|
Partendo dalla St. Paul’s Cathedral, proprio nel cuore della City londinese, e attraversando il Millennium Bridge, un ponte pedonale leggero costruito nel 2000, si raggiunge un grande edificio in vetro e mattoni rossi. Si tratta di una vecchia centrale elettrica ora trasformata nella Tate Modern, il museo che ospita una delle più grandi collezioni di arte moderna e contemporanea del mondo. Dal 27 maggio al 5 settembre 2004 nelle sue sale ha avuto luogo un’ampia mostra antologica dedicata al grande pittore statunitense Edward Hopper (1882-1967)[1]. Dal 9 ottobre al 9 gennaio 2005 la stessa mostra viene ospitata presso il Ludwig Museum di Colonia. Si tratta della più ampia retrospettiva mai dedicata in Europa al pittore statunitense[2]. La mostra rappresenta una conferma del fatto che le immagini di Hopper richiamano un grande pubblico e stimolano l’immaginazione in maniera profonda e vibrante.
La sua opera ha influenzato pittori (ad esempio, David Hockey e Mark Rothko), registi (ad esempio, Alfred Hitchcock, Wim Wenders, David Lynch, Paul Thomas Anderson, il regista di Magnolia, e molti altri)[3], ma anche scultori e fotografi. Le tele di Hopper inoltre hanno ispirato numerosi poeti e narratori quali Paul Auster e Raymond Carver[4], fino a plasmare un vero e proprio immaginario condiviso[5] e a lasciare una profonda traccia nella cultura popolare.
L’essenziale non si può spiegare
Una donna indugia nell’andare a letto. Le mani e la gamba destra sono già sul giaciglio, ma improvvisamente un colpo di vento attraversa la finestra spalancata e agita le tende, che rientrano con decisione e leggerezza all’interno della stanza fino ad arrivare al centro dell’immagine. La donna, come stesse per balzare in un cielo / di nuvola di seta[6], ha il tronco in avanti, ma esso è spinto improvvisamente a seguire la direzione del capo che si rivolge verso la finestra. Il suo volto resta completamente coperto dai lunghi capelli. Le lenzuola assumono l’aspetto di onde; il vento quello della luce. Il movimento d’aria è in se stesso un fatto, ma sembra in realtà assumere il ruolo di mediatore di un evento inesprimibile, che va al di là di ciò che è rappresentato: una visita, un annuncio, una svolta, capace di fissare il movimento della donna, che resta immobile in una posa innaturale.
Il motivo romantico della donna alla finestra è qui rielaborato attraverso un elemento invisibile come il vento, il cui soffio può essere improvviso e inspiegabile. In un’intervista Hopper ha ricordato una frase di Renoir, secondo la quale «l’essenziale di un quadro è quello che non si può spiegare»[7]. L’acquaforte Evening Wind (Vento di sera), del 1921, che qui abbiamo descritto, è una delle prime opere che appaiono esposte nella retrospettiva europea. Essa fa parte del primo arco della produzione di Hopper: quasi un decennio (dal 1915 al ’23), nel quale egli dipinge una cinquantina di acqueforti.
Perlustrando le undici sale della mostra è possibile cogliere istantanee di vita ordinaria: persone intente al lavoro in spazi privati o colte in momenti imprevedibili, tipiche strade americane, vetrine, paesaggi marini, uffici, camere d’albergo, case che si stagliano imponenti, tetti e terrazze. Sono i luoghi del «vasto campo dell’esperienza»[8] umana ordinaria. Hopper cava anche dal semplice scenario americano delle periferie una poesia recondita. Per questo motivo, fra l’altro, i suoi quadri sono stati accostati alle pagine di Hemingway[9] e ai versi di William Carlos Williams, Wallace Stevens e Robert Frost[10]. Ma anche agli haiku giapponesi, a causa della loro straordinaria bellezza, frutto di una complessa semplicità, come ha affermato l’artista Ushio Shinohara: «Hopper è come un Haiku: poche parole ma grande significato»[11]. Lo stesso Hopper in un suo saggio fa riferimento ai pittori giapponesi Hiroshige e Hokusai[12]. La rappresentazione realistica è caricata di un’altissima densità simbolica.
