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Sul tema della felicità un pensiero di Pascal costituisce un fondamentale punto di partenza: «Tutti gli uomini cercano di essere felici, senza eccezioni; e tutti tendono a questo fine, sebbene diversi siano i mezzi che usano […]. La volontà non fa mai il più piccolo passo se non in direzione di questo oggetto. Esso è il motivo di tutte le azioni di tutti gli uomini, finanche di quelli che s’impiccano»[1]. Riecheggiando Pascal, Paul Claudel afferma: «C’è nell’uomo uno spaventoso bisogno di felicità. È necessario che esso abbia il suo alimento, altrimenti divorerà tutto come un fuoco»[2]. A suo parere, tale bisogno «costituisce il fondo della natura umana», caratterizza l’uomo come essere vivente, ne determina le scelte, suscita e alimenta i suoi desideri. Esso si presenta al Poeta con due caratteristiche: l’universalità e l’insaziabilità. La prima è evidente, poiché il bisogno di bene costituisce il nostro essere; il secondo è un dato dell’esperienza. In realtà, vivere significa desiderare, cercare, sperimentare. Rifacendosi a sant’Agostino, Claudel annota nel suo Journal: Qui semel dicit sufficit periit (Chi dice anche una sola volta: questo mi basta, è finito). Una vita senza desideri e senza ricerca di bene è una morte, poiché «l’uomo, questo esiliato, è prima di tutto un essere di desiderio»[3]. Un interrogativo sùbito s’impone: dove trovare la felicità? Filosofi di ogni tempo, poeti, artisti, scrittori, teologi, sociologi si sono affannati a rispondere. In merito la bibliografia è sconfinata. Nel nostro scritto ci limitiamo a presentare sinteticamente le risposte date ad esso da quei poeti e narratori del Novecento (con qualche eccezione) che maggiormente lo hanno interpretato e rappresentato.
«E un’esultanza gli invase l’anima»
Fino a cinquant’anni, Lev N. Tolstoj (1828-1910) fu ossessionato dalle domande ultime: perché si vive? che cosa ci attende dopo? «Il terrore delle tenebre era troppo grande ed io al più presto volevo liberarmene con l’aiuto di una corda o di una pallottola»[4]. Un’altra domanda lo incalzava: è possibile raggiungere la pace e la felicità? Credette di trovare una risposta nel Vangelo, ed evitò il suicidio. «D’un tratto intesi le parole di Cristo e le compresi. La vita e la morte finirono di apparirmi un male, e da allora invece della disperazione, ho sentito la felicità e la gioia della vita, che la morte non può alterare»[5]. Il Cristo, apportatore di felicità e di gioia, diventò una presenza fondamentale nella vita dello scrittore.
Ma, quale Cristo? Un Cristo ridotto a rabbi, estraneo ad ogni prospettiva soprannaturale e ad ogni Chiesa, preoccupato soltanto di comunicare agli uomini la pace e la felicità. La sua dottrina è «luce della ragione», «iscritta nel cuore degli uomini predicata da tutti i veri saggi della terra» e da lui proclamata in forma «razionale, chiara, in armonia con la nostra coscienza, salvifica». Attenzione però a non credere che la dottrina — il Vangelo — di Gesù si trovi nella Chiesa. La Chiesa l’ha tradita, alterandola, per piegarla ai suoi scopi mondani e infarcendola di elementi — sacramenti, riti, preghiere — che sanno di magia e di sacrilegio. Il Vangelo genuino è un altro: lo ha scoperto lui, Tolstoj, dopo anni di studio, e lo ha offerto al mondo con la pubblicazione di Riunione, traduzione ed esame dei quattro Vangeli, conosciuta come Il Vangelo di Tolstoj.
Il suo lavoro esegetico si basa su due princìpi: sono autentici quei brani che offrono una comprensione della vita e la rendono felice e benefica; è spurio quanto sa di miracolo, di soprannaturale, di escatologico e di rivelazione dall’alto. La via della felicità è nel conformarsi a questo vangelo (secondo Tolstoj). Le ultime pagine di Resurrezione ne offrono una sintesi.
Dopo tanto cercare, il principe Dimitrij Nechljudov comprende che il segreto e l’anima della pace e della felicità sono nell’amore e nel perdono, secondo il Discorso della Montagna. Esso propone cinque precetti basilari: «1) Non vi adirate e siate in pace con tutti; 2) non vi dilettate nella lussuria peccaminosa; 3) non giurate niente a nessuno; 4) non resistete al male, non giudicate e non disputate; 5) non fate distinzione tra i diversi popoli e amate gli stranieri come fossero dei vostri»[6].
