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Il rapporto tra poesia e preghiera è stato investigato in molti modi attraverso raccolte, riflessioni, indagini. La preghiera è «essere abitualmente alla presenza di Dio», «elevazione dell’anima a Dio», «relazione viva e personale con il Dio vivo» [1]. È dunque da evitare ogni schematismo rigido: la preghiera non è sempre linguisticamente articolata come lo è invece la poesia. Infatti può essere esercizio della parola silenziosa, non pronunciata ma avvertita e vissuta. C’è un’interazione profonda, inspiegabile alla mente umana, tra la disposizione interiore e la parola, senza alcun automatismo tra l’una e l’altra; una preghiera interiore, in cui la parola può anche rimanere inespressa, può fermarsi sulla soglia delle labbra, o nel silenzio del cuore [2]. Bisogna comunque chiarire che «la preghiera non si riduce allo spontaneo manifestarsi di un impulso interiore» [3], ma è un intenzionale rivolgersi a un Tu «al quale parliamo» [4], che «prende corpo mediante parole, mentali o vocali» [5]. Più volte, ad esempio, nei suoi Esercizi Spirituali, sant’Ignazio di Loyola parla di una preghiera che si fa propiamente hablando, cioè parlando come in un colloquio [6].
Nelle pagine che seguono il nostro obiettivo è illustrare quando e come la poesia, nell’esperienza di grandi autori, sia giunta a toccare la soglia della preghiera in quanto atto linguistico inteso come «relazione viva e personale con il Dio vivo». In tal senso dobbiamo distinguere la meditazione religiosa, che è più ampia e generale [7], dal linguaggio orante, che richiede l’apertura a un «Tu» mediante l’articolazione linguistica di una invocazione. Il nostro percorso si propone di essere fenomenologico e legato ai testi, organizzando un breve percorso di letture, che si potrebbe estendere e ampliare in maniera indefinita. Tralasciamo dunque di illustrare il dibattito teorico sul rapporto tra poesia e religione, che abbiamo già affrontato altrove più estesamente [8]. Il punto di partenza sarà l’esperienza poetica che nasce al di là di ogni contesto cultuale.
Tuttavia sappiamo bene come la liturgia sia stata spesso accompagnata o seguita dalla poesia, che ad essa si ispira, fino, in qualche caso, a costruire una sorta di «liturgia poetica» [9]. Sia sufficiente qui ricordare, ad esempio, i Salmi penitenziali del Petrarca e gli Inni sacri del Manzoni. Citiamo anche due testi, a loro modo esemplari, del Novecento: La messe là-bas di Paul Claudel, Horae canonicae di W. H. Auden e varie raccolte o parti di raccolte di D. M. Turoldo, tra le quali, ad esempio, «Il divino ufficio». Esistono raccolte di poesie suddivise in modo da accompagnare la meditazione del mistero cristiano lungo i tempi dell’anno liturgico [10]. In questo caso la poesia accompagna, evoca e approfondisce la meditazione e la preghiera. Notiamo anche però che alcune edizioni della Liturgia delle Ore, come quelle anglofone, abbiano accolto tra le proprie pagine approvate dalle rispettive Conferenze episcopali un’appendice che raccoglie testi di poesie che sono preghiere. Proprio questa breve raccolta, auspicabile anche per una futura nuova edizione del breviario nella nostra lingua, ci spinge a compiere il nostro percorso di letture.
Sulla soglia, in tensione
John Donne, forse il più grande poeta metafisico inglese (1572-1631), perse il padre all’età di quattro anni. Non ebbe dunque il tempo di conoscerlo né di essere da lui conosciuto a fondo. Alla luce della fede, egli si chiedeva quale rapporto potesse avere con il padre e, in particolare, che cosa di lui il padre potesse conoscere. E così scrisse il suo VIII sonetto sacro: Se della gloria degli angeli le anime / fedeli hanno parte, allora l’anima / di mio padre vede e anche questo assomma / alla sua felicità totale: che bravamente / le fauci dell’Inferno io travalico. Se dunque egli conosce la verità delle cose come gli angeli, in maniera intuitiva, allora conosce il cuore di suo figlio, sa che egli è salvo, e di questo può davvero godere.
