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All’Angelus del 25 gennaio 2009, festa della Conversione di san Paolo e conclusione della Settimana di preghiere per l’unità dei cristiani, Benedetto XVI si riferiva ad alcuni esegeti che, commentando l’episodio di Damasco, preferiscono non usare il termine «conversione», «perché [Paolo] era già credente, anzi ebreo fervente, e perciò non passò dalla non-fede alla fede, dagli idoli a Dio, né dovette abbandonare la fede ebraica per aderire a Cristo». Il Papa concludeva: «In realtà, l’esperienza dell’Apostolo può essere modello di ogni autentica conversione cristiana».
Certo, nell’incontro del Risorto con Paolo si può parlare di «conversione»[1]. L’evento tuttavia ha una certa varietà di denominazioni: «vocazione»[2], «rivelazione»[3], «illuminazione»[4], «folgorazione sulla via di Damasco»[5], «rivoluzione, trasformazione»[6], «trasfigurazione di Paolo»[7]. Di fatto, almeno nella lingua italiana, il termine «conversione» è quello ormai consacrato dall’uso. Moltissimi — è quasi impossibile contarli — sono gli studi dedicati a tale argomento, e alcuni hanno visto la luce in questi ultimi anni[8].
Nella liturgia latina la festa dedicata allaConversione di san Paolonon è antichissima, poiché non se ne ha testimonianza prima del secolo X. L’antica liturgia romana conosce, nel martirologio geronimiano, la Translatio Sancti Pauli apostoli che, solo molto più tardi, diviene — forse perché si era perduto il significato della festa — Translatio et Conversio Sancti Pauli in Damasco[9],o più semplicemente Conversio Sancti Pauli[10]. Così si trova, per la prima volta, alla data del 25 gennaio, nel calendario della corte papale compilato nel 1227; poi nel Messale dei Minoriti e in quello di Pio V; e infine nell’attuale Messale liturgico.
Che nella vicenda di Paolo sulla via di Damasco si tratti anche di «conversione», non c’è alcun dubbio. In essa si ha un aspetto esteriore e spettacolare, raccontato soprattutto negli Atti degli Apostoli (9,1-19; 22,1-21; 26,4-18),ma presente anche nelle Lettere di Paolo: quello di Paolo che da persecutore dei cristiani diventa apostolo di Cristo (1 Cor 15,9; Gal 1,13-14.23; Fil 3,6). E si può distinguere anche un aspetto puramente interiore, che traccia un itinerario conseguente al primo, sebbene diverso: quello del rabbino, del maestro nella Legge, dello specialista nella tradizione mosaica, dello zelante per il giudaismo, che da cultore della Legge si trasforma in avversario della Legge. Ed è avversario su un piano pratico, nei rapporti umani (l’azione pastorale di molti anni è dominata dalla polemica con i giudaizzanti), e ancor più sul piano dogmatico: la Legge mosaica, che pure viene da Dio ed è principio di salvezza, diventa nella Lettera ai Romani l’arma di cui il Peccato — personificazione demoniaca[11] — si serve per condurre alla rovina.
Quest’ultimo aspetto rivela il modo esistenziale in cui Paolo esprime i suoi approfondimenti teologici. È chiaro che una personalità come quella di Paolo — che vive i temi della sua esperienza religiosa in tutta la loro drammatica profondità — nel formulare sistematicamente o polemicamente la propria teologia, non evita di dirla con un linguaggio passionale e autobiografico, poiché essa passa direttamente attraverso la sua esperienza personale. È il caso noto di quella pagina di Rm 7, dove l’«io» che parla in prima persona non è l’io del credente, il quale, dopo il battesimo, è ancora in balìa della concupiscenza e del peccato, e nemmeno l’io di Paolo che evoca il suo passato di giudeo, ma è il protagonista di una storia in atto, proiettata come figura assoluta dell’esperienza della giustificazione[12].
Ecco dunque il problema: è esatto parlare di «conversione» sulla via di Damasco? O si tratta propriamente di un incontro reale con il Risorto, e quindi di una chiamata in senso stretto, a cui Paolo risponde? In definitiva, si tratta di una vocazione che si lascia localizzare in circostanze determinate di spazio e di tempo?
La testimonianza delle «Lettere»
La testimonianza delle Lettere rimane la fonte di prima mano, la più valida e più attendibile per affacciarsi sulla storia di Paolo. Essa comporta il tono riservato di un’esperienza nuova, e degli approfondimenti esistenziali e teologici che l’hanno accompagnata. Ebbene, ogni volta che Paolo si riferisce a quell’incontro con il Signore che sta alle origini della propria identità di apostolo, non usa mai il termine «conversione»[13].