Ripetendo questi precetti, Nechljudov rimane assorto, fissando lo sguardo sulla luce della lampada; gli si prospetta «con chiarezza che cosa questa vita avrebbe potuto essere se gli uomini fossero stati educati secondo quei princìpi: e un’esultanza come da gran tempo non provava gli invase l’anima. Era come se, dopo un lungo stato di oppressione e di sofferenza, avesse trovato d’improvviso la tranquillità e la libertà»[7].
Ha raggiunto la felicità il grande Tolstoj, seguendo il suo vangelo (manuale di comportamento etico, nobile e benefico)? La risposta ci viene dalla battuta di un suo libro: «Aiutatemi, il mio cuore si lacera di disperazione perché siamo tutti smarriti»[8].
«Ascolta il tuo cuore»
Un’analoga via per raggiungere la felicità, in tempi recenti, l’ha indicata Paulo Coelho (nato nel 1947), soprattutto nel romanzo L’Alchimista (1996)[9]. Tolstoj parla di fedeltà ad alcuni precetti del suo vangelo, Coelho di fedeltà alle voci che provengono dal cuore; la pace e la felicità che apportano i precetti del Cristo di Tolstoj sono spirituali, sì, ma puramente terrene; le voci del cuore, rivelate da Coelho, immettono nell’eternità di Dio. I percorsi sono diversi, il fine è identico: raggiungere lo scopo della nostra vita, dunque la pace e la felicità.
Protagonista del romanzo di Coelho è un giovane pastore andaluso il quale, per realizzare un sogno che da sempre lo accompagna, si avventura in un interminabile viaggio per raggiungere le Piramidi egiziane. «Se verrai fin qui, troverai un tesoro nascosto», gli ha predetto un bambino nel sogno, mostrandogli le Piramidi; un’indovina e un vecchio saggio hanno confermato la predizione. Il viaggio è arduo e lungo, la tentazione di abbandonare l’impresa è ricorrente. «Non dimenticare che il tuo cuore si trova là dove si trova il tuo tesoro» gli ripete un alchimista che lo guida nel deserto. L’avvertimento è categorico: se si vuole raggiungere una mèta bisogna amarla e preferirla a tutto. Grazie alla forza dell’amore, il ragazzo supera ogni difficoltà e raggiunge le Piramidi. Qui trova il suo tesoro.
Questo tesoro è, sì, un baule pieno di monete, di pietre preziose e di brillanti, ma è soprattutto la scoperta di alcune verità che trasformano l’esistenza da banale avventura in impresa che introduce nella sfera del divino. Qui si hanno rivelazioni essenziali: sul nostro io, sul significato della vita, sull’amore, sulla felicità e sui mezzi per trovarla e conservarla. Dunque, una specie di nuovo vangelo, anzi di un nuovo battesimo che ci consacra seguaci di una nuova religione: la religione della Nuova Era.
Le verità sulle quali questa si fonda sono le seguenti: l’universo è «un tutt’uno», «tutto è una cosa sola»; ha un’anima, chiamata l’«Anima del Mondo», che «muove tutte le cose», a tutte dà senso e vita. Noi la chiamiamo Dio. «Immergersi in essa non è morire, è ritrovarsi con tutto il creato in una nuova dimensione di esistenza», sì che, «quando tu desideri qualcosa, tutto l’Universo cospira affinché tu realizzi il tuo desiderio». Per vivere nell’Anima del Mondo occorre ascoltare il cuore perché «conosce ogni cosa», essendo da essa originato. L’ascolto del cuore preserva dalla paura e dalla tristezza e rivela fondamentali verità nascoste. Queste, per esempio: uomo felice è colui che ha Dio dentro di sé; immergersi in Dio, cioè nell’Anima del Mondo, significa vivere nella felicità. «E il ragazzo s’immerse nell’Anima del Mondo: si rese conto di come essa facesse parte dell’Anima di Dio e di come l’Anima di Dio fosse la sua stessa anima» (p. 167). Ecco il Paradiso.