E se invece avesse una conoscenza simile alla nostra, cioè dall’esterno? Ma se le nostre menti a quelle anime / sono rivelate da circostanze e segni / in noi visibili, e non direttamente, / come verrà da loro saggiata / la bianca fedeltà della mia mente? Che cosa intende dire qui il poeta? Se la conoscenza che i nostri cari defunti hanno della nostra vita è del tutto esteriore e frutto di un giudizio sull’apparenza, allora essa può subire inganni, essere falsa. Le anime possono fraintendere il significato dei gesti e delle azioni che compiamo. Qui Donne pone il problema dell’ermeneutica dei segni, rifacendosi a san Tommaso, e la risposta che alla fine egli dà nei suoi versi è conforme a quella dell’Aquinate: «Dio solo può conoscere i pensieri del cuore e gli affetti della volontà» [11]. Che fare allora? L’unica via praticabile è la seguente: Anima pensosa, / volgiti dunque a Dio che sa vedere il dolore vero, / quello che dentro il petto lui mi ha instillato. Come si potrà rivelare la verità dell’animo, dunque? L’unico modo è rivolgersi a Dio, perché Lui ben conosce la condizione interiore e il suo pentimento, essendo stato Lui ad averglielo messo nel cuore.
Questa poesia è una meditazione, una riflessione spirituale. La preghiera è innanzitutto un rivolgersi a Dio per dialogare, compiere un atto di affidamento: questo dialogo fa di una poesia religiosa una preghiera. Nella poesia di Donne non troviamo una invocazione di questo tipo. Troviamo semmai ciò che precede una preghiera articolata; infatti esprime la necessità che il poeta si ritrovi con suo padre in Dio e nella sua profonda conoscenza. Questa poesia dice una tensione verso Dio, dice la necessità di un dialogo sul quale le parole della poesia però si fermano: Then turne, o pensive soule, to God, scrive Donne. L’invocazione, semmai, è alla propria anima, perché, nella preghiera, si volga a Dio. La preghiera è intesa come la tappa successiva, resta sulla soglia.
Qual è la natura di tale soglia? In realtà la poesia l’ha frequentata e continua a percorrerla in lungo e in largo: è forse questo il luogo più proprio dell’incontro tra preghiera e poesia. Emily Dickinson [12], ad esempio, ha indagato questa soglia fermandosi su di essa: Era giunto il mio tempo di pregare, scrive. E prosegue: A grandi altezze cresce Dio – chi prega / deve scalare orizzonti – così / m’incamminai diretta verso Nord / per incontrare questo Strano Amico –. La poetessa sente la necessità di incamminarsi verso Dio, questo Curious Friend, come lei lo definisce, che cresce in alto (grows above). Non trova segni di una sua dimora. Vede davanti a sé soltanto Praterie vaste d’aria / non interrotte da un solo colono. Eppure davanti a questa vastità apparentemente vuota lei avverte una soglia. E allora Il silenzio d’un tratto accondiscese – / e la creazione si fermò – per me – / ma atterrita al di là della mia impresa – adorai – non “pregai” (P 564).
Le due poesie, quella di John Donne e quella di Emily Dickinson, sono due approssimazioni, due poesie che accompagnano sulla soglia della preghiera, ma che davanti ad essa si fermano. La soglia viene varcata? La poesia diventa preghiera? In essa vediamo il gesto di adorazione della poetessa, la tensione della poesia alla preghiera. Ma che cosa «sentiamo»? Solamente «silenzio»: The Silence condescended, scrive la Dickinson. Intuiamo la preghiera che sarà seguita, frutto di un silenzio gravido di tensione religiosa, mentre la poesia in se stessa si ferma sulla soglia che la precede. La dimensione trascendente è ben resa dall’immagine dell’ascesa: la preghiera per la Dickinson è un protendersi dell’uomo verso una Presenza desiderata. Scrive ancora la poetessa in un’altra composizione (P 437):
La preghiera è il piccolo strumento
Con cui gli uomini si protendono
Dove la presenza – è loro negata.