Un’acuta sensazione di attesa
Nella terza sala è esposto Automat, che Hopper dipinse nel 1927. Il quadro rappresenta una donna che, da sola, sta seduta a un tavolino tondo. Hopper, come Vermeer, ama dipingere donne sole (che quasi sempre hanno il volto della moglie Jo) e lo fa con grande rispetto e con una raffinata capacità di cogliere in maniera sobria gesti e sfumature tipicamente femminili. La donna qui è all’interno di un «automat», cioè di un luogo di ristoro dove il cibo è servito da distributori automatici. Ella è seduta vicino all’ingresso, proprio davanti alla vetrata esterna, che però non lascia trasparire nulla da fuori: riflette soltanto le file gemelle di luci del soffitto. Una mano è guantata, l’altra nuda e regge una tazzina di caffè. L’abbigliamento è curato e la posa elegante; il viso assorto e fisso sulla tazzina. Alla sue spalle è un vassoio di cristallo con frutta rossa e arancione. Risulta fin troppo ovvio leggere il quadro come un’immagine della malinconia, cifra di una profonda e radicale assenza, della universale fragilità degli individui, di un’attesa frustrata, della solitudine che arde ad alto volume / come lampade rimaste accese[13].
Certo, Hopper è stato il pittore della solitudine, dei luoghi solitari e delle persone che sembrano non poter comunicare tra loro. Egli ha dipinto strade con negozi chiusi, rotaie senza treni, pompe di benzina senza auto attorno, locali senza avventori, teatri senza pubblico, sale di attesa deserte. Non a caso un’antologia di testi poetici ispirati a Hopper ha per titolo The Poetry of Solitude, in italiano tradotto con uno slittamento di senso La poesia del silenzio[14]. Parole come «vuoto», «solitudine», «abbandono», «estraneità», «separazione» ricorrono spesso anche nelle prose poetiche dello scrittore di origine cubana Rolando Perez, frutto di «escursioni» tra i quadri di Hopper[15]. Il mondo del pittore americano sarebbe una sorta di waste land, di «terra desolata» di marca eliotiana. In tal senso si è parlato di un radicale pessimismo. Si risolve in questi termini, dunque, la sua arte?
Con questa domanda in animo ci si potrebbe dirigere subito nella settima sala, dove è esposta la tela più nota e riprodotta di Hopper: Nighthawks (Nottambuli) del 1942. Il quadro rappresenta un locale del «Greenwich Village» di New York. È notte, la strada solitaria, le vetrine dei negozi disadorne: il senso / è lì pronto per essere afferrato, ma non è in vendita[16]. Nulla però suggerisce minaccia o pericolo. Il bar, che occupa due terzi della tela, è tutto una lunga vetrata. All’interno è potentemente illuminato da un’intensa e brillante luce artificiale, che riverbera sull’esterno. La forma del bar ricorda quella di un triangolo con un angolo smussato che punta la sua direzione all’esterno della tela, verso sinistra. All’interno il barista, vestito di bianco, rivolge il suo sguardo verso due clienti, un uomo e una donna. Quest’ultima, appoggiata al bancone, è assorta e intenta, con posa spiccatamente femminile, a guardare qualcosa che ha tra le mani. L’uomo che le sta a fianco guarda in direzione del barista, ma i loro sguardi non si incrociano. Le sue mani e quelle della donna non si toccano, sebbene siano vicinissime: esse si incrociano negli occhi dello spettatore soltanto grazie alla prospettiva. Di spalle vediamo un altro cliente con un bicchiere in mano.
I due uomini richiamano per posa e tratti l’Humphrey Bogart di The Maltese Falcon (1941). Tre anni prima il poeta W. H. Auden aveva scritto: Visi lungo il bancone / s’aggrappano al loro giorno medio / le luci non devono mai spegnersi (1° settembre 1939). Tutti i dettagli della tela sono ben curati: i contenitori del sale e del pepe, il distributore di tovagliolini, le macchine del caffè, le tazze. Questo bar è una sorta di locanda, di rifugio. Auden avrebbe parlato dei tre avventori come di bambini paurosi della notte. Tuttavia l’intimità non è data dagli sguardi (che non sono ricambiati) né dalla luce (che, sebbene gialla, è fredda). Per sé, anzi, il quadro ha comunicato a molti un senso di radicale isolamento dei protagonisti, come se fosse un «salone delle illusioni perdute» o una sorta di gabbia di vetro o addirittura un acquario colorato.
