa la facesse in questa maniera, nel momento in cui egli ha riconosciuto la sua debolezza fisica, è stato necessario, per il bene della Chiesa, che si dimettesse dal ministero che gli era stato affidato.
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Dopo aver considerato questi quattro casi concreti di pratica del ministero petrino da parte di papa Benedetto, riprendiamo infine l’omelia da lui pronunciata nella Missa pro eligendo Romano Pontifice.
L’ultima riflessione, con la quale il cardinale Ratzinger mette insieme le considerazioni precedenti, si riferisce alle parole di Gesù: «Vi ho costituito perché andiate e portiate frutto e il vostro frutto rimanga» (Gv 15,16). Ratzinger dice: «L’unica cosa, che rimane in eterno, è l’anima umana, l’uomo creato per l’eternità. Il frutto che rimane è perciò quanto abbiamo seminato nelle anime umane: l’amore, la conoscenza; il gesto capace di toccare il cuore; la parola che apre l’anima alla gioia del Signore».
In questa lista dei frutti che rimangono, non dobbiamo considerare soltanto i frutti, ma anche l’ordine con il quale vengono presentati: in primo luogo, la carità che non avrà mai fine (1 Cor 13,8); poi la conoscenza che si compirà quando vedremo Dio faccia a faccia (1 Cor 13,12); e infine la nostra predicazione in gesti e parole, che dispone i cuori all’azione della grazia.
Conclusione
Così le parole del cardinale Ratzinger vengono illustrate dalla sua stessa attività come Pontefice.
La domanda che ci siamo posti all’inizio di questo articolo su che cosa Benedetto XVI intenda veramente con «relativismo» ottiene ora una risposta più articolata.
C’è un relativismo che consiste nel sottomettere la fede alle ideologie. È chiaro che la fede deve dialogare con l’uomo che pensa in un certo modo, ma non può essere sottomessa al flusso di queste ideologie.
C’è poi un «relativismo» di carattere pastorale che non mette in dubbio le verità della fede, anzi le riafferma. Il rischio che così viene evitato è che le definizioni astratte e gli anatemi finiscano per «relativizzare» la misericordia, l’amore e la salvezza delle anime, facendole dipendere dal rispetto di una norma, che viene precisata fin nei minimi dettagli, senza tener presente che nel bene si progredisce sempre gradualmente. È qui che Benedetto XVI, nei casi che abbiamo presentato, relativizza positivamente alcune cose in funzione del bene maggiore dell’amore e dell’unità della Chiesa, mostrandosi paziente nei confronti delle «cose non buone» che accompagnano il bene maggiore.
La Chiesa può «permettersi di essere anche generosa» in funzione di questo bene maggiore. Il motivo è positivo: la Chiesa è consapevole «del lungo respiro che possiede», confida nel Signore della storia, che indirizza tutto (etiam peccata, nella formula di sant’Agostino) verso il bene di coloro che lo amano (cfr Rm 8,28).
In questo modo la parola conclusiva è dello stesso papa Benedetto, nella sua Enciclica Deus caritas est: «Esso [l’amore] è la luce – in fondo l’unica – che rischiara sempre di nuovo un mondo buio e ci dà il coraggio di vivere e di agire»[18].
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BENEDICT XVI AND THE PROBLEM OF «RELATIVISM» IN THE ECCLESIAL MINISTRY
The problem of relativism has been dealt with on numerous occasions during the intellectual life of Joseph Ratzinger. Studies of his thought highlight its importance and development. In the practice of Benedict XVI’s Petrine ministry, we can find a developed formulation of this theme. This article considers four occasions when Benedict XVI has addressed the issue; two, in which he gave original answers when the truth was at the service of unity; and two others, in which the criterion of discernment was for the good of the faithful, and of the Church. There is indeed a relativism which reaffirms the truths of faith in such a way that abstract definitions of the anathemas do not end up «relativizing» mercy and salvation, therefore making them dependent on compliance with a norm specified in minute detail.
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[1]. Cfr J. Ratzinger, Omelia nella «Missa pro eligendo Romano Pontifice», in Acta Apostolicae Sedis (AAS) 97 [2005] 685-689; cfr vatican.va
[2]. P. Ivanecký, «La critica di Benedetto XVI al relativismo odierno», in Teología y Vida 55 (2014) 173-179, studia il concetto di «relativismo» nell’opera di Joseph Ratzinger a partire dagli anni Settanta. A noi interessa l’analisi del termine nel periodo del pontificato di Benedetto XVI.
[3]. J. Ratzinger, «Itinerari della fede tra i rivolgimenti del tempo presente», in Id., Svolta per l’ Europa? Chiesa e modernità nell’ Europa dei rivolgimenti, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 1992, 82.
[4]. Benedetto XVI ha trattato il tema dell’unità dei cristiani in relazione con «l’ordine o “gerarchia” nelle verità della dottrina cattolica» nel Discorso ai partecipanti alla plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede (27 gennaio 2012), in AAS 104 [2012] 108-111.
[5]. Cfr AAS 101 [2009] 270-276. Il Decreto di remissione della scomunica latae sententiae ai vescovi della Fraternità sacerdotale San Pio X, del 21 gennaio 2009, afferma che «questo dono di pace, al termine delle celebrazioni natalizie, vuol essere anche un segno per promuovere l’unità nella carità della Chiesa universale e arrivare a togliere lo scandalo della divisione» (AAS 101 [2009] 150-151).
[6]. Cfr AAS 101 [2009] 985-990.
[7]. Benedetto XVI, Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede…, cit., 109-110.
[8] . «Intervista concessa dal Santo Padre Benedetto XVI ai giornalisti durante il volo verso l’Africa» (17 marzo 2009), in vatican.va
[9] . Cfr Benedetto XVI, Luce del mondo. Il Papa, la Chiesa e i segni dei tempi. Una conversazione con Peter Seewald, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 2010.
[10]. Ivi, 170.
[11]. Ivi, 170 s.
[12]. Ivi, 171.
[13]. Ivi, 53.
[14]. Ivi.
[15]. Benedetto XVI, Declaratio (10 febbraio 2013), in vatican.va
[16]. J. Ratzinger, Opera Omnia, VI/1. Gesù di Nazaret. La figura e il messaggio, Città del Vaticano, Libr. Ed. Vaticana, 2013, 128.
[17]. Benedetto XVI, Catechesi nell’Udienza Generale del 10 maggio 2016, in vatican.va
[18]. Id., Enciclica Deus caritas est (25 dicembre 2005), n. 39.