Con essa fanno volare le loro parole
– nell’orecchio di Dio –
Se poi Egli ascolti –
La preghiera è uno strumento (little implement) che fa sì che gli uomini si protendano verso un luogo dove la presenza è loro negata. È un ponte fatto di parole, teso nella speranza che Egli ascolti (If then He hear). Don Divo Barsotti, grande figura spirituale dei nostri tempi, che ha vissuto una intensa comunione interiore tra preghiera e poesia, annotava nel suo diario nel 1955: «Come si può osare di credere che la nostra parola veramente gli giunga ed Egli l’ascolti? Ma se lo credi non puoi più vivere che di preghiera» [13]. Ed ecco che la tensione, che fin qui la Dickinson ha solamente descritto e definito, si scioglie nell’invocazione vera e propria (P 502), che segna il passaggio alla preghiera:
Almeno – pregare – rimane – rimane
oh Gesù – nell’Aria –
Non so quale sia la tua stanza –
vado bussando ovunque –
Tu che scateni il Terremoto nel Sud
e l’Uragano, nel Mare –
Dimmi, Gesù Cristo di Nazareth –
non hai tu un Braccio per me?
La Dickinson non ha ancora trovato Gesù, ma l’universo diventa un sistema di segni della sua presenza. La poetessa non sa quale sia la sua stanza, ma lo prega ugualmente, spingendo la tensione di ricerca talmente in avanti da farle perdere l’equilibrio e da far diventare la sua poesia una preghiera articolata quando invoca: Oh, Jesus… e Say, Jesus...
L’invocazione priva di pudore a un «Tu»
L’invocazione Oh, Jesus sposta d’improvviso il baricentro del discorso dall’«io» al «tu». Proprio questa svolta ribalta il discorso e la sua direzione. Il passaggio però non è affatto scontato. Sappiamo che c’è sempre un patto implicito a due tra il poeta e il suo lettore. Ma se la poesia diventa preghiera, appena lo diventa, immediatamente questo rapporto consolidato si spezza per accogliere un terzo, Dio. Se la poesia che leggo è preghiera, allora Dio si pone in mezzo tra il poeta e me. Impedisce a me, lettore, di essere «dentro» quella poesia se non accolgo anche Lui. La poesia-preghiera è intrinsecamente relazione capace di produrre relazione per la quale fornisce una forma linguistica. Può persino diventare una sorta di canovaccio che fornisce gli elementi di base per una preghiera del tutto personale del lettore. Il testo della poesia-preghiera, aperto com’è nel suo rivolgersi a Dio, diventa dunque creativo, capace di generare preghiera [14].
Ma la poesia d’amore non funziona allo stesso modo? Anche quella è capace di produrre relazione e postula la presenza della persona amata tra il lettore e il poeta. Occorre allora capire meglio la differenza. Se nella poesia d’amore il lettore deve accogliere chi è amato dal poeta, è anche vero che la donna amata o l’uomo amato sono tutt’uno in un rapporto singolare che esclude chi legge. Nella poesia-preghiera invece le parole fanno appello alla coscienza del lettore, che può farle proprie senza pudore né vergogna: la più segreta intimità dell’animo non esclude mai il lettore costringendolo solamente a contemplare un rapporto dall’esterno. Persino quando tocca i confini dell’erotismo, come nel caso della raccolta Nel tuo sangue di Giovanni Testori, in cui il senso religioso è tematico e stilistico [15]. Qui l’appello della fede è forte, sensuale e drammatico: M’aspetti al buio / Come un’affamata prostituta, / come un ladro m’azzanni / nei riposi difficili e ansiosi. Oppure ancora:
Se Ti chiedessi
di stringerti a me,
d’aprire la bocca
incrostata di sangue;
se Ti chiamassi
come si chiama un amante,
resteresti,
fuggiresti da me?
Non è questione di fede esplicita o meno: persino un non credente si troverà costretto ad assumere, a fare propri, almeno temporaneamente, gli atteggiamenti del credente per non essere radicalmente «respinto» dal testo. Ecco, non c’è altra possibilità: bisogna «convertirsi», diciamo così, farsi «credenti» per poter leggere questi testi. Deve esserci il Tu nel suo orizzonte, perché quella poesia possa essere comprensibile: senza quella relazione il testo resterebbe bello da vedersi come «dall’esterno», ma il lettore non potrebbe comprenderlo perché non potrebbe davvero comprendersi in esso. In tal caso vale in maniera piena ciò che il poeta inglese Samuel Taylor Coleridge nella sua Biographia literaria ha affermato in generale della poesia: «La fede poetica (poetic faith) consiste in un momento di volontaria sospensione dell’incredulità (willing suspension of disbelief)» [16]. In questo senso si comprende anche perché la conversione religiosa comporti pure una sorta di conversione dell’immaginario [17].