Coelho ha scritto L’Alchimista per indicare agli uomini del nostro tempo la via della salvezza e della felicità, cioè per realizzare se stessi (la propria Leggenda Personale, egli dice). A tale scopo essi devono impegnarsi in una graduale trasformazione in Dio, seguendo le indicazioni dei sogni più ricorrenti e profondi. La mèta è ardua ma non impossibile: nell’Anima del Mondo troveranno la capacità di compiere anche miracoli. La battuta che sintetizza la pedagogia de L’Alchimista così recita: «Ascolta il tuo cuore. Esso conosce tutte le cose, perché è originato dall’Anima del Mondo, e un giorno vi farà ritorno» (p. 143). Anche sant’Agostino raccomanda di «tornare al cuore» perché «lì si trova l’immagine di Dio. Nell’interiorità dell’uomo abita Cristo»[10]. Il Santo sa bene però che il cuore dell’uomo, abbandonato a se stesso, può diventare oscuro e torbido sì da non riflettere più l’immagine di Dio. «Che cosa turba l’occhio del cuore? La cupidigia, l’avarizia, l’iniquità, la concupiscenza: tutto ciò turba, acceca l’occhio del cuore»[11]. L’alchimista di Coelho non conosce questa drammatica possibilità perché non conosce la verità della Redenzione. Perciò i sentieri da lui tracciati per conquistare la felicità sono ambigui, anzi pericolosi, nonostante rivelino generosità d’animo.
«Natanaele, non distinguere Dio dalla tua felicità»
La via indicata da André Gide (1869-1951) per raggiungere la felicità si può così sintetizzare: legittimare, anzi santificare gli istinti e abbandonarsi ad essi con totale disponibilità. Ha tradotto in pratica tale convincimento e lo ha narrato in un’opera vasta, con un’arte seducente e raffinata che lo colloca tra gli scrittori più importanti del Novecento.
Per comprendere Gide occorre risalire al tempo della sua giovinezza, quando gli si rivelarono il puritanesimo dell’ambiente familiare e la propria omosessualità. Impegnò la sua intelligenza e la sua arte di scrittore per denunciare la miseria del puritanesimo e legittimare la sua diversità. Aveva cercato invano di dominarla appellandosi a un astratto ideale religioso; quando ne comprese l’inefficacia, cercò una soluzione in altre direzioni. Ruppe ogni legame con la vecchia morale e considerò bene l’obbedienza agli appelli degli istinti e male quanto ad essi si oppone. Considerò peccato rifiutarsi di essere se stessi, non abbandonarsi cioè alle brame e ai desideri fortemente sentiti, quali che siano, e assaporarne tutte le gioie; santità è concedersi a quanto la vita istintiva reclama. Dio — si chiese — non è ciò che si gusta nei «nutrimenti terrestri»? Non è la felicità che si ottiene nell’appagamento dei sensi? «Natanaele, non distinguere Dio dalla tua felicità» si legge nei Nutrimenti terrestri[12].
Gide si spinse oltre: volle legittimare la sua «conversione alla terra» ricorrendo al Vangelo, ma interpretandolo a modo suo, elaborando cioè un «Vangelo secondo Gide». Perché questa falsificazione? La risposta non è difficile, anche se penosa: per la necessità di giustificare, anzi santificare la sua «conversione» alla terra. Voleva poter contemplare il suo cuore e il suo corpo sans dégoût. Combattere i propri istinti, queste magnifiche creature di Dio, non è opporsi a Dio stesso? C’è cosa più miserabile dell’offerta di un cuore devastato dalla rinuncia alle esigenze della natura? A Dio bisogna offrire un cuore felice. Sotto l’essere «fittizio», prodotto dalle convinzioni, l’essere «naturale» esige di «nascere di nuovo», come dice Gesù: rinascere sciolti da ogni legge, e disponibili ad ogni richiamo della natura. Qui è l’innocenza vera, — insegna Gide — qui la purezza, qui lo «spirito d’infanzia», la freschezza d’anima che niente può turbare, qui la felicità. Dio lo si trova e lo si gusta nell’esplosione dei sensi. «Oh, mio Dio, che questa angusta morale se ne vada in pezzi, e che io viva, sì, viva in pienezza»[13].
Visse «in pienezza», vagabondo sulle vie dell’appagamento dei sensi, fino alla vecchiaia. Risultato? Alcuni anni prima di morire, scrisse nel Journal: «22 novembre 1946. Capisco Schwob che ricopriva gli specchi di casa sua. La mia immagine, questo riflesso di me che, grazie ad essa, vedo continuamente, mi è insopportabile. Mi percuoto, percuotendo l’immagine, mi ferisco, ferendo l’immagine»[14]. Tre anni prima (sempre nel Journal, 4 maggio 1943) aveva parlato di disperazione.
