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Tra i misteri cristiani, l’Eucaristia occupa un posto particolare, perché nella celebrazione eucaristica si fa memoria del mistero pasquale della morte e della risurrezione di Gesù e si attua l’opera della salvezza cristiana; perché è l’Eucaristia che «fa» la Chiesa e la rende Corpo mistico di Cristo; perché l’Eucaristia è il centro della vita liturgica; perché «la liturgia è il culmine a cui tende la vita della Chiesa e, insieme, la fonte da cui promana tutta la sua virtù»[1]; infine per le particolari difficoltà che l’Eucaristia pone alla fede del cristiano. Non a caso dopo la consacrazione il sacerdote proclama: «Mistero della fede», invitando in tal modo i fedeli a rinnovare il loro atto di fede nel mistero eucaristico.
In realtà, nei duemila anni di storia della Chiesa, l’Eucaristia ha suscitato numerosi problemi, che sono in parte vivi ancora oggi e che angustiano alcuni cristiani, rendendo incerta e dubbiosa la loro fede nel mistero eucaristico. Tali problemi sono nati nel corso della storia cristiana e sono stati presenti in tutte le epoche, anche se ci sono stati momenti in cui sono esplosi con particolare virulenza, come al tempo della Riforma protestante: essi sono la presenza «reale» e non solo «simbolica» di Cristo nell’Eucaristia; il carattere sacrificale della Messa; il problema del modo in cui Cristo è presente nell’Eucaristia e del modo in cui avviene la conversione del pane e del vino nel Corpo e nel Sangue di Cristo (la «transustanziazione»); l’epìclesi, che è uno dei più seri motivi di contrasto tra la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse; la validità delle forme di devozione popolare all’Eucaristia, come l’adorazione eucaristica, che è propria soltanto della Chiesa cattolica. Questi problemi sono oggi dibattuti anche nel dialogo ecumenico[2].
Ma per comprendere esattamente i problemi sorti circa il mistero dell’Eucaristia, è necessario ripercorrere la storia dei due millenni cristiani, la cui problematica eucaristica — nonché la pratica eucaristica — è profondamente diversa, perché, per motivi legati a circostanze storiche, a cavallo tra il primo e il secondo millennio cristiano si è imposta in maniera prepotente la questione della presenza reale, che ha poi dominato tutto il secondo millennio. Ecco perché — dopo aver esaminato i testi dell’istituzione eucaristica — ci soffermeremo sui due millenni di storia liturgica e teologica del mistero eucaristico[3]. Lo scopo di questi articoli è di natura pastorale: essi vogliono illuminare e fortificare la fede dei cristiani di oggi nel mistero eucaristico, mettere in risalto il rapporto costitutivo che esiste tra l’Eucaristia e la Chiesa, giustificare teologicamente alcune forme di devozione popolare all’Eucaristia, che rischiano di essere declassate a forme di devozione popolare di tipo quasi superstizioso e, infine, mostrare come l’Eucaristia possa e debba essere «fonte e culmine» della vita cristiana.
L’Ultima Cena di Gesù fu una cena pasquale?
Iniziamo con l’esame dei testi dell’istituzione dell’Eucaristia riportati dai tre Sinottici e da san Paolo. Ma prima conviene accennare a un problema che, anche se non è essenziale per la comprensione cristiana dell’Eucaristia, ha tuttavia la sua importanza. Si tratta dell’interrogativo: Gesù, alla vigilia della sua morte, ha celebrato la Pasqua ebraica oppure l’Ultima Cena è stata un pasto di addio, quindi non pasquale? Già su questo punto i pareri degli esegeti sono in disaccordo. Alcuni — tra i quali emerge J. Jeremias[4] — affermano che l’ultima cena di Gesù fu un pasto pasquale; X. Léon-Dufour nega che i 14 argomenti portati da J. Jeremias a sostegno della sua tesi siano convincenti: secondo lui l’Ultima Cena fu un pasto a cui Gesù volle dare una speciale solennità, ma non un pasto pasquale, perché Gesù non intese celebrare la Pasqua ebraica, ma la «sua» Pasqua, secondo quanto è detto in Mc 14,14: «Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, perché io possa mangiare la Pasqua con i miei discepoli?»[5].