Accostiamo a questo quadro Gas del 1940, purtroppo non presente nella mostra. Siamo al crepuscolo. Un uomo è presso una delle pompe di benzina, che sono illuminate, come lo sono l’insegna della Mobilgas e l’interno della stazione. La luce è brillante e fluorescente, come quella del bar di Nighthawks. L’illuminazione è dunque dall’interno verso l’esterno. La strada sembra finisca lì, mentre sappiamo che essa prosegue nell’ombra del bosco, lato oscuro, ma anche meditativo, della realtà. Che cosa farà quel benzinaio? Forse starà chiudendo l’impianto. Forse avrà soltanto finito di servire un cliente. La sensazione che l’immagine sprigiona, grazie anche alla casupola a forma di chiesetta, ha suggerito a Ivo Kranzfelder un’azione che ha «qualcosa di rituale, di sacerdotale»[17].
La stazione di servizio, in ogni caso, è una vera e propria «terra di mezzo», un luogo di confine: il limite tra il giorno e la notte, tra il bosco e la strada, tra la natura e la civiltà. È dunque la solitudine il senso fondamentale di queste opere, magari una solitudine specchio e conseguenza di una condizione sociale? Pittore che visse in pieno clima esistenzialistico, Hopper è stato letto come colui che ha mostrato in immagine il volto dell’uomo solo e isolato davanti al proprio destino. In questo senso egli sarebbe espressione della coscienza dei suoi tempi, della crisi, del dramma dell’esistere e della sua insignificanza.
A questa lettura «esistenzialistica» se ne è affiancata una più sociologica, che ha visto in Hopper il pittore della «scena americana», del paesaggio industriale e metropolitano, che fa da sfondo agli anni della grande depressione che seguono il «venerdì nero» di Wall Street del 1929. Hopper, forse stanco di essere letto in termini sociologici, alla domanda: «C’è qualche contenuto sociale nel tuo lavoro?», ha risposto: «Assolutamente nessuno»[18].
«Assistere a un momento di incubazione»
In realtà, in Gas come in Nitghthawks, come in Automat e, più generale, in tutte le tele di Hopper, la posta in gioco è più alta, i significati sono più profondi: la solitudine, pur esistendo, è «un argomento a latere»[19]. La pittura di Hopper è, invece, come afferma egli stesso, un gesto ampio di reazione all’esistenza, un modo completo di occuparsi della vita[20]. E in che cosa consiste questa reazione? Come interpretare, cioè, quadri come Automat o Nighthawks o Gas?
L’elemento che sembra permeare tutti i lavori più importanti di Hopper è una «dimensione di ascolto», che può avere le risonanze emotive più diverse, fino a generare nello spettatore la «sensazione di assistere a un momento di incubazione»[21]. Nella sua opera «si avverte un lento battito brachicardico, come se pensare fosse una forma di ibernazione e il pensiero dovesse maturare a poco a poco»[22]. Ecco il punto: il cuore pulsante dell’ispirazione di Hopper, il suo motore, è uno sguardo di profonda e assorta aspettativa, un lento ma profondo ritmo di ascolto e di tensione verso una storia che viene colta e rivelata come in attesa di una annunciazione o di una visitazione. Non è un caso che il pittore per parlare della sua opera abbia usato termini come «sorpresa», «stupore» e «umiltà»[23].
I quadri di Hopper non sono rappresentazioni di una realtà determinata e non vivono in uno spazio e in un tempo definiti: le figure sono come colte in una sorprendente quiete, in attesa che qualcosa avvenga, come se una rivelazione fosse a portata di mano, ma non ancora compiuta. Davanti a ogni quadro è possibile porsi le domande: «Che cosa ha portato a quel momento? Che cosa avverrà dopo quella che sembra un’esplosione inevitabile?». La risposta sta fuori, rispetto alla superficie del quadro. La soluzione dell’attesa non è data, ma suggerita come una necessità ineliminabile: «È come se fossimo spettatori di un evento cui non siamo in grado di dare un nome. Sentiamo la presenza di ciò che è nascosto, di ciò che senza dubbio esiste ma non viene rivelato»[24]. La quiete apparente non fa sfuggire sulla tela né le tensioni, né tanto meno le passioni, che sembrano dunque non avere mai uno sfogo visibile. Ogni immagine è il tassello di una storia in divenire.