I vocaboli con cui nel greco si esprime una simile esperienza non gli sono ignoti, ma ricorrono poco nel suo epistolario. Si trovano, per esempio, in 1 Ts 1,9,dove Paolo ricorda ai destinatari la loro conversione dagli idoli per servire il Dio vivente. Poi in 2 Cor 3,16, dove si caratterizzano mediante una citazione dell’Antico Testamento coloro che si convertono al Signore Gesù[14]. Paolo, tuttavia, non usa quel termine in riferimento a se stesso: parla piuttosto di vocazione, di chiamata improvvisa, misteriosa, che lo ha afferrato e coinvolto[15].
A dire il vero, qui si deve mettere in conto anche un termine squisitamente neotestamentario: metanoia[16]. Di fatto non pochi usi di questo termine riguardano il ravvedimento da situazioni di peccato intervenute dopo la giustificazione piuttosto che l’evento radicale che l’ha preceduta. Inoltre, si deve notare la scarsa rilevanza che i termini «pentimento» e «conversione» hanno nelle Lettere di Paolo[17].
La «Lettera ai Galati»
La Lettera ai Galati,e anche la Prima Lettera ai Corinzi,che le è più o meno contemporanea, sono le testimonianze più antiche che alludono all’evento di Damasco. Di fronte ai Galati Paolo afferma con forza, fin dall’apertura della Lettera,e di fatto in tutta la sezione dogmatica, il carattere immediato della propria autorità apostolica, che non ha origine dagli uomini, ma direttamente da Dio (cfr 1,1), con un chiaro riferimento a quanto è accaduto sulla via di Damasco. L’affermazione ha tanta forza, e tanta compiutezza ed esaustività, da saldare insieme missione apostolica e vocazione alla fede, e da riflettersi in un prolungamento più generale circa l’immediatezza della vocazione cristiana di ogni credente.
Qui interessa notare soprattutto che Paolo è apostolo in vista di un annuncio evangelico manifestatogli direttamente da Gesù Cristo (cfr 1,11-12)[18]. Le circostanze di tale rivelazione vengono precisate in seguito. Paolo perseguitava la Chiesa di Dio fino al parossismo: era animato da uno zelo estremo per la tradizione dei padri (1,13-14). La chiamata di Dio avviene all’interno di tale contesto, e ribadisce la sua misura singolare nella vita di Paolo, oltre che il primato dell’immediatezza: «Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia, si compiacque di rivelare in me il Figlio suo perché lo annunciassi in mezzo alle genti, subito, senza chiedere consiglio a nessuno, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco» (1,15-17).
Il linguaggio riecheggia l’Antico Testamento greco: la scelta e la chiamata degli uomini di Dio fin dal grembo materno, a cominciare da Sansone (cfr Gdc 16,17), ma pure di Geremia (cfr Ger 1,5) e del Servo del Deuteroisaia (cfr Is 49,1)[19]; e dà un particolare rilievo al verbo kaleo, fino ad assumerlo come termine tecnico per l’azione efficace di Dio, il Vangelo della salvezza e della santità. La chiamata, la rivelazione del Figlio e la missione di annunciare il Vangelo sono momenti collegati tra loro e costituiscono il fondo originario della vocazione di Paolo.
A questo proposito, lo Schlier fa notare la concordanza delle Lettere di Paolocon gli Atti: nonostante la loro forte diversità letteraria, le due serie di testi conoscono un unico evento per cui Paolo è divenuto apostolo; e ne parlano come di una «vocazione», non già propriamente di una «conversione»[20].
La «Prima Lettera ai Corinzi»
La Prima Lettera ai Corinzi ha numerosi accenni a questo evento. Una prima chiara affermazione è già nel saluto della Lettera: «Paolo, chiamato a essere apostolo di Cristo Gesù per volontà di Dio» (1,1). Nella comunità di Corinto alcuni sembrano mettere in dubbio l’autorità apostolica di Paolo, ma egli la ribadisce così, fin dall’esordio della Lettera.
Poi passa a trattare singoli quesiti pastorali. Nel rispondere se sia lecito o no mangiare carni immolate agli idoli (cfr 1 Cor 8), si rifà alla sua situazione personale. Tutto è lecito, ma non tutto è opportuno e conveniente; quindi, bisogna saper rinunciare alla propria libertà, se è di scandalo per i deboli nella fede (8,9). Nel dire questo, Paolo invita i Corinzi a seguire il suo esempio; egli infatti, «pur essendo libero da tutti», ha rinunciato a essere libero e si è fatto «servo di tutti» (9,19) per la loro salvezza.
Da dove viene a Paolo tanta autorevolezza? La risposta è una serie di interrogativi con cui egli rivendica la dignità apostolica: «Non sono forse libero, io? Non sono forse un apostolo? Non ho veduto Gesù, Signore nostro?» (9,1). Fondamento e presupposto della dignità di apostolo è, per Paolo, come per i Dodici[21], l’esperienza diretta del Signore: o diluita nel tempo, come è accaduto ai Dodici; o condensata in un’apparizione folgorante del Signore risorto, a cui è congiunta la missione di annunciare il Vangelo[22]. Gesù nella sua gloria è intervenuto con forza nella vita di Paolo, mutandone bruscamente il corso, poiché lo ha «chiamato a essere apostolo per volontà di Dio» (1,1).