Alla domanda se l’Ultima Cena di Gesù sia stata una celebrazione pasquale oppure soltanto un pasto solenne, ma non pasquale, è connesso l’interrogativo sulla data della morte di Gesù. I quattro evangelisti concordano sul fatto che Gesù morì crocifisso in un giorno di parasceve, cioè in una vigilia di sabato; ma, mentre i tre Sinottici fanno coincidere la morte di Gesù nel giorno di parasceve con la Pasqua, la quale si celebrava sempre il 15 Nisan, l’evangelista Giovanni colloca la morte di Gesù nel giorno antecedente alla Pasqua, quando si immolavano gli agnelli nel Tempio, quindi il 14 Nisan. Dice, infatti, che gli accusatori di Gesù «non vollero entrare nel pretorio — dove si trovava Pilato — per non contaminarsi e poter mangiare la Pasqua» (Gv 18,28). Perciò, mentre per i Sinottici l’Ultima Cena di Gesù, avvenuta il giovedì, fu una cena pasquale, non lo fu invece per Giovanni. «Dal canto nostro — scrive C. Giraudo — in merito alla duplice cronologia, seguiremo l’opinione più comune in campo esegetico, la quale rinunciando a una lettura concordistica dei testi, riconosce nei Sinottici una cronologia storica e nel quarto vangelo una cronologia teologica». A tale proposito riporta l’opinione di J. Jeremias: «L’anticipazione di 24 ore dell’Ultima Cena di Giovanni è probabilmente dovuta alla diffusa assimilazione di Gesù con l’agnello pasquale: in virtù di tale assimilazione si volle far coincidere la morte di Gesù con l’immolazione degli agnelli pasquali al pomeriggio del 14 Nisan»[6].
La cena pasquale ebraica
La cena pasquale ebraica era la ripetizione rituale di quella consumata dagli ebrei immediatamente prima della loro partenza dall’Egitto mangiando l’agnello con pane azzimo, cioè non lievitato (essendo mancato il tempo per far lievitare l’impasto di farina), e con erbe amare (per significare l’amarezza causata loro dagli egiziani), stando in piedi e col bastone in mano. Il sangue dell’agnello — col quale avevano segnato gli stipiti delle porte delle loro case — era stato la causa della loro salvezza, perché l’Angelo del Signore, mandato a sterminare i primogeniti degli egiziani, l’aveva visto ed era «passato oltre» o era «saltato sopra» (è il senso del termine pesah, pasqua). Perciò la pasqua ebraica era il «memoriale» (l ezikkârôn), col quale veniva reiterata ritualmente l’ultima cena in Egitto: il rito rendeva presente per tutte le generazioni la comunità ebraica all’evento fondatore del popolo ebraico, il passaggio del Mar Rosso, quando Dio aveva liberato il suo popolo dalla schiavitù ad esso imposta dal faraone: un fatto per sua natura irripetibile, ma alla cui efficacia salvifica il rito iterativo rendeva presente coloro che lo celebravano.
Al tempo di Gesù, la celebrazione della Pasqua, pur restando una celebrazione templare, perché l’immolazione degli agnelli avveniva nel Tempio, era essenzialmente una celebrazione domestica quanto al rito del mangiare l’agnello (rito che, con la distruzione del Tempio nel 70 d. C. e la dispersione del popolo ebraico, non poté più essere mantenuto). La cena pasquale ebraica seguiva un rito molto preciso, descritto nell’Haggâdâ šel pesah (liturgia della cena pasquale). Al tempo di Gesù, la celebrazione della Pasqua, per il fatto che il re Giosia nel 621 a. C. aveva collegato la festa di Pasqua col Tempio, dove soltanto potevano essere immolati gli agnelli pasquali, era divenuta una festa di pellegrinaggio che attirava a Gerusalemme, dove era situato il Tempio, folle enormi, cosicché fu necessario allargare il perimetro giuridico della città fino al Monte degli Ulivi per dar modo a tutti i pellegrini di mangiare la Pasqua senza dover lasciare la città (questo spiega perché, andando a passare la notte sul Monte degli Ulivi, Gesù non abbandonò la città di Gerusalemme).
La celebrazione della Pasqua comportava 14 azioni da compiere. Ma già alla vigilia di Pasqua si compiva un preliminare importante, cioè l’accurata ricerca e l’eliminazione di ogni traccia di pane lievitato, secondo la prescrizione del libro dell’Esodo (12,15). Ciò, perché la Pasqua era la festa degli azzimi intesi come prodotti di natura, mentre il lievito (hâmès) era visto come qualche cosa di intrinsecamente malvagio e che pertanto doveva essere «tolto via» (anche san Paolo in 1 Cor 5,6-8 fa riferimento all’uso ebraico: «Togliete via il vecchio lievito»).