Il punto di sviluppo di questa energia di attesa è lo sguardo dell’osservatore, che assume i tratti del testimone di un evento che non si è ancora compiuto[25]. In tal modo chi guarda è coinvolto come se fosse davanti a uno specchio, come se l’immagine parlasse della sua vita, dei suoi desideri, del rapporto con la propria esistenza. Per questo motivo i critici sono concordi sul fatto che «i suoi quadri sembrano aperti a ogni possibile genere di interpretazione. […] Non sono concepibili senza l’osservatore; la cui interpretazione è in linea di principio parte dell’oggetto da interpretare»[26]. Sembra un paradosso: sebbene Hopper mostri spesso luoghi per loro natura non familiari e anonimi, lo spettatore, tramite le sue tele, può sentirsi portato a contatto con la propria autenticità personale[27].
Le scene di solitudine che abbiamo registrato, dunque, non sono definitive nel loro triste equilibrio: domina un’acuta sensazione di attesa, la certezza che qualcosa debba avvenire o qualcuno debba arrivare, anche se non si sa che cosa o chi. Hopper è dunque il maestro che sa fissare l’attimo instabile in cui la vita si manifesta come desiderio di una forma di salvezza, capace di coinvolgere lo spettatore. Ecco allora una domanda di importanza fondamentale: come si manifesta questa salvezza? Quali sono i suoi segni?
La visita della luce
La visione dell’undicesima e ultima sala della mostra è introdotta da un cartello nel quale si legge: «La luce è ciò che salva l’opera di Hopper dal nichilismo: essa offre la possibilità di redenzione, un raggio di speranza nella dura realtà del quotidiano». La speranza, la salvezza, la redenzione, alle quali il cartello esplicativo della retrospettiva fa riferimento, assumono per lo più le connotazioni della luce o del vento. La luce e l’aria possono attraversare finestre e vetri, onnipresenti nei quadri di Hopper, simbolo di un muro sempre e comunque valicabile. Per lui la finestra «è come l’apertura di una camera oscura grande come la stanza, che lentamente e fermamente separa la luce dal buio»[28]. Hopper è un «genio delle finestre»[29].
Abbiamo già notato il ruolo della luce artificiale in quadri come Nighthawks e Gas. Occorre dunque soffermarsi adesso sulle opere nelle quali la luce solare entra come un raggio potente all’interno di spazi privati o addirittura intimi. Tra le sale della mostra gli occhi si fermano su quadri che ritraggono una donna in un interno davanti a una finestra da cui proviene un’intensa luce che le si proietta addosso e sul muro che le sta alla sinistra, come Girl at Sewing Machine (Ragazza alla macchina da cucire) e Morning Sun (Sole mattutino). Persino quadri più sottilmente inquietanti come Excursion into Philosophy (Escursione nella filosofia) o A Woman in the Sun (Una donna al sole) sono «battezzati» dalla luce che proviene da una finestra e, senza diffondersi nell’atmosfera, si proietta direttamente sul muro nel primo caso, e sul pavimento nel secondo. E non bisogna dimenticare Sun in an Empty Room (Sole in una stanza vuota) o Room by the Sea (Stanza sul mare), quest’ultimo purtroppo non presente nella mostra: sono quadri giocati sui soli rapporti di luce, spazio e forme essenziali e geometriche, dove la luce è l’unica protagonista di una stanza vuota.
Hopper dipinge la luce come se si trattasse di una vera e propria forma di «annunciazione». Il poeta Mark Strand, ad esempio, nota questo significato commentando il quadro Pennsylvania Coal Town (Cittadina mineraria in Pennsylvania). La tela presenta un uomo che sta lavorando al giardino dinanzi alla sua casa e guarda in direzione di un vicolo da cui proviene un’intensa luce. Scrive Strand: «È quasi un’annunciazione. L’aria è colma di purezza. E noi veniamo coinvolti in una visione la cui sorgente ci sfugge e il cui effetto è difficile da cogliere»[30]. Ciò che avvalora questa intuizione è il fatto che la luce di Hopper non invade l’atmosfera, come invece accade negli impressionisti: è come se essa fosse un raggio diretto, sebbene molto ampio, che aderisce alle pareti, agli oggetti e alle persone. L’atmosfera così rimane tersa, mai afosa o sfavillante: la luce non è applicata alla forma; piuttosto, i quadri di Hopper «vengono costruiti dalle forme che la luce assume»[31]. Questa luce dunque, conclude Strand, «sembra avere un potere ultraterreno»[32].