È necessario essere credenti per scrivere poesie-preghiere?
Ma allora è necessario essere credenti per scrivere poesie che siano anche preghiere? Sembrerebbe di sì, a questo punto, ma le cose non stanno così; in realtà Paul Celan, il poeta tedesco di origine rumena, morto suicida nel 1970, non credente, ha scritto in un suo testo di poetica: «Il poema tende a un Altro, esso ne ha bisogno, esso ha bisogno di un interlocutore: lo va cercando; vi si dedica. Ogni oggetto, ogni essere umano, per il poema che è proteso verso l’Altro, è figura di questo Altro» [18]. Un poeta non illuminato dalla fede dunque si rende conto che il poema ha bisogno di un Altro a cui tendere. Come capire questa posizione? È certamente un’esperienza difficile da spiegare e da comprendere. Il premio Nobel Pär Lagerkvist ha scritto questi versi che fanno pensare [19]:
Il dio che non esiste,
è lui che accende l’anima mia di fiamme.
Che fa della mia anima un deserto,
un terreno fumante, una fumigante landa dopo il fuoco.
Questo è un discorso su un Dio assente, di cui viene ribadita la non esistenza. Eppure sono versi ardenti, di fiamma, che presto diventano profonda e intensa preghiera, una tra le più note composizioni del poeta svedese:
Uno sconosciuto è il mio amico,
uno che io non conosco.
Uno sconosciuto lontano lontano.
Per lui il mio cuore è pieno di nostalgia.
Perché egli non è presso di me.
Perché egli forse non esiste affatto?
Chi sei tu che colmi il mio cuore della tua assenza?
Che colmi tutta la terra della tua assenza?
In quale momento all’interno di questi versi la poesia diventa anche preghiera articolata linguisticamente? Avviene negli ultimi due versi, quando il Tu appare come interlocutore: il senso di nostalgia e di assenza tende a trasformasi nel calco vuoto di una presenza misteriosa che si desidera in modo inquieto e struggente, ma che resta assente. Un «Tu» assente, ma pur sempre «Tu». Così anche la trascendenza negativa di Paul Celan, il quale nella raccolta dal titolo La rosa di Nessuno (Die Niemandrose) afferma Dio presente soltanto col suo calco negativo, cioè «Nessuno». In questa raccolta appare la poesia Salmo:
Nessuno c’impasta di nuovo, da terra e fango
nessuno insuffla la vita alla nostra polvere.
Nessuno.
Che tu sia lodato, Nessuno.
È per amor tuo
che vogliamo fiorire.
Incontro a
te.
La poesia si apre con le immagini della vita insufflata alla nostra polvere, chiaro riferimento biblico a Gn 2,7, dove si legge che «Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita». La rosa è emblema di una poesia con un compito preciso: dischiudersi verso «Nessuno», che è il calco del vuoto di Dio, ma che è e rimane un «Tu» (Du), a cui ci si rivolge e a cui è indirizzata questa «lode». La poesia del calco vuoto di Dio è una preghiera vera e struggente. Essa fa leva su un’esperienza che ha maturato un’intuizione di Dio: anche in sua assenza, essa resta sempre e comunque segno di una «presenza» [20]. L’assenza qui dunque, paradossalmente, è una presenza, una figura viva. Ciò che davvero vale è che l’assenza di Dio sia avvertita come «assenza» appunto, e non come puro nulla.