I gesti più importanti della cena pasquale erano: lo spezzare il pane azzimo da parte del capo-famiglia; l’annuncio pasquale, introdotto dal figlio che chiede al padre «Perché diversa è questa notte?», a cui il padre risponde: «Fummo schiavi in Egitto, e il Signore nostro Dio ci fece uscire di là con mano forte e braccio disteso […]. Perciò noi siamo obbligati a confessare, lodare […]. Colui che fece ai nostri padri e a noi tutti questi miracoli; ci fece uscire dalla servitù alla libertà […]. E diciamo davanti a lui un canto nuovo: “Lodate il Signore”»; la proclamazione dell’Hallel, cioè dei Salmi 113 e 114; la benedizione sul calice (erano quattro i calici di vino che si bevevano a Pasqua), sul pane azzimo e sulla lattuga intinta nello hârôset (va ricordato che la «benedizione» non è dell’alimento ma è fatta sull’alimento, cioè è rivolta a Dio per ringraziarlo dell’alimento da lui donato).
A questo punto si apparecchia la tavola e si mangia e si beve a piacimento. Dopo aver mangiato, il padre di famiglia mesce il terzo calice e pronuncia prima la piccola benedizione sul vino e poi la Birkat hammâzôn (benedizione sull’alimento), che è una lunga preghiera (da questa «benedizione sul calice» deriva il termine paolino «il calice di benedizione che noi benediciamo» [1 Cor 10,16]). Si mesce il quarto calice e si conclude su di esso l’Hallel, cioè si recitano i Salmi 115-118 e poi il Salmo 136, detto il Grande Hallel. La Cena pasquale si conclude con l’augurio: «L’anno venturo a Gerusalemme» (in Israele si dice «in Gerusalemme riedificata»).
La cena pasquale di Gesù
Nella sua struttura essenziale, questa Haggâdâ della Pasqua ebraica risale al tempo di Gesù; si può allora pensare che Gesù, presiedendo come padre di famiglia la sua habûrâ (compagnia) apostolica, abbia usato almeno alcune di queste parti della liturgia pasquale ebraica. In realtà alcune indicazioni date dai Sinottici fanno pensare che Gesù abbia celebrato la cena pasquale alla maniera abituale. Tra queste indicazioni, la più importante è l’ordine dato da Gesù — «il primo giorno degli Azzimi, quando si immolava la Pasqua» — a due discepoli di andare in città: là avrebbero incontrato un uomo con una brocca d’acqua, avrebbero dovuto seguirlo e dire al padrone di casa: «Il Maestro dice: Dov’è la mia stanza, perché io vi possa mangiare la Pasqua (cioè l’agnello pasquale) con i miei discepoli? Egli vi mostrerà al piano superiore una grande sala con i tappeti, già pronta: là preparate per noi». I discepoli andarono ed, entrati in città, trovarono come Gesù aveva detto loro e «prepararono per la Pasqua» (Mc 14,12-16).
Un’altra indicazione che Gesù abbia celebrato la cena pasquale si trova nelle parole di Gesù riportate da Luca (22,14-18): «Quando fu l’ora [cioè l’ora stabilita per la cena pasquale, che andava dal tramonto del sole alla mezzanotte], [Gesù] prese posto a tavola e gli apostoli con lui, e disse: “Ho desiderato ardentemente di mangiare questa Pasqua [cioè questo agnello pasquale] con voi prima della mia passione, poiché vi dico: non la mangerò più finché essa non si compia nel regno di Dio”. E preso un calice [era il secondo calice pasquale], rese grazie e disse: “Prendetelo e distribuitelo tra voi, poiché vi dico: da questo momento non berrò più del frutto della vite, finché non venga il regno di Dio”».
Si deve notare che l’agnello pasquale (cioè la Pasqua) era ridotto in piccoli pezzi della grandezza di un’oliva e veniva mangiato da tutti i commensali alla fine della cena, «quando si era sazi», ma era presentato al capo famiglia nel mezzo del rito.
Le tradizioni sull’istituzione dell’Eucaristia
Come e quando, durante la cena pasquale, avvenne l’istituzione dell’Eucaristia? Dell’istituzione eucaristica abbiamo quattro narrazioni: tre si trovano nei Sinottici e una nella Prima Lettera di san Paolo ai Corinzi; ma le quattro redazioni, pur essendo sostanzialmente convergenti, divergono in alcuni punti. In realtà si tratta di due tradizioni — una è quella di Marco e di Matteo e l’altra è quella di Paolo e di Luca — che riportano, la prima, il modo in cui si celebrava l’Eucaristia (detta «frazione del pane» o «pasto del Signore») nella primitiva comunità cristiana di Gerusalemme e nelle comunità giudeo-cristiane da essa dipendenti e, la seconda, il modo in cui era celebrata nelle comunità cristiane sparse nel mondo ellenistico.