«Volontà, Voluttà, Orgoglio, Istinto, quadriga imperiale…»
Sui sentieri di Gide incontriamo Gabriele D’Annunzio (1863-1938). I suoi passi sono di guerriero, sicuri e sonori, non felpati e insidiosi come quelli di Gide. Il proclama che lo contraddistingue è categorico: Morire o gioire! Gioire o morire! È il proclama di chi vede nell’appagamento dei propri desideri la via della gioia e il senso della vita, da realizzare mediante quattro forze che formano il piedistallo del superuomo: Volontà, Voluttà, Orgoglio, Istinto, quadriga imperiale… Nel Canto novo il poeta invita l’Ospite — la donna amata — a cantare la gioia: Canta la gioia! Io voglio cingerti / di tutti i fiori perché tu celebri / la gioia la gioia la gioia […] / Canta l’immensa gioia di vivere, d’essere forte, d’essere giovane, / di mordere i frutti terrestri / con saldi e bianchi denti voraci[15]. È la gioia edonistica ed energetica, dei sensi e della volontà, proclamata anche da Nietzsche nella Gaia scienza. In un’altra lirica, Felicità[16], asserisce che, cercando se stesso, ha incontrato la felicità, personificata in una donna dall’apparenza divina e selvaggia. Ha veramente incontrato la felicità? Nelle Cento e cento e cento e cento pagine del libro segreto che comprendono «le note che per alcuni anni egli scrisse ogni notte, con la più audace sincerità, non a confessione ma a rivelazione di sé medesimo», c’è un rigurgito di tedio, di tormento, anzi di disperazione. Parla poi di un ferale taedium vitae che gli viene dal «fastidio — che oggi è quasi l’orrore — di essere stato e di essere Gabriele D’Annunzio»[17]. A Emilia Mazoyer (Aélis) confessava: «Voglio restare col nulla che mi sono creato […]. Preferisco il nulla, i vermi che mi mangeranno»[18].
Variazioni sul tema, orchestrato da Gide e D’Annunzio, sono le vie indicate da David H. Lawrence (1885-1930) e da Henry de Montherlant (1896-1972). Il primo ha proclamato che l’uomo realizza se stesso e raggiunge un certo grado di felicità quando afferma la sua integrità animale mediante la morte della mente e della coscienza. Da tale morte scaturisce l’estasi sensuale, cioè la pienezza umana. Montherlant ha indicato alcune vie per la conquista del bonheur: il culto delle «alte» emozioni dell’anima, l’esaltazione dei sensi sotto il controllo dello spirito, l’indipendenza dell’io contro i «barbari» (convenzioni, morale, verità religiose); inoltre l’entusiasmo per il possesso dei beni terrestri, la curiosità delle varie esperienze, la volontà di distruggere le leggi, i fariseismi, i pudori. Montherlant è morto suicida.
Una considerazione a parte merita il messaggio rilasciatoci da Ernest Hemingway (1899-1961). Convinto che la vita è governata dal caso, dal dolore e dalla vanità del tutto, si è adoperato per trovare un mezzo per godere quel poco di felicità concessa ai mortali. L’ha trovato: l’anestesia dello spirito, cioè la soppressione della coscienza e della mente per potersi stabilire in uno stato comatoso nel quale nulla possa più ferire la nostra sensibilità. I mezzi per tale scopo sono molteplici: alcool, soprattutto; ma anche sport, violenza dei gesti, creazione artistica, appagamento della sensualità. È incredibile quanto alcool bevano i suoi eroi: bevono per stordirsi, per dimenticare quel «qualche cosa chiamato Nulla». Robert Jordan, protagonista di Per chi suona la campana, considera, sì, l’amore «un’alleato contro la morte» e un riparo dal nada, ma non può fare a meno di portare sempre con sé, nello zaino, una borraccia di absinthe, e quando gli si chiede di che cosa si tratti, risponde: «Una medicina, questa guarisce tutto».
La felicità — pensa Hemingway — è nei momenti di ebbrezza offertici dalla virilità, nelle sensazioni forti che ci fanno evadere da noi stessi, nell’oblio di quanto assilla il cervello. Pensare è deleterio. Nel racconto Il gran fiume dai due cuori Nick Adams, reduce dalla guerra, s’inoltra tra i boschi per ritrovare la gioia di vivere. Nonostante il dolore provocato da una ferita, il caldo e la stanchezza, egli è felice. Sente «di aver lasciato tutto dietro di sé, il bisogno di pensare, di scrivere, gli altri bisogni». Pause di felicità si possono raggiungere a condizione che si anestetizzi il pensiero. È possibile questa operazione? E per quanto tempo? Per Hemingway non tanto e non per molto. A 63 anni preferì scaricarsi la carabina in testa.