Dall’assenza terribile all’irruzione che apre alla lode
Abbiamo chiarito, dunque, che cosa distingue la poesia, anche quella religiosa, dalla preghiera vera e propria, che è linguaggio: l’apertura al dialogo o all’invocazione. Persino se Dio è avvertito come assente, la preghiera è ancora possibile come ponte gettato verso un mistero ustionante. Ma esiste anche una poesia che ha in Dio un «Tu» chiaro e riconoscibile, positivo, ma nello stesso tempo carico di un silenzio che sembra infrangibile, duro da tollerare. È la poesia che si fa preghiera notturna, dell’orto degli ulivi. Vengono in mente i versi di Davide Maria Turoldo che, in Canti Ultimi, poco prima di morire, pregava così:
Tu, Dio, sempre più muto:
silenzio che più si addensa
più esplode: e ti parlo, ti parlo
e mi pento
e balbetto e sussurro sillabe
a me stesso ignote:
ma so che odi e ascolti
e ti muovi a pietà:
allora anch’io mi acquieto
e faccio silenzio
La preghiera di Turoldo vive di tutti i drammi che abbiamo presentato fin qui. Il poeta si confronta col silenzio di Dio, il quale però esplode. Sembra che sia proprio quel silenzio a generare il linguaggio della preghiera che è prima parola, poi balbettio e poi sussurro, addirittura di parole ignote. La poesia qui è una preghiera che è, nello stesso tempo, testimonianza di una preghiera. È come se il poeta si guardasse dall’esterno e raccogliesse la propria esperienza per offrirla al silenzio, che però è in grado di udire e ascoltare. E a questo punto, nell’ultimo verso, la preghiera e la poesia cedono al silenzio della quiete fiduciosa. Questo timbro dell’anima finisce per avvertire il silenzio e la notte proprio come il luogo dell’incontro più vero, e Juan de la Cruz, il grande santo mistico carmelitano, ha scritto versi luminosi proprio per cantare questa notte oscura, / di amorose ansie infiammata [21]:
O notte che guidasti,
notte più cara dell’aurora:
notte che hai riunito
l’Amato con l’amata,
l’amata nell’Amato trasformata!
E da questo, alla fine, la quiete:
Senza ricordo, immobile,
il volto chinai sull’Amato,
tutto cessò, e io giacqui
lasciando la mia cura
dimenticata fra i gigli.
Tuttavia a volte questa quiete non riesce a intridere di sé l’animo, pur senza vedere la fede intaccata o infiacchita. E allora resta il sentimento di un’assenza tremenda. In genere, paradossalmente, sono uomini di grande fede a scrivere versi di questo genere. Basterebbe leggere i «sonetti terribili» di Gerard Manley Hopkins [22]. Come nella poesia I wake and feel… nella quale il poeta esclama: Sono piaga, sono bruciore. La più oscura sentenza di Dio / Volle che gustassi l’amaro: ero io quel sapore. In queste parole si apre un fondo di desolazione. Don Divo Barsotti scrive nel 1974: «Può darsi che la tua preghiera gli giunga, ma Egli non ti sottrae a questo sentimento del vuoto. Non è una preghiera per te. Ti senti come una voce, un grido che sale dagli abissi. Come se l’abisso stesso in te si facesse grido senza risposta» [23]. E 12 anni dopo questa meditazione diventa preghiera poetica in questi versi [24]:
In me tu sei tormento di un’assenza
Sempre nuova, ti doni a me
Nel sentimento vivo di un’assenza
Che giorno dopo giorno
Sempre più intollerabile mi brucia
E mi consuma.
Tante le composizioni che, ispirandosi implicitamente o esplicitamente al Cantico dei Cantici e alla ricerca dell’amato da parte dell’amata, cantano la ricerca: O Dio, sommo bene, or come fai, / che te sol cerco e non truovo mai? cantava Lorenzo de’ Medici nella seconda metà del Quattrocento. Nel Testori di Nel tuo sangue, c’è una dialettica tesissima tra esistenza e inesistenza di Dio per cui addirittura si pensa Dio inesistente e non gli si chiede pietà per questo. Ma proprio così si fa una professione di fede in Lui al quale ci si rivolge:
Se è bestemmia
Pensarti inesistente,
non Ti chiedo pietà.
Questa è una delle funzioni più grandi della poesia, vista dal punto di vista dell’uomo di preghiera: dà le parole a chi percepisce Dio in maniera forte, ma sotto forma di calco vuoto, di assenza. Non di mistero vago e indefinito, ma di assenza: si sa che Lui c’è, si sa che è Lui e non «altri», ma se ne avverte l’assenza. La poesia diventa una forma di preghiera nella «notte». Davanti a un’assenza di colloquio fluido, intimo, pieno, con Dio, la forma poetica aiuta a mantenere un linguaggio di interlocuzione col Dio che si sa presente ma che si sente lontano.