Perciò la prima tradizione riportata nei Vangeli di Marco e di Matteo sarebbe nata a Gerusalemme, e la seconda sarebbe nata ad Antiochia di Siria, dove i credenti in Cristo, giudei provenienti dalla Palestina o dalla diaspora giudaica ed ellenisti provenienti dal paganesimo, furono per la prima volta chiamati «cristiani» (At 11,26). Non è possibile cercare di far concordare le due tradizioni oppure cercare una tradizione primitiva, da cui le due tradizioni che ora possediamo sarebbero sorte, perché non sembra che ci sia mai stata una tradizione primitiva. Perciò l’unica cosa ragionevole è riportare quello che è accaduto durante l’Ultima Cena di Gesù, tenendo conto sia dei punti nei quali le due tradizioni convergono, sia di quelli nei quali divergono, senza cercare un’armonizzazione impossibile.
Che cosa è dunque avvenuto durante l’Ultima Cena di Gesù? Scrivendo ai Corinzi negli anni 55-56 da Efeso, Paolo afferma che quanto ha loro «trasmesso» circa quello che avvenne «nella notte in cui [Gesù] veniva tradito», lo ha «ricevuto» egli stesso «dal Signore», cioè dalla prima comunità cristiana — la cui tradizione risaliva a Gesù — nei primi anni della sua conversione, avvenuta intorno al 35, dopo pochissimi anni dalla morte di Gesù: che cioè «il Signore Gesù prese il pane e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi. Fate questo in memoria di me”. Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”» (1 Cor 11,23-25).
Quindi nella primissima comunità cristiana di Gerusalemme, che era guidata dai Dodici, i quali erano stati con Gesù nella sua Ultima Cena, si parlava di quanto Gesù aveva detto sul pane e sul vino e si rifaceva il suo gesto con la «frazione del pane», in obbedienza al suo comando: «Fate questo in memoria di me». Infatti, riferendosi a quei primissimi tempi, gli Atti degli Apostoli ricordano che i credenti «erano assidui […] nella frazione del pane […]. Ogni giorno spezzavano il pane a casa prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore» (At 2,42,46).
La «tradizione» riportata da Paolo nella Lettera ai Corinzi si ritrova nei tre Sinottici, scritti tra il 70 e l’80 d. C. Invece, l’istituzione dell’Eucaristia non si trova nel Vangelo di Giovanni, scritto verso il 90, il quale, anziché i gesti eucaristici di Gesù, riporta la lavanda dei piedi dei discepoli. Con quel gesto di servizio Gesù voleva lasciare — in forma di testamento — ai suoi discepoli un «esempio» da imitare: «Quando dunque [Gesù] ebbe lavato loro i piedi […], sedette di nuovo e disse loro: “Sapete ciò che vi ho fatto? Voi mi chiamate Maestro e Signore, e dite bene, perché lo sono. Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i vostri piedi, anche voi dovete lavarvi i piedi gli uni gli altri. Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho fatto io, facciate anche voi”» (Gv 13,12-16).
Come mai Giovanni, nelle cui comunità si celebrava l’Eucaristia, ha taciuto della sua istituzione nell’Ultima Cena di Gesù, che egli presenta come una cena di addio e come il testamento di Gesù? Non si può certo pensare che egli ignorasse l’istituzione dell’Eucaristia o che volesse contestarne la pratica in uso nelle comunità giovannee. Tanto più che il suo Vangelo, nel capitolo VI, riporta il discorso sul «Pane di vita» che è Gesù stesso: pane che è la sua carne e che egli avrebbe dato «per la salvezza del mondo», tanto che avrebbero avuto la vita eterna quelli che avessero «mangiato la sua carne e bevuto il suo sangue» (Gv 6,48-58).
X. Léon-Dufour — per il quale l’Ultima Cena di Gesù non ha carattere pasquale, ma sarebbe stata soltanto un pasto solenne di addio, nel quale Gesù ha annunciato la sua morte in seguito al tradimento di Giuda — ritiene che Giovanni abbia voluto «mettere in rilievo il comandamento nuovo della carità fraterna»[1] e lasciarlo come «testamento» ai suoi discepoli. «Come gli altri evangelisti, Giovanni risponde ai bisogni di una determinata comunità. Per lui era necessario far fronte al pericolo di magia che, in un ambiente ellenistico, poteva minacciare la pratica del sacramento [dell’Eucaristia]. Questa sarebbe una delle ragioni per cui Giovanni non ha trasmesso le parole dell’istituzione nel racconto della Cena. Ma non per questo Giovanni deprezza il sacramento; a modo suo egli dà l’equivalente dei testi sinottici per mezzo della forma testamentaria e del linguaggio simbolico. Il suo apporto è di rivelare il significato reale e durevole dell’Eucaristia. Il discorso di addio, si può dire, ha di mira infatti, la “cosa” del sacramento, se è vero che l’amore fraterno, di origine divina, è la realtà che in ultima analisi l’Eucaristia vuole intensificare sulla terra»[8].