«Farsi compiutamente uomo»
Hermann Hesse (1877-1962), autore molto letto e molto caro ai giovani, ha trascorso la vita alla ricerca del suo significato e dei mezzi per darle serenità e valore. Una ricerca, la sua, graduale e sofferta, che inizia con la pubblicazione di Peter Camenzind (1904), si afferma con quella di Demian (1919), di Siddharta (1922), di Steppenwolf (Il lupo della steppa, 1927), di Narziss und Goldmund (Narcisio e Boccadoro, 1930) e si conclude con il capolavoro Das Glasperlenspiel (Il gioco delle perle di vetro, 1943) nel quale c’è la sintesi della sua concezione sulla felicità. Questa si raggiunge quando l’uomo riesce ad armonizzare contemplazione e azione, spirito e vita, arte e politica, e in tal modo a eliminare le antinomie che dilacerano lo spirito. Ad Harry Haller (protagonista de Il lupo della steppa), stordito tra gli ululati del lupo e gli appelli dello spirito; ad Emil Sinclair (protagonista di Demian), ricacciato su strade dove la libertà è illusione; a Siddharta (nell’omonimo romanzo) che crede di salvarsi fuggendo dal mondo e negando la libertà; a quanti si rifugiano nel vagabondaggio ritenendolo salvifico (come fa Knulp nel racconto Tre storie della vita di Knulp): a tutti costoro fa riscontro Joseph Knecht (protagonista de Il gioco delle perle di vetro). Grazie a un amoroso e intelligente lavorio di autodisciplina, Knecht si eleva a un piano superiore di umanità dove ogni dissidio scompare per dar luogo alla libertà interiore, all’anelito religioso, al gaudio nell’armonia e nella contemplazione della bellezza, all’imperativo etico di «trascendere» ogni considerazione egoistica per trasformarsi in presenza benefica. Questa è la via per farsi «compiutamente uomo», dunque per approdare alla serenità dello spirito.
«Le molteplici gioie umane che Dio mette sul nostro cammino»
La via additata da Joseph Knecht approda — come dire? — alla gioia aristocratica, riservata agli spiriti eccelsi. Lo stesso Hesse ha ricordato che esistono anche le piccole gioie, alla portata di tutti. Ne ha enumerate alcune nel breve scritto intitolato appunto Piccole gioie: lo spettacolo del cielo, di un giardino, dei bambini, un volto bello. Assertori di tali e di altre piccole gioie sono Gilbert K. Chesterton (1874-1936) nel romanzo Manalive (L’uomo vivo), Nicola Lisi (1893-1975), Francis Jammes (1868-1938), Luigi Santucci (1918-99), M. Rigoni Stern (1921) nel romanzo Storia di Tönle.
Accanto a queste piccole gioie Ferruccio Parazzoli (1935) ne addita un’altra (che tanto piccola non è): la gioia del servizio degli infelici. Carolina Galimberti (protagonista del delizioso romanzo Carolina dei miracoli), vedova, 64 anni, è un’ex morta. Infatti, pur dichiarata clinicamente morta, non aveva potuto raggiungere la zona di luce dove l’attendevano i suoi, nell’altro mondo. Era stata costretta a riprendere la sua vita perché ritenuta indegna della morte. Per quale motivo, indegna? Era vissuta all’insegna della paura, chiusa in se stessa: intristita e incolore. Un angelo, ora, le insegna come vivere: aprirsi al prossimo, dimenticarsi donandosi. Così avviene. In questa seconda vita, Carolina conosce la sofferenza, ma anche la gioia. Ha capito — lei, «povera donna ottusa» — che se non possiamo cancellare la sofferenza, la possiamo lenire, e così scoprire anche le tante piccole cose belle di cui è disseminata la nostra vita. Lei — perché l’ha dimenticato? — ha avuto un marito che l’amava, «che amava me, proprio me, con quel naso troppo lungo, quei capelli che odiavo, quella bocca grande, quella mia goffa figura che avevo sempre disprezzato». Se avesse saputo scoprire questo amore avrebbe conosciuto la gioia. Non solo, se avesse capito che ogni giorno «è un regalo, la moneta da spendere», aiutando gli altri, avrebbe soprattutto aiutato se stessa. Infatti, nella nuova vita, la gioia le saltella intorno.
La Carolina di Parazzoli ci ricorda una poesia di Kahlil Gibran (1883-1931) intitolata Canzone della felicità. In essa l’autore de Il profeta porta sulla scena la felicità che ripete il suo amore per l’uomo e confessa la propria sconfitta di amante. Amo l’uomo e lui mi ama / Ma nel suo cuore / ho una rivale che lo tormenta e mi assilla. / È un’amante crudele; / si chiama Materia. / Dovunque andiamo, ci segue / come una guardiana, per separarci[19]. La felicità cerca di portare l’uomo a godere lo spettacolo della natura, ma la Materia lo sospinge nella grande città; ai luoghi del sapere e della saggezza gli fa preferire l’abitazione dell’egoismo e delle faccende terrene. La felicità è «nelle azioni di Dio», ma la Materia lo ha incatenato dove Dio è assente: all’avarizia, alla cupidigia, alla ricchezza, al potere. Così la felicità gli resta estranea. La poesia termina con due versi amari, ma fasciati di speranza: Eppure, il mio amato mi appartiene / e io sono sua.