La luce crea la struttura della realtà e permette all’artista di manifestare la sua visione del mondo. Hopper deve trovare un punto di equilibrio tra la forma degli oggetti rappresentati e la luce che su di essi si posa perché l’una tende ad annullare l’altra, come avviene invece in Monet. La luce assume caratteristiche e valenze spirituali fino ad assumere la forma di una «grazia» che viene dall’esterno, indeducibile dall’interno. È l’ingresso in scena, sorprendente e imprevedibile, di una qualche forma di «salvezza», come giustamente la curatrice della retrospettiva ha messo in evidenza. Che poi sia luce naturale o artificiale non ha importanza decisiva[33]. È interessante notare l’effetto dell’ingresso della luce notturna al neon in quadri come Office at Night (Ufficio di notte) e Conference at Night (Riunione di notte), quest’ultimo non presente nella mostra: la sua potenza sembra pari a quella solare.
La qualità aurorale della luce
Ma la luce di Hopper è anche quella del mattino, fresca, quasi ancora aurorale, capace di restituire alle cose la loro integrità originaria. In quadri come Seven A.M. (Sette del mattino), non presente nella mostra, o il celebre Early Sunday Morning (Domenica mattina presto) la luce del mattino dischiude come un sipario la scena dei negozi dalle vetrine vuote: in questo momento, il mattino / è soprattutto se stesso[34]. Sembra che qualcosa debba accadere da un momento all’altro, e invece il tempo è sospeso e disteso dalla luce mattutina: «Una complicità sognante tra calma e immobilità dà l’impressione che un movimento magico venga protratto nel tempo e che noi ne siamo i privilegiati testimoni»[35].
La luminosità caratterizza anche le splendide tele che raffigurano paesaggi costieri o marini. Nella mostra europea sono presenti due tele che raffigurano in primo piano un faro, vera «terra di mezzo» rivolta al mare: Lighthouse Hill (Collina del faro) e Captain Upton’s House (Casa del capitano Upton), entrambe del 1927. Sono assenti invece The Lighthouse at Two Lights (Il faro a due luci) e Five A.M. (Cinque del mattino). Il secondo e il quarto dei quadri citati fanno percepire la fresca e brillante luce del mattino; nel primo e nel terzo invece prevalgono i contrasti, e il faro è tagliato verticalmente, proprio nel mezzo, dall’ombra. Il complesso nei primi tre è osservato dal basso verso l’alto e le forme geometriche sono esaltate dal blu intenso del cielo, dal bianco sporco delle ombre e dai verdi variegati e chiazzati dei cespugli. Nel secondo e nel terzo quadro cirri di nuvole bianche striano il cielo[36].
La stessa fresca luminosità caratterizza l’acquerello Yawl Riding a Swell del 1935, e gli oli The Lee Shore del 1941, The Martha McKean of Wellfleet del 1944 e Ground Swell (Risacca) del 1939. Sono opere, tutte purtroppo assenti alla mostra europea, che emanano un’intensa luce solare, evocano la brezza marina ed esprimono la passione di Hopper per le barche e il piacere delle lunghe estati trascorse a Cape Cod, dove la costa del Massachusetts incontra l’Oceano Atlantico. In particolare, Ground Swell presenta una barca vista da poppa sulla quale si trovano tre (forse quattro) uomini e una donna. Dominano le sfumature di azzurro del cielo e del mare solcato da onde ampie, profonde e regolari, e i bianchi dei cirri, della barca, della vela spiegata e dei pantaloni di due uomini.
Hopper usa il fermo immagine. La barca sembra sospesa in una sorta di «solidità fluttuante»[37] davanti a una boa inclinata, della quale si vedono anche i bordi corrosi dall’acqua marina e, sulla sommità, una campana che certamente, nella posizione in cui si trova, sta suonando. I volti dei personaggi sono tutti rivolti verso di essa e il suo suono. Il loro è uno sguardo intenso, assorto, come se stessero contemplando un oggetto carico di significati nascosti e profondi: una terra di mezzo, a suo modo? un limite invalicabile? oppure una direzione? un senso? una salvezza? Forse tutto questo insieme. Barca e boa delimitano un triangolo di cui il lato più ampio allaccia la punta sinistra della boa (che comunque segna un limite, un confine) all’estremità superiore della vela spiegata (che è segno del viaggio in corso). La direzione è data da un triangolo di cirri nel cielo luminoso che rivolge il suo vertice in direzione dell’orizzonte ininterrotto. Hopper dunque fa vibrare la sua assorta meditazione sull’esistenza, il suo vivo desiderio di una forma di «annunciazione», non solo ai colori caldi degli interni urbani e del crepuscolo o alle traiettorie delle luci artificiali della notte, ma anche alla fresca brezza marina e al brillante chiarore del bianco e dell’azzurro.