D’altra parte — sempre secondo Léon-Dufour — una lettura, non «spontanea», ma «critica», del capitolo VI di Giovanni, rileva che in quel testo «non è questione di Eucaristia, ma dell’adesione a Gesù per mezzo della fede». «Così i versetti 51-58, in cui Gesù parla di “mangiare la carne e bere il sangue del Figlio dell’uomo”, non hanno affatto di mira un atto sacramentale, ma un atto di fede perfetta in questo uomo concreto, che si presenta come il Salvatore del mondo»[9]. Perciò egli può «leggere questi versetti senza fare allusione all’Eucaristia», perché «la manducazione che Gesù esige può significare semplicemente un’adesione stretta alla sua persona di Salvatore del mondo morto per noi»[10].
«Nella notte in cui veniva tradito»
Cerchiamo ora di spiegare i gesti compiuti da Gesù e le parole da lui dette nell’Ultima Cena, secondo i Sinottici e san Paolo. Anzitutto san Paolo osserva che Gesù istituì l’Eucaristia «nella notte in cui veniva tradito» (1 Cor 11,23), quasi per mettere in risalto che, nel momento in cui si donava agli uomini sotto i segni del pane e del vino, Gesù veniva tradito da un suo discepolo.
Dopo essersi seduto a tavola: la posizione che si usava prendere nei pasti solenni e nella cena pasquale era quella di «sdraiarsi» (Lc 22,14: anapiptein), disponendosi intorno a una tavola.
Con i Dodici: per mangiare la Pasqua, il numero richiesto per la sua validità era di almeno dieci maschi adulti, quali erano i Dodici: ma dal mangiare la Pasqua non erano escluse le donne, cosicché si può legittimamente pensare che all’Ultima Cena abbiano partecipato anche Maria, la madre di Gesù, e le donne «che l’avevano seguito dalla Galilea» (Lc 23,49.55) e che furono presenti a Gerusalemme alla sua passione e alla sua morte. Gesù, dapprima espresse il suo vivissimo desiderio di mangiare con i suoi discepoli la sua ultima Pasqua, annunciando in tal modo la sua morte imminente (Lc 22,15); poi, «preso il calice [era il secondo calice della cena pasquale], lo diede ai discepoli, dicendo: “Prendetelo e distribuitelo tra voi, poiché vi dico: da questo momento non berrò più del succo della vite, finché non venga il regno di Dio”» (Lc 22,17-18).
A questo punto, secondo Marco e Matteo, Gesù indicò velatamente il traditore, Giuda, con le parole «colui che intinge con me nel piatto» (Mc 14,20): un’espressione che ricorda le due «intinzioni» della Pasqua ebraica (l’intinzione del sedano nell’aceto o nell’acqua salata e l’intinzione della lattuga amara nello hârôset). Invece l’indicazione del traditore, secondo Luca, avvenne dopo l’istituzione dell’Eucaristia (Lc 22,21), cosicché Giuda avrebbe preso parte al pane e al vino eucaristici.
Al punto centrale dell’Ultima Cena di Gesù si colloca l’istituzione dell’Eucaristia. È detto in Marco e Matteo: «Mentre mangiavano [Gesù] prese il pane e, pronunciata la benedizione, lo spezzò e lo diede loro, dicendo: “Prendete, questo è il mio corpo”» (Mc 14,22; Mt 26,26). Luca aggiunge: «Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me» (Lc 22,19). A sua volta Paolo scrive: «Questo è il mio corpo che è per voi; fate questo in memoria di me» (1 Cor 11,24). Come si vede, in Matteo e Marco mancano sia il «che è dato per voi» e il «per voi» di Luca e di Paolo, sia il comando di fare quello che ha fatto Gesù, in sua memoria. Ma qual è il senso preciso delle parole di Gesù sul pane?
Gesù prese il pane: in qualità di capo della sua habûrâ (compagnia rituale), Gesù prende il pane che a Pasqua era usato sotto forma di focacce azzime, cioè non lievitate. Poi «pronunciò la benedizione/rese grazie: i due termini euloghèsas (avendo pronunziato la benedizione), usato da Marco e Matteo, ed eucharistèsas (avendo reso grazie), usato da Luca e da Paolo, sono termini identici, nel senso che l’ellenistico eucharistein traduce il verbo eulogein, che a sua volta si riferisce alla berâkâ (benedizione). Questa consisteva non nel benedire qualcuno o qualche cosa (un uomo, un animale o un cibo), ma nel benedire e lodare Dio su qualche cosa (cioè a motivo, in occasione di qualche cosa), dicendo, per esempio, sul vino: «Benedetto sei tu, Signore Dio nostro, re del mondo, creatore del frutto della vite».