Nella Canzone della felicità di Gibran c’è una strofa sulla quale è bene soffermarci. Dice la felicità riferendosi all’uomo: Il mio amato mi ama. / Mi cerca nei suoi atti, / ma non mi troverà / se non nelle azioni di Dio. Il poeta vuol dire che la felicità si trova nell’armonizzare la nostra volontà con quella di Dio. Ora è volontà di Dio che l’uomo gusti — afferma Paolo VI — «le molteplici gioie umane che egli mette sul nostro cammino». E il Papa enumera le più importanti: «gioia esaltante dell’esistenza e della vita; gioia dell’amore casto e santificato; gioia pacificante della natura e del silenzio; gioia talvolta austera del lavoro accurato; gioia e soddisfazione del lavoro compiuto; gioia trasparente della purezza, del servizio, della partecipazione; gioia esigente del sacrificio. Il cristiano potrà purificarle, completarle: non può disdegnarle. La gioia cristiana presuppone un uomo capace di gioie naturali»[20].
I due testi inducono a due considerazioni: la felicità costruita contro la volontà di Dio conduce alla tristezza e alla disperazione; quella che fiorisce in armonia con essa è benefica e costruttiva. Quest’ultima conosce gradi diversi secondo il diverso rapportarsi a Dio. Perciò ci sono le piccole e le grandi gioie. Queste ultime si trovano quando l’uomo si «perde» in Dio, vive di lui, con lui e per lui, che è gioia sussistente. «Tu, o Signore, sei la gioia. E questa è la felicità: godere in te, di te, per te»[21] leggiamo nelle Confessioni di sant’Agostino. Alcuni grandi autori confermano questa affermazione.
«Le felicità dell’infelice»
L’opera, multiforme e tumultuosa, di Giovanni Papini (1881-1956) è la storia di un intellettuale votato alla ricerca della verità. Trovatala nella fede cristiana, si consacrò al suo servizio. Trascorse gli ultimi anni di vita in una dolorosa agonia, sopportata con una serenità da sbigottire tutti. Ebbe anche la temerarietà di pubblicare un volume dal titolo Le felicità dell’infelice[22]. Ecco le prime battute: «Mi stupiscono, talvolta, coloro che si stupiscono della mia calma nello stato miserando al quale mi ha ridotto la malattia. Ho perduto l’uso delle gambe, delle braccia, delle mani e sono divenuto quasi cieco e muto». Nonostante tutto, si ritenne un uomo felice nell’infelicità del corpo perché Dio gli aveva conservato intatti i doni della fede, dell’intelligenza, della memoria, della fantasia, degli affetti familiari, dell’udito. La scheggia ha un finale straordinario: «I segni essenziali della giovinezza sono tre: la volontà di amare, la curiosità intellettuale e lo spirito aggressivo. Nonostante la mia età, a dispetto dei miei mali, io sento fortissimo il bisogno di amare e di essere amato, ho il desiderio insaziabile d’imparare cose nuove in ogni dominio del sapere e dell’arte e non rifuggo dalla polemica e dall’assalto quando si tratta della difesa dei supremi valori». Aveva affermato che la felicità è, sì, un dono di Dio, ma anche una conquista. Questa per lui si è realizzata nella sofferenza, accettata con fede.
«Rallegriamoci, beviamo il vino della nuova, grande gioia»
Dostoevskij chiama «paradiso» la felicità conquistata sui sentieri della fede in Dio. «La vita è un paradiso, e noi siamo tutti in paradiso, ma non vogliamo capirlo […]. Il paradiso è nascosto dentro ognuno di noi. Ecco, ora è qui nascosto anche dentro di me e, se voglio, domani stesso per me comincerà realmente e durerà tutta la mia vita»[23]. Lo scrittore vuol dire che se noi apriamo l’anima a Dio, se a lui con amore ci abbandoniamo, in noi si verifica una trasformazione interiore che è pienezza di vita e di gioia. Durante la veglia funebre per la morte dello starec Zosima, Alioscia si addormenta mentre padre Paisij legge l’episodio evangelico delle nozze di Cana. Nel sonno gli appare il morto («e sorride dolcemente, felice […]. I suoi occhi risplendono») e gli dice: «Rallegriamoci, beviamo il vino nuovo, il vino della nuova, grande gioia»[24]. Il cambiamento dell’acqua in vino simboleggia la divinizzazione del nostro essere, cioè la felicità eterna. Perciò Alioscia, quando si sveglia, ha «il cuore in fiamme» e «lacrime di gioia gli sgorgano dall’anima».