A volte proprio questa tremenda percezione si ribalta e si capovolge. Non accettando la sensazione di assenza, la preghiera del poeta diventa richiesta di una furiosa irruzione come ancora volta in John Donne, nel suo sonetto sacro XIV: Sfascia il mio cuore, Dio in tre persone! Per ora / tu solo bussi, aliti, risplendi /e tenti di emendare. Ma perché io sorga e regga, / rovesciami e piega la tua forza / a spezzarmi, ad esplodermi, bruciarmi e farmi nuovo. E si conclude con l’invocazione a essere liberato da ogni legame col «nemico» di Dio: Divorziami, disciogli, spezza il nodo, / rapiscimi, imprigionami: se tu / non m’incateni non sarò mai libero, / casto mai se tu non mi violenti [25].
È proprio questa irruzione di Dio, capace persino di «sfasciare» il cuore e di espugnarlo, che può generare dal più profondo versi che esprimono la lode per la bellezza del creato. Esso, infatti, viene visto risplendere non di luce propria, ma di una luce che è in esso e lo fa brillare in trasparenza. Con violenza simile a quella di Donne lo testimonia, ad esempio, una delle splendide rime di Michelangelo, quella che inizia col verso: Vorrei voler, Signor, quel ch’io non voglio:
Squarcia ‘l vel tu, Signor, rompi quel muro
che con la suo durezza ne ritarda
il sol della tuo luce, al mondo spenta!
Manda ‘l preditto lume a noi venturo,
alla tuo bella sposa, acciò ch’io arda
il cor senz’alcun dubbio, e te sol senta.
La lode, sin dalle prime laudi, anzi spesso è proprio il riconoscimento chiaro di una presenza avvertita nell’anima con gratitudine, senza ombre, come tale, dunque, piena. La poesia che è preghiera di lode fa sempre discendere dall’alto la sua motivazione, da un’irruzione consolante di Dio visto creatore e attivo nel mondo e nella storia. È dunque anche una lode della presenza di Dio nel creato come ci dicono i versi del Cantico delle creature di Francesco d’Assisi: Altissimu, onnipotente, bon Signore, / tue so’ le laude, la gloria e l’honore et omne benedictione. / Ad te solo, Altissimo, se konfanno, / et nullu homo ène dignu te mentovare. E da Francesco a Dante in questo senso il passo è davvero breve. La lode della preghiera cristiana nasce sempre dal ricondurre la realtà a Dio, al di là e attraverso tutte le sue possibili contraddizioni. Per questo Ignazio di Loyola ritiene come «principio e fondamento» che El hombre es criado para alabar, l’uomo è creato per lodare [26].
L’itinerario che abbiamo percorso è partito da una soglia, quella tra la meditazione religiosa e la preghiera vera e propria. La poesia diventa preghiera nel momento in cui essa si apre a Dio come interlocutore diretto, quando Dio cioè diventa un «Tu» invocato, che coinvolge il lettore nella relazione sperimentata dal poeta, senza barriere o pudori. Dio può essere presente anche come «assente», calco vuoto di una presenza irriconoscibile, come nel caso di alcune splendide preghiere che però sono scritte da persone che non sentono di aver fede. Anche nel caso di poeti credenti, possiamo leggere poesie che sono preghiere a Dio che si sa essere presente, ma che si sperimenta come muto o silenzioso. Attraversare questa landa desolata di silenzio alla fine può condurre a un urlo che invoca l’irruzione di Dio nella propria vita. E proprio questa irruzione, con il riconoscimento di Dio come presenza, apre l’animo alla lode. I poeti che, in un modo o nell’altro, hanno avvertito una relazione profonda tra la loro ispirazione poetica e la forma espressiva della preghiera ci confermano sulla capacità della parola creativa dell’uomo di trasformarsi in una preghiera che «prende corpo mediante parole» [27].
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[1] Cfr Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), nn. 2558-2565.
[2] Cfr, ad esempio, R. Guardini, Introduzione alla preghiera, Brescia, Morcelliana, 1994.
[3] CCC, n. 2650.
[4] Ivi, n. 2704, che cita il Cammino di perfezione di Teresa d’Avila.
[5] CCC, n. 2700.
[6] Cfr Ignazio di Loyola, s., Esercizi Spirituali, n. 54. Cfr anche nn. 61. 63. 109. 157. 199. 225. Cfr anche il nostro «Scrittura creativa ed “Esercizi Spirituali”», in Civ. Catt. 2006 IV 20-33.