Dopo aver pronunciato la «benedizione-rendimento di grazie» sul pane, Gesù lo spezzò e lo diede loro: «spezzare» il pane e «distribuirlo» era una funzione propria e non delegabile del padre di famiglia, che presiedeva al rito pasquale. Nella cena pasquale ebraica, colui che spezzava il pane, ne mangiava per primo. Nei quattro racconti dell’istituzione eucaristica non si accenna minimamente a una partecipazione di Gesù al pane e al vino eucaristici. Si parla di essa in alcune anafore, come la seconda anafora siriaca dei XII Apostoli, nella quale si dice che Gesù «prese il pane […] lo spezzò e mangiò […]. Prese il calice […] e, avendo gustato, lo diede ai suoi discepoli». C. Giraudo che riporta questo testo, ricordando inoltre che anche san Tommaso d’Aquino è della stessa opinione (Summa Theol. III, 81, 1 c), vede nella comunione di Gesù «la pienezza di partecipazione misterica alla sua morte e alla sua risurrezione», in quanto, «istituendo l’Eucaristia e partecipando per primo ad essa, Gesù entra profeticamente in intima e personale koinonia con la sua morte-risurrezione nel segno del pane e del calice», e in tal modo «per primo profeticamente scende nelle acque di morte del Calvario e per primo risale dalle acque di vita della Tomba-vuota»[11].
«Questo è il mio corpo»
«E [Gesù] disse: Prendete, mangiate! Questo è il mio corpo». L’invito ai discepoli a «prendere» (Mc) e a «prendere e mangiare» (Mt) manca in Luca e in Paolo. Ma questo rilievo non è importante. Invece lo è comprendere che cosa abbia voluto dire Gesù con le parole: «Questo è il mio corpo» (touto estin to sôma mou). Evidentemente, Gesù ha detto queste parole non in greco, ma in aramaico. Qual era la parola aramaica corrispondente alla parola greca sôma? Sono state fatte molte ipotesi: alcuni ricorrono al termine aramaico biùrâ (dall’ebraico bâùâr [carne]); altri al termine aramaico gûf-gûfâ (corpo dell’animale o dell’uomo): in senso positivo, corpo vivente, e, in senso negativo, corpo morto, cadavere.
C. Giraudo ricorre al termine pigrâ, che significa (nel termine siriaco pagrâ) «non solo il corpo morto, il corpo esanime, il cadavere, ma anche il corpo vivo e operoso; inoltre esso significa tanto il corpo personale quanto il corpo sociale». Perciò, parafrasando il senso della parola sôma, così egli si esprime: «Questo è il mio corpo vivente che sta per essere dato alla morte per voi; questa è la mia vita, che sta per essere fatta in pezzi perché voi torniate relazionalmente a vivere, incorporandovi a me; questo è il mio corpo esanime, dato in sostituzione del corpo del vostro peccato (cfr Rm 6,6)». «La dimensione sacrificale e vicaria — egli aggiunge — del termine pagrâ è evidente; essa inoltre è accreditata dal seguito delle parole istituzionali che dicono la finalità della morte di Cristo e dell’espressione “sangue sparso”»[12].
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | LA VIOLENZA CONTRO LE DONNE
Da parecchio tempo, le cronache italiane sono colme di delitti perpetrati contro le donne. Il fenomeno riguarda tutte le età e condizioni sociali, tanto da sembrare endemico nella nostra società. A questo tema è dedicato un episodio monografico di Ipertesti Focus, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
A sua volta X. Léon-Dufour rileva che «per “corpo” i semiti non designano propriamente l’organismo di cui l’uomo dispone, ma la persona in quanto essa può esprimersi e manifestarsi, o ancora la persona in quanto entra in relazione con l’universo e con gli altri. Secondo l’antropologia biblica, l’uomo non ha solamente un corpo, egli è corpo. Se dunque è vero che Gesù, come ogni uomo, si esprime col suo corpo, questa espressione ha di mira la sua persona in quanto è in rapporto con gli altri e con l’intera creazione»[13].
Alle parole di Gesù, riportate da Marco e Matteo: «Questo è il mio corpo», Luca aggiunge «che è dato per voi», e Paolo «che è per voi». Queste espressioni, che sono al presente, in quanto hanno la tonalità di un oracolo profetico, devono essere intese in senso futuro. Infatti «non si deve concludere da questi presenti che i discepoli abbiano sotto gli occhi il corpo del Signore già attualmente dato [alla morte] e il suo sangue già attualmente versato. Il participio futuro non è quasi più usato dagli autori del Nuovo Testamento; è il presente che si usa quando si tratta, in particolare, di un futuro vicino o di un futuro certo […]. Si tratta del corpo che sta per essere dato, del sangue che è sul punto di essere versato»[14]. C’è dunque in queste parole di Luca e di Paolo l’annuncio della morte imminente di Gesù. Morte che sarà «per» (hyper) i discepoli, cioè «in loro favore», «a loro vantaggio», «per la loro salvezza», «perché essi abbiano la vita».