Come si reagisce alla luce? Ci si espone, come fanno i cinque personaggi di People in the Sun (Gente al sole) del 1960, distesi su sedie di legno in abiti borghesi, forse sul patio di un albergo, a contemplare la luminosità che proviene dal sole, che però ha la sua origine fuori dalla tela. La postura dei personaggi sembra quella dei passeggeri di un aereo che sta per decollare verso una meta luminosa, il cui scenario però resta fuori dalla tela. È pure simile a quella di persone sedute in una sala di attesa. La vita intera sembra essere per Hopper una grande sala di attesa. Se questo quadro non è presente nella retrospettiva europea, lo è invece Cape Cod Morning (Mattino a Cape Cod), opera di straordinaria efficacia, che Hopper considera vicina più di altre alla sua idea di pittura: una donna si rivolge verso la finestra di un bovindo, quella costruzione sporgente dalla facciata di un edificio, simile a un balcone chiuso a vetrate, tipico delle case americane. Ella è attratta potentemente dalla luce solare, con uno sguardo tutto teso all’esterno, come in attesa vigile di qualcosa o di qualcuno.
Lo sguardo della donna è indecifrabile e comunica insieme sia malinconia[38](per gli angoli della bocca rivolti verso il basso), sia vivo desiderio (per gli occhi tesi e le mani che, saldamente poggiate sul tavolo, proiettano il busto in avanti). A tal punto il suo volto vive questo equilibrio, che difficilmente una riproduzione a stampa di quest’opera è in grado di manifestare fedelmente. In effetti, la sensazione di attesa, che è radicalmente presente nei quadri di Hopper, spesso nasce proprio da un originale e instabile equilibrio, che soltanto un occhio molto «puro» può cogliere, tra un senso diffuso di malinconia e una sottile tensione di desiderio. In tal modo lo spettatore reagisce davanti al quadro cogliendo ciò che il suo stato d’animo gli permette di percepire. Alcuni avvertiranno maggiormente un senso di tristezza, altri invece un senso di positiva speranza.
***
Il contributo di Hopper alla pittura moderna è stato quello di aver reso epica la noia, di aver sacralizzato i momenti di banale disattenzione della vita di ogni giorno, di aver «battezzato» e «salvato» la realtà con la luce[39]. Hopper ha compreso che, «per alludere all’aspetto spirituale della natura visibile, non occorrevano soggetti solenni, temi nobili. Bastava un passaggio a livello, una casa, un tetto»[40]. Egli ha intuito che il mistero più grande non è presente in ciò che è misterioso, ma nella realtà ordinaria, in ciò che apparentemente è lontano dal mistero.
I suoi quadri non sono né enigmatici né misteriosi, dunque, ma puntano al cuore del mistero stesso del nostro essere nel mondo. In tal senso le sue immagini non sono «vedute», ma «visioni». Il loro significato non è di ordine psicologico o sociologico, ma tocca le corde fondamentali della vita umana: il suo permanente stato di incubazione; le tensioni delle sue aspettative; il suo instabile equilibrio tra malinconia e desiderio, tra solitudine e attesa di una «visita»; il suo bisogno di una forma di «salvezza» e di «grazia»; il suo sguardo al di là della «finestra» rivolto verso una possibile «annunciazione». La retrospettiva europea rappresenta dunque un’occasione preziosa per riscoprire l’opera di Hopper e per esporsi alla densità evocativa che essa è capace di esprimere.