[7] Cfr CCC, nn. 2705-2708.
[8] Cfr A. Spadaro, Abitare nella possibilità. L’esperienza della letteratura, Milano, Jaca Book, 2008. E anche Id., «La preghiera dei poeti», in Civ. Catt. 2002 II 547-556 ispirato dalla pubblicazione del volume G. LADOLFI, Così pregano i poeti. Raccolta di preghiere in forma poetica, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2001.
[9] Cfr M. P. Gallagher, «Il contributo della letteratura alla liturgia», in Concilium 16 (1980) 331-341; A. Ponso, «Poesia e liturgia. Il simbolo e il rito come luoghi della conoscenza», in Atelier XIII (2008) n. 50, 76-102.
[10] Cfr, ad esempio, E. Bianchi – R. Larini, Brucia, invisibile fiamma. Poesie per ogni tempo liturgico, Magnano (Bi), Qiqajon, 1998; E. M. Boyla, Preaching the Poetry of the Gospel. A Liryc Companion to the Lectionary, Collegeville (Mn), Liturgical Press, 2003.
[11] Cfr Summa Theologiae I, q. 57, a. 4.
[12] Cfr il nostro «Nel cuore dell’enigma. La poesia di Emily Dickinson», in Civ. Catt. 2002 IV 356-369.
[13] Cfr S. Albertazzi, Sull’orlo di un duplice abisso. Teologia e spiritualità monastica nei diari di Divo Barsotti, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 2009, 284.
[14] Cfr R. Barthes, Sade, Fourier, Loyola. La scrittura come eccesso, Torino, Einaudi, 1977.
[15] Cfr G. Testori, Nel tuo sangue, Milano, Rizzoli, 1973.
[16] S. T. Coleridge, Biographia literaria ovvero schizzi biografici della mia vita e opinioni letterarie, Roma, Editori Riuniti, 1991, 236.
[17] «Un impoverimento dell’immaginazione significa anche un impoverimento della vita religiosa» (F. O’Connor, Nel territorio del diavolo, Roma – Napoli, Theoria, 1993, 103).
[18] P. Celan, La verità della poesia. «Il meridiano» e altre prose, Torino, Einaudi, 1993.
[19] P. Lagerkvist, La terra della sera, Bari, Ed. di Pagina, 2007, 74 . 19
[20] È una esperienza simile a quella che viene evocata dalla vista di una poltrona sulla quale una persona cara si è seduta per anni. Potrebbe essere utile rileggere una poesia di Giovanni Cristini che fa riferimento a questa esperienza ordinaria e comune: Nella poltrona vuota / lo spazio è una presenza, un calco / una figura in sé raccolta e viva / visibile soltanto / agli occhi della mente. / Non è corpo né ombra, non è luce / spazio soltanto, presenza / invisibile / e il silenzio / la nuvola del tempo l’allontana / oggetto ormai dell’anima, per sempre.
[21] Citiamo qui versi tratti dalla prima delle Canciones del alma que se goza de haber llegado al alto estado de perfección, que es la unión con Dios, por el camino de la negación espiritual nella bella traduzione di Giorgio Agamben: Juan de la Cruz, Poesie, Torino, Einaudi, 1974.
[22] Cfr il nostro «“Vive in fondo alle cose la freschezza più cara”. La poesia di Gerard M. Hopkins», in Civ. Catt. 2006 IV 234-247.
[23] Cfr S. Albertazzi, Sull’orlo…, cit., 285.
[24] Cfr la raccolta D. Barsotti, Poesie. Oltre la parola, San Lazzaro di Savena (Bo), Paccagnella – Fondazione Divo Barsotti, 1999.
[25] Ecco i versi citati in lingua originale: Batter my heart, three person’d God; for, you / As yet but knocke, breathe, shine, and seeke to mend; / That I may rise, and stand, o’erthrow mee,’and bend / Your force, to breake, blowe, burn and make me new. E poi: Divorce mee,’untie, or breake that knot againe; / Take mee to you, imprison mee, for I / Except you’enthrall mee, never shall be free, / Nor ever chast, except you ravish mee.
[26] Ignazio di Loyola, s., Esercizi Spirituali, n. 23.
[27] CCC, n. 2700.