Ma in tutto questo discorso il termine più importante è «Questo è…». «Questo» (touto, pronome dimostrativo neutro) indica il pane azzimo che Gesù ha in mano e che «spezza» per distribuirlo ai suoi discepoli. La copula «è» (estin) indica che il pane, in forza della potenza creatrice e trasformatrice della parola di Gesù, diviene il corpo di Gesù realmente, ma sacramentalmente, cioè misteriosamente identico e diverso, nel senso che Gesù è realmente presente e vivo, ma sotto le specie del pane, per essere nutrimento spirituale di coloro che lo mangiano con fede nella sua parola, entrando in tal modo in «comunione» reale, ma sacramentale, con lui, secondo quanto afferma san Paolo: «Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo?» (1 Cor 10,16).
Alle parole «Questo è il mio corpo…» di Marco e di Matteo, Luca e Paolo aggiungono «Fate questo in memoria di me» (Lc 22,19; 1 Cor 11,24). «Fate questo» significa che i discepoli devono ripetere il gesto compiuto da Gesù sul pane. Questo gesto dev’essere fatto «in memoria» (eis anamnèsin) di Gesù. Questa anamnèsis non significa un semplice «ricordo» di un fatto avvenuto nel passato, vale a dire durante l’ultima cena di Gesù: cioè i cristiani non devono limitarsi a ricordare Gesù e quanto egli compì nella sua ultima cena con i discepoli; ma devono compiere un rito che fa «memoria», vale a dire rende presente il Signore Gesù ai suoi[1]. In altre parole, anamnesis corrisponde a «memoriale» (zikkârôn), di cui si parla in Es 12,14: «Questo giorno [di Pasqua] sarà per voi un memoriale; lo celebrerete come festa del Signore; di generazione in generazione lo celebrerete come un rito perenne».
In tal modo Gesù istituisce il memoriale della sua Pasqua, cioè il rito che, ripetendo i suoi gesti e le sue parole, renderà «presente» il Signore Gesù ai suoi «sotto i segni del pane e del vino» e renderà presenti «i suoi» all’evento fondatore della sua morte e della sua risurrezione. Infatti san Paolo, alle parole «Fate questo in memoria/memoriale di me», aggiunge in forma di commento: «Ogni volta infatti che mangiate di questo pane e bevete di questo calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga» (1 Cor 11,26). «Annunciate» equivale a «fate memoria» della morte-risurrezione di Gesù, considerati come un unico evento salvifico.
In conclusione, i discepoli di Gesù ricevono l’ordine di iterare quello che Gesù ha fatto, non di re-iterarlo, quasi che Gesù abbia celebrato la «prima messa». In realtà — osserva C. Giraudo — l’evento del Cenacolo «è un fatto istituzionale, e pertanto unico e irripetibile, […] non è la “la prima messa”, perché essa è molto, molto di più; e perché vi riconosciamo la promessa profetica che istituisce il segno del pane e del vino e conseguentemente, tramite l’ordine di iterazione, fonda la successiva serie rituale», che «avrà inizio solo dopo la pentecoste»[16].
«Questo è il mio sangue»
A questo punto Marco e Matteo passano immediatamente a raccontare i gesti compiuti da Gesù sul calice: «E avendo preso un calice e pronunciata l’azione di grazie, [lo] diede loro e ne bevvero tutti. E disse loro». Luca e Paolo scrivono: «Allo stesso modo (hôsautôs) [prese] anche il calice, dopo aver cenato, dicendo». È importante notare che, mentre Marco e Matteo fanno seguire le parole sul calice, Luca e Paolo pongono tra i due gesti istituzionali di Gesù un intervallo: «Dopo aver cenato». In realtà, ciò è conforme all’ordinamento della celebrazione pasquale ebraica: soltanto dopo aver cenato abbondantemente «fino ad essere sazi», si passava il terzo calice, che si chiamava il «calice della benedizione» e che era oggetto di particolare attenzione: su di esso si pronunciava una piccola benedizione. Perciò, dopo la cena vera e propria, alla fine della quale si mangiava l’agnello pasquale e si recitava la grande benedizione della Birkat hamâzôn (Benedizione dopo il pasto), Gesù prese un calice, dal quale, dopo di lui, bevvero tutti.
