
Gesù diceva ai discepoli una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai: «In una città viveva un giudice, che non temeva Dio né aveva riguardo per alcuno. In quella città c’era anche una vedova, che andava da lui e gli diceva: “Fammi giustizia contro il mio avversario”. Per un po’ di tempo egli non volle; ma poi disse tra sé: “Anche se non temo Dio e non ho riguardo per alcuno, dato che questa vedova mi dà tanto fastidio, le farò giustizia perché non venga continuamente a importunarmi”». E il Signore soggiunse: «Ascoltate ciò che dice il giudice disonesto. E Dio non farà forse giustizia ai suoi eletti, che gridano giorno e notte verso di lui? Li farà forse aspettare a lungo? Io vi dico che farà loro giustizia prontamente. Ma il Figlio dell’uomo, quando verrà, troverà la fede sulla terra?» (Lc 18,1-8).
Gesù racconta una parabola che poi egli stesso spiega. Un giudice che non teme Dio e non rispetta nessuno non ha alcuna voglia di rendere giustizia a una vedova che lo importuna in continuazione. In Israele, la vedova è il simbolo e la realtà del povero: è donna, non ha il sostegno del marito, è sola, non ha nulla da dare al giudice, può contare solo sulla tenacia della propria volontà. La sua insistenza tuttavia è tale che il giudice deve cedere alla fastidiosa e imbarazzante «persecuzione». «Fammi giustizia contro il mio avversario»: la richiesta corrisponde all’invocazione del Padre nostro, «Liberaci dal male/dal maligno» (cfr Mt 6,13).
Segue la spiegazione della parabola. Dio non è come quel giudice, anzi è un Padre che ci ha nel cuore: egli «non farà forse giustizia ai suoi eletti che gridano giorno e notte verso di lui?».
Si tratta quindi di una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi mai. Più precisamente: in greco, «senza incattivirsi», cioè senza scoraggiarsi e senza disperare. Spesso, per non essere stati esauditi, percepiamo in noi questo «incattivirsi». Eppure il Signore ascolta le nostre preghiere, anche quando non sembra, o non ci esaudisca. E se la tentazione dello scoraggiamento è sempre forte, non si deve cedere alla provocazione del male.
Il fine della preghiera non è cambiare Dio nei nostri confronti, ma modificare noi stessi davanti a lui: occorre trasformare il nostro desiderio di quei doni che non ci sembrano dati nel desiderio di una persona che vuole incontrarci, venire in noi, essere con noi. Pregare significa rammentare a Dio ciò che egli ben sa (cfr Mt 6,8); ma egli vuole che l’uomo lo ricordi e glielo ricordi. Perché il frutto della preghiera – Luca lo ha già detto – non è il possesso di beni, ma il dono dello Spirito: «Se voi che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro darà lo Spirito santo a quanti glielo chiedono» (Lc 11,13).
L’espressione «non venga continuamente a importunarmi» in greco è molto forte: «non venga a colpirmi sotto gli occhi». La preghiera ha un’insistenza che attacca e graffia il volto di Dio: talora è lotta, spesso è una prova terribile, ma può essere anche consolazione insperata. Alla fine c’è sempre il nostro silenzio e la sua parola che illumina.
La parabola si riferisce anche all’attesa del Signore che viene, soprattutto nella conclusione: «Quando il Signore verrà, troverà la fede sulla terra?». Qui sarebbe meglio tradurre: «Troverà questa fede sulla terra?», cioè la fede insistente, ostinata, irremovibile, come quella di una povera vedova e della sua incessante preghiera… [l’articolo ha funzione di aggettivo dimostrativo].
La prima lettura ci ricorda la preghiera d’intercessione di Mosè, con le mani alzate, che fa vincere Giosuè contro Amalek (Es 17,8-13). La seconda lettura è un invito a Timoteo perché creda fermamente a ciò che ha imparato dalle Scritture sacre e lo annunci al momento opportuno e… inopportuno! (2 Tm 3,14-4.2).
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Leone XIV: «In Terra Santa scintille di speranza: continuiamo a pregare».