Una forte sensazione di gioia invade anche il fratello di Alioscia, Mitja Karamazov, accusato ingiustamente di avere assassinato il padre e condannato alle miniere siberiane. Ha ritrovato Dio e ha sentito dentro di sé un uomo nuovo, capace di amare e di soffrire per gli altri, sull’esempio di Cristo. Da tale possibilità, scaturisce la gioia: «Oh, sì, noi saremo in catene, noi non avremo più la libertà, ma proprio allora, nel nostro grande dolore, rinasceremo alla gioia, senza la quale l’uomo non può vivere, né Dio esistere, perché è Dio che dà la gioia, è questo il suo privilegio, il suo grande privilegio […]. Signore, che l’uomo si consumi nella preghiera! Come farei là sotto terra senza Dio? […] Per un forzato è impossibile vivere senza Dio, ancor meno possibile che per un uomo libero! E allora noi, uomini chiusi sotto terra, dalle viscere della terra innalzeremo un tragico inno a Dio, che possiede la gioia! Lode a Dio e alla sua gioia! Io Lo amo»[25].
«L’Insaziabile può placarsi solo con l’Inesauribile»
Sullo stesso orizzonte, in ritmi più precisi, si svolge il teatro di Paul Claudel (1868-1955), che può considerarsi una metafora della vita, intesa come bisogno e come ricerca di felicità. Nel chiuso di una vita puramente terrena — da Claudel concepita come deserto, esilio e sete — la felicità è soltanto «un sorriso che si cancella, una voce che si fa sentire cessando, un rapimento, un trasporto precario, e l’incanto della nostra scoperta è mescolato ai nostri singhiozzi»[26]. Bisogna cercare la felicità nei cieli dell’Assoluto poiché «l’Insaziabile può placarsi solo con l’Inesauribile»[27]: solo Cristo (inesauribile perché Dio) può soddisfare l’uomo (insaziabile perché fatto per l’Assoluto). L’Annonce faite à Marie celebra questa dévorante soif d’absolu. Nel momento in cui Violaine accetta di donarsi, come Cristo, per il bene degli altri, la gioia invade la sua anima, e da lei si diffonde sulla terra, come luce e vita. Il vecchio Pierre de Craon intuisce questa relazione e così la esprime: «Forse il fine della vita è vivere? Forse i figli di Dio devono restare con i piedi attaccati a questa miserabile terra? Non vivere, non morire, e non disgrossare la croce, ma salirvi, e dare quanto abbiamo, sorridendo. Qui sta la gioia, la libertà, la grazia, la giovinezza eterna!»[28].
In Le Père humilié il giovane Orian è incaricato dal Papa di testimoniare nel mondo la vera gioia: «Fa’ comprendere agli uomini che nel mondo hanno un solo dovere: annunziare la gioia. La gioia che noi conosciamo, la gioia che siamo stati incaricati di dare a tutti; fa’ loro capire che essa non è un parola vaga, un insipido luogo comune di sacrestia, ma una tremenda, una superba, una splendida, una struggente realtà al cui confronto tutto il resto è nulla. È un qualche cosa di umile, di materiale, di avvincente, come il pane che si appetisce, il vino che si trova buono, l’acqua che fa morire quando ci manca, il fuoco che brucia, la voce che risuscita i morti»[29]. Orian supererà la tentazione di quanto chiama la «spaventosa fame di bonheur» (la gioia terrena) e si offrirà alla joie (divina), accettando la morte.
L’idea che il dono di sé per il bene degli altri è la via regale per raggiungere la felicità ha ispirato l’opera di Gilbert Cesbron (1913-79), soprattutto nel romanzo È più tardi di quanto credi e nel dramma È mezzanotte, Dottor Schweitzer che porta sulla scena il dott. Schweitzer e padre de Foucauld: l’amore che si dona e l’amore che s’immola. Raissa Maritain (1883-1960) nella lirica Transfiguration, ricca d’ispirazione mistica, sviluppa l’idea che nella misura in cui ci si dona a Dio per amore, si custodisce l’amore e si trova la felicità: Di te [amore] avrò custodito la vita e non la morte / e ti avrò trovato — felicità! / avendo dato al mio Signore tutta me stessa. / Come un vascello fortunato / che rientra nel porto col suo carico intatto / approderò al cielo col cuore trasfigurato[30]. Italo A. Chiusano (1926-95) ed Eugène Ionesco (1909-94) in due «oratori drammatici» presentano padre Kolbe dinanzi alla morte, nel Lager. «Aveva il volto sereno, bello, raggiante» afferma Chiusano[31]; Ionesco gli fa pronunciare queste parole, rivolte ai compagni, condannati a morte come lui: «Vi assicuro, credetemi, siete giunti alle porte del Paradiso e non lo sapete ancora. Siete alle soglie della felicità che non finirà mai […]. Il Signore e la Vergine sono dietro quella porta e vi attendono. Aprite la porta. Che la luce irrompa»[32].