Copyright © La Civiltà Cattolica 2004
Riproduzione riservata
***
[1] Hopper nasce nel 1882 in una cittadina sulle rive del fiume Hudson, a pochi chilometri da New York. Dopo gli studi presso la New York School of Art, dove sviluppa una particolare attenzione per i pittori e i poeti francesi, diviene illustratore pubblicitario. Con i proventi del suo lavoro, nel 1906 compie il primo dei suoi tre viaggi a Parigi e in varie città europee, tra le quali Amsterdam, dove resta affascinato da Rembrandt, tra i suoi pittori preferiti in assoluto. Nel 1913 va ad abitare a New York, al n. 3 di Washington Square, dove vivrà tutta la vita. Nel luglio del 1924 si sposa con la pittrice Josephine Verstille Nivison, che da quel momento sarà sempre semplicemente Jo: condurranno una vita semplice e frugale, tutta rivolta alla pittura e alla campagna, dove vivranno per quasi sei mesi all’anno. Nel 1933 il Museum of Modern Art (MoMA) di New York gli dedica una retrospettiva. Da questo momento la fama di Hopper sarà in crescita costante e accompagnerà la produzione delle sue opere più note. Nel 1952 è presente alla Biennale di Venezia con 28 opere. Il 24 dicembre 1956 la rivista Time gli dedica la copertina e un lungo articolo. D’ora in poi la sua produzione si limita a due o tre tele l’anno fino all’ultima del 1965, Two Comedians (Due commedianti), in cui rappresenta se stesso e la moglie sul palcoscenico di un teatro mentre si congedano dal pubblico. Hopper muore il 15 maggio 1967, appena qualche mese prima della moglie Jo.
[2] Della mostra è stato pubblicato il catalogo: S. WAGSTAFF (ed.), Edward Hopper, London, Tate Publishing, 2004. Alcune osservazioni presenti nelle pagine di questo articolo sono maturate nel dialogo con il p. Luciano Larivera nel corso della visita alla mostra londinese.
[3] Qualche esempio: Hitchcock si ispirò al quadro House by the Railroad per ambientare il famoso thriller Psycho, così come a Night Windows per il film Rear Window; Wenders è profondamente ispirato da Hopper nella sua fotografia e nella regia di film quali L’amico americano e Paris Texas.
[4] Qualche esempio: il romanzo Ph. BESSON, E le altre sere verrai?, Parma, Guanda, 2004; le raccolta di prose brevi R. PEREZ, The lining of our soul. Excursions into selected paintings of Edward Hopper, New York, Cool Grove Press, 2002 e M. STRAND, Edward Hopper. Un poeta legge un pittore, Roma, Donzelli, 2003; la raccolta poetica G. LEVIN (ed.), Edward Hopper. La poesia del silenzio, Milano, Rizzoli, 1997.
[5] Lo dimostra D. LYONS – A. D. WEINBERG – J. GRAU (eds), Edward Hopper and the American Imagination, New York, Whitney Museum – Norton, 1995, che contiene contributi di 14 scrittori.
[6] Verso del poeta Robert Mezey in Vento serale, poesia ispirata all’omonimo quadro di Hopper, in G. LEVIN (ed.), Edward Hopper…, cit., 24.
[7] K. KUH, «Edward Hopper», in E. HOPPER, Scritti interviste testimonianze, Milano, Abscondita, 2000, 67.
[8] E. HOPPER, «Lettera a Sawyer (29 ottobre 1939)», ivi, 15.
[9] Hopper ammirava Hemingway. È possibile cogliere un’analogia tra la prosa dell’uno e le tele dell’altro: queste ultime, infatti, attente alle forme e alla semplicità, sono capaci di rendere epica e densa di connotazioni la quotidianità della vita, immersa in scenari urbani, nei colori della sera, nel chiarore notturno dei bar o nella luminosità abbagliante di un sole lontano.
[10] John Hollander nell’articolo «Hopper and the Figure of Room» (in Art Journal, Summer 1981, n. 41, 160) accosta Hopper e Stevens, definendo l’opera del primo con il titolo di una raccolta poetica del secondo: Il mondo come meditazione. Hopper stesso sin dalla sua gioventù fu attento lettore di letteratura. Lesse, amandoli, Kipling e Coleridge, Henri James, Flaubert e Zola. Hopper però indicherà sempre Verlaine e Rimbaud, insieme al citato Frost, come i suoi poeti preferiti. Egli cita anche la «straordinaria pittura visiva» di Goethe.
[11] Citato in G. LEVIN, «Hopper in Japan».
[12] E. HOPPER, «Charles Burchfield, americano», in Id., Scritti…, cit., 33.