Ma prima egli recitò sul calice la piccola benedizione; poi, secondo Marco e Matteo, disse: «Bevete da questo [calice] tutti. Questo infatti è il mio sangue dell’alleanza che per molti [sta per essere] versato in remissione dei peccati». Con queste parole Gesù afferma che nel calice, da cui i discepoli sono invitati a bere, sotto il segno del vino e quindi sacramentalmente, è realmente presente il suo sangue (haima, in aramaico demâ), ma sangue «che sta per essere sarà versato». Quindi è presente la sua persona che sta per andare alla morte per la salvezza della moltitudine, vale a dire per tutti (poiché il senso di polloi è la «moltitudine», quindi tutti). Corpo «donato» e sangue «versato» sono il legame tra ciò che avviene nel cenacolo e ciò che avverrà il giorno seguente al Calvario: sono i due tempi dell’unico sacrificio di Cristo per la salvezza degli uomini, «in riparazione dei peccati». Sacrificio che dev’essere iterato ritualmente per rendere presenti i discepoli di Cristo lungo i secoli alla morte di Cristo e renderli partecipi della salvezza che da quella morte è venuta agli uomini.
Ma il sangue di Cristo, presente nel calice sotto il segno del vino, è il «sangue dell’alleanza» (Mt 26,28). Luca scrive: «Questo calice è la nuova alleanza del mio sangue che per voi [sta per essere] versato» (Lc 22,20; 1 Cor 11,25). Il riferimento di Gesù è al «sangue dell’alleanza» di cui si parla in Es 24,8: «Mosè prese il sangue [degli animali sacrificati], ne asperse il popolo dicendo: “Ecco il sangue dell’alleanza che il Signore ha concluso con voi”; è alla “nuova alleanza”, di cui parlano Geremia 31,31 e Zaccaria 9,11. Il senso delle parole di Gesù è, allora, che nel suo sangue che sta per essere “versato” sul Calvario e che è “dato” ai discepoli nel segno del vino, si ricostituisce la “nuova” e definitiva alleanza tra Dio e gli uomini. Ecco perché il sangue di Gesù è versato “per voi”, “per la moltitudine”».
Così Gesù comprende e presenta la propria morte come la morte che introduce nel mondo la redenzione finale e stabilisce l’alleanza definitiva tra Dio e tutti gli uomini, giudei e pagani. A questa morte redentrice, e dunque salvifica, i discepoli di Gesù, iterando il suo gesto sul calice, si renderanno presenti e ne parteciperanno i frutti di salvezza «fino a che egli venga» (1 Cor 11,26), alla fine del mondo. Sta qui il senso dell’Eucaristia come «dono escatologico della salvezza», in cui comincia a realizzarsi nella storia umana il regno di Dio. Questo giungerà a compimento quando i discepoli di Gesù potranno «mangiare e bere alla sua mensa nel suo regno», che il Padre ha preparato per Lui» (Lc 22,29,30).
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[1] Concilio Vaticano II, Costituzione sulla sacra liturgia Sacrosanctum Concilium, n. 10.
[2] Cfr B. Sesboüé, «L’accord eucharistique des Dombes», in Istina 2 (1973) 210-229.
[3] Tra le molte opere dedicate all’Eucaristia, faremo particolare riferimento a C. GIRAUDO, Eucaristia per la Chiesa. Prospettive teologiche sull’Eucaristia a partire dalla «lex orandi», Roma – Brescia, Gregorian University Press – Morcelliana, 1989, e a X. LÉON-DUFOUR, Le partage du pain eucharistique selon le Nouveau Testament, Paris, Seuil, 1982 (tr. it. Condividere il pane eucaristico secondo il Nuovo Testamento, Leumann [TO], ElleDiCi, 1983).
[4] Cfr J. Jeremias, Le parole dell’Ultima Cena, Brescia, Paideia, 1973.
[5] X. Léon-Dufour, Le partage…, cit., 225-226. Di diverso parere da X. Léon-Dufour è anche J. Gnilka, Gesù di Nazaret. Annuncio e storia, Brescia, Paideia, 1993, 357-360.
[6] C. Giraudo, Eucaristia…, cit., 163.
[7] X. Léon-Dufour, Le partage…, 285.
[8] Ivi, 289.
[9] Ivi, 296-297.
[10] Ivi, 307.
[11] C. Giraudo, Eucaristia…, cit., 254-256.
[12] Ivi, 213.
[13] X. Léon-Dufour, Le partage…, cit., 141.
[14] J. Dupont, «Ceci est mon corps, Ceci est mon sang», in Nouvelle Revue Théologique 80 (1958) 1.037 s.
[15] Cfr J. Behm, «Anamnèsis», in Grande Lessico del Nuovo Testamento, vol. I, 492.
[16] C. Giraudo, Eucaristia…, cit., 243.