Dov’è la felicità?
La nostra analisi potrebbe continuare. Quale poeta o scrittore non si è pronunciato sui sentieri per raggiungere la felicità? Volendo tentare una sintesi, riportiamo un folgorante pensiero (il 465) di Pascal: «Gli stoici dicono: “Rientrate in voi stessi: là troverete la vostra quiete”. E questo non è vero. Gli altri dicono: “Uscite fuori di voi; cercate la felicità nel divertimento”; e questo non è vero, perché vengono le malattie. La felicità non sta né dentro né fuori di noi; sta in Dio, sia fuori che dentro di noi».
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[1] B. Pascal, Pensieri, 425.
[2] P. Claudel, «Lettera a Byvanck», in Cahiers Paul Claudel 1 (1959) 140, riportata da A. Becker, Claudel et St. Augustin. Une parenté spirituelle, Paris, Lethielleux, 1984, 37.
[3] Id., Journal, vol. I (aprile 1931), Paris, Gallimard, 1968, 958.
[4] L. Tolstoj, Le confessioni, Milano, Rizzoli, 1979, 65.
[5] T. Tolstoj, «Mio padre di fronte a Cristo», in Regno, Assisi (PG), 1942, 84 s.
[6] L. Tolstoj, Il Vangelo di Tolstoj, Urbino (PS), Quattro Venti, 1978, 126.
[7] Id., Resurrezione, Firenze, Sansoni, 1961, 572.
[8] Id., «La mia fede», in Id., La vera vita, Milano, Treves, 1905, 114.
[9] Cfr P. Coelho, L’Alchimista, Milano, Bompiani, 1996.
[10] «Redi ad cor tuum […]. Quia ibi est imago Dei. In interiore homine habitat Chris-tus» (Agostino, s., in Joannis Evang. tractatus XVIII, 10 [PL 34-35, 1.541 s]).
[11] Id., Sermo 88, nn. 5 e 6 [PL 38, 542].
[12] A. Gide, I nutrimenti terrestri, Milano, Mondadori, 1948, 31.
[13] Ivi. Nello stesso volume si trova anche la condanna dei comandamenti: «Comandamenti di Dio, voi avete fiaccato la mia anima. Comandamenti di Dio, sarete voi dieci o venti? Fin dove ridurrete i vostri limiti? Insegnerete voi che sempre più ci son cose proibite? Nuovi castighi promessi alla sete di tutto ciò che avrò trovato bello sulla terra? Comandamenti di Dio, voi avete reso inferma la mia anima, avete circondato di mura le sole acque per dissetarmi» (p. 91).
[14] Id., Journal, vol. III: 1942-1949, Paris, NRF, 1950.
[15] G. D’Annunzio, Poesie complete, Bologna, Zanichelli, 1953, 257.
[16] Id., Il fiore delle laudi, Milano, Mondadori, s. d., 30.
[17] Id., Cento e cento e cento…, Gardone Riviera (BS), Il Vittoriale degli Italiani, 1935, 440.
[18] Testo riportato da G. Pecci, D’Annunzio e il mistero, Milano, Pan, 1969, 194.
[19] K. Gibran, La parole non dette, Milano, Ed. Paoline, 1991, 162.
[20] Paolo VI, Esortazione apostolica Gaudete in Domino (9 maggio 1975).
[21] «[…] gaudium tu ipse es. Et ipsa est beata vita, gaudere ad te, de te, propter te» (Agostino, s., Confessiones, X, 22).
[22] Cfr G. Papini, Le felicità dell’infelice, Firenze, Vallecchi, 1956, 7.
[23] F. Dostoevskij, I fratelli Karamazov, Firenze, Sansoni, 1958, 414 e 433.
[24] Ivi, 423.
[25] Ivi, 881 s.
[26] P. Claudel, Correspondance, Paris, Plon, 1926, 483.
[27] Id., Théâtre, vol. II, Paris, Gallimard, 1965, 579.
[28] Ivi, 209.
[29] Ivi, 536 s.
[30] R. Maritain, Poesie, Milano, Massimo – Jaca Book, 1990, 122.
[31] I. A. Chiusano, «Kolbe», in Tre notturni teatrali, Roma, Logos, 1983, 180.
[32] E. Ionesco, Maximilien Kolbe, Rimini, Guaraldi, 1992.