[13] Verso del poeta David Ray in Automat, poesia ispirata all’omonimo quadro di Hopper, in G. LEVIN (ed.), Edward Hopper…, cit., 54.
[14] Cfr anche il documentario Edward Hopper. The silent witness, di W. HASTERT (Kultur International Films, 1994), che sviluppa il medesimo approccio critico.
[15] R. PEREZ, The lining…, cit.
[16] Verso del poeta John Hollander che compare in una poesia ispirata a Seven A.M. di Hopper, in G. LEVIN (ed.), Edward Hopper…, cit., 26.
[17] I. KRANZFELDER, Edward Hopper…, cit., 74.
[18] K. KUH, «Edward Hopper», in E. HOPPER, Scritti…, cit., 67. Cfr B. O’DOHERTY, «Hopper’s Look», in S. WAGSTAFF (ed.), Edward Hopper…, cit., 86.
[19] 19 E. PONTIGGIA, «Edward Hopper, pittore metafisico», in E. HOPPER, Scritti…, cit., 106. Il contributo è stato di recente ristampato in Hopper, Milano, Rizzoli – Corriere della Sera, 2004, 7-23.
[20] E. HOPPER, «Dichiarazione», in E. HOPPER, Scritti…, cit., 17.
[21] Ch. BURCHFIELD, «Hopper. Il percorso di una poesia silenziosa», in E. HOPPER, Scritti…, cit., 44 e 46.
[22] B. O’DOHERTY, «Ritratto di Edward Hopper», in E. HOPPER, Scritti…, cit., 72
[23] E. HOPPER, «Note sulla pittura»…, cit., 13.
[24] M. STRAND, Edward Hopper. Un poeta legge un pittore, Roma, Donzelli, 2003, 85.
[25] Da dove deriva a Hopper questa ispirazione? Sappiamo che egli da giovane illustratore spesso trasse ispirazione da Ibsen. Non è da sottovalutare questa passione per comprendere come nei suoi quadri il dramma si manifesti in forma statica, rivelata sostanzialmente da segni e simboli concreti.
[26] I. KRANZFELDER, Edward Hopper…, cit., 37.
[27] Cfr A. de BOTTON, «The Pleasure of Sadness», in Tate etc., 2004, n. 1 (Summer), in http://www.tate.org.uk/tateetc
[28] B. O’DOHERTY, «Ritratto di Edward Hopper», cit., 87.
[29] L. BENTIVOGLIO, «Edward Hopper. Hillman: “vi spiego le sue finestre”», in la Repubblica, 28 maggio 2004.
[30] M. STRAND, Edward Hopper…, cit., 37.
[31] Ivi, 41.
[32] Ivi, 45.
[33] Cfr L. GOODRICH, Edward Hopper, New York, H. N. Abrams, 1993, 113.
[34] Verso del poeta John Hollander che compare in una poesia ispirata a Seven A.M. di Hopper, in G. LEVIN (ed.), Edward Hopper…, cit., 26.
[35] M. STRAND, Edward Hopper…, cit., 25.
[36] La freddezza dei bianchi ha ricordato ad alcuni critici quadri come La nostalgia dell’infinito di G. De Chirico. In realtà la differenza è profonda, perché Hopper gioca il suo sguardo filosofico non sull’astratto, ma sulla «solidità delle cose» concrete. Si può parlare semmai, come ha fatto Max Beckmann, di «obiettività trascendentale» per la quale la visione e la realtà rimangono legate in modo che la qualità metafisica plasma di sé tutta la dimensione fisica degli oggetti. Cfr R. G. RENNER, Hopper 1882-1967. Trasformazioni del reale, Roma, Gruppo Editoriale L’Espresso, 2001, 39 e W. SCHMIED, Edward Hopper. Portraits of America, Munich – London – New York, Prestel, 1999, 36-46 passim.
[37] M. STRAND, Edward Hopper…, cit., 29.
[38] Sul tema della malinconia nei quadri di Hopper cfr M. IVERSEN, «Hopper’s Melancholic Gaze», in S. WAGSTAFF (ed.), Edward Hopper…, cit., 52-65.
[39] Cfr B. O’DOHERTY, «Ritratto di Edward Hopper», cit., 84.
[40] E. PONTIGGIA, «Edward Hopper, pittore metafisico», cit., 108.