A proposito di questa pagina (1 Cor 9,7-14), il Munck ha richiamato l’attenzione su un particolare che di solito viene trascurato[23]: Paolo ribadisce il proprio diritto a essere mantenuto dalla comunità, come accade per Kefa, per gli altri apostoli e per i fratelli del Signore. Ma dopo un’argomentazione ampia e particolareggiata, egli rinuncia in maniera recisa a ogni diritto, dicendo: «Preferirei piuttosto morire» (9,15) che essere a carico della comunità. E termina con una considerazione essenziale: «Annunciare il Vangelo non è per me un vanto, perché è una necessità che mi si impone[24]: guai a me se non annunciassi il Vangelo! Se lo faccio di mia iniziativa, ho diritto alla ricompensa; ma se non lo faccio di mia iniziativa, è un incarico che mi è stato affidato. Qual è dunque la mia ricompensa? Quella di annunciare gratuitamente il Vangelo senza usare del diritto conferitomi dal Vangelo» (9,16-18).
L’accento è posto tutto sull’incarico che gli è stato affidato: un compito impostogli autenticamente dal Signore, che rende la sua situazione diversa da quella degli altri apostoli. La peculiarità sta nel fatto che per Kefa, per gli altri apostoli e per i fratelli del Signore l’annuncio del Vangelo è il frutto finale di una catena di scelte, del Signore e di loro stessi, che li ha gradualmente e liberamente coinvolti. Essi sono operai chiamati a impegnarsi nella vigna del Signore, con un rapporto che può apparire come la trasfigurazione suprema del contratto di lavoro con il padrone, e che perciò è concluso da una ricompensa: un atto di ricevere in cambio dell’atto di dare. Per Paolo, invece, il mandato nasce da un’irruzione improvvisa venuta da fuori e contraria alle sue intenzioni del momento, anche se l’accoglienza è stata libera e incondizionata. Un rapporto, dunque, in cui la ricompensa sta nella predicazione stessa del Vangelo, e manifesta così la gratuità della salvezza di cui esso è proclamazione. Pertanto non ha analogie con nessuna condizione di servizio reso a un signore qualsiasi[25].
Così si vede perché Paolo considera l’evento capitale della sua vita un imprevedibile mandato che ha per protagonista il Risorto: l’esercizio della missione di evangelizzare è gratuito, in quanto parte costitutiva di una salvezza su cui nessuno degli uomini ai quali il Vangelo è rivolto può rivendicare alcun diritto.
Un’allusione alla vocazione si ha ancora al termine della Lettera, là dove Paolo ricorda alla comunità dei Corinzi il contenuto essenziale dell’annuncio evangelico: il mistero pasquale della risurrezione di Cristo e dei credenti. Per una reazione istintiva comune alla religiosità greca, a Corinto si sottovalutava l’attesa della risurrezione dei morti (cfr 1 Cor 15,16.35), con la conseguenza di mettere in ombra la stessa risurrezione del Signore, momento determinante della salvezza cristiana (cfr 15,14).
Di qui una professione di fede che rievoca le principali tappe della certezza apostolica: la morte del Signore e la sua sepoltura, come premessa della sua risurrezione; la conformità della risurrezione con le Scritture; le apparizioni di Pasqua ai discepoli, poi le altre, e l’ultima, che si distingue dalle precedenti, a un estraneo e un avversario come Paolo: «[Vi ho trasmesso che] Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, e che fu sepolto, e che è risorto il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Kefa, e quindi ai Dodici; […] a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto» (15,3-5.7-8).
Paolo dunque si annovera tra quelli ai quali si è comunicato il Risorto, e si è messo in linea con loro: apostolo come i Dodici, perché l’apparizione del Signore era nei suoi confronti un mandato apostolico[26]. Perciò riconosce di essere «l’ultimo fra tutti gli apostoli», indegno di chiamarsi apostolo, perché era un persecutore della Chiesa di Dio.
«Per grazia di Dio, però, sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana. Anzi, ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Dunque, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto» (15,10-11). Paolo quindi è apostolo non meno dei Dodici: identico è il messaggio; identica è l’autorità che manda lui e loro: con un carico diverso, per lui più oneroso. Perciò il Vangelo predicato a Corinto è lo stesso che viene annunciato da Pietro e dai Dodici, e ha per fondamento operativo e per contenuto primo la risurrezione di Gesù il Cristo.
Pertanto, anche la breve e preziosa enumerazione dell’incontro del Risorto con gli apostoli conferma l’identità del Vangelo e della missione di annunciarlo, per Paolo come per gli altri apostoli. Si menziona, sì, con partecipazione vivissima, l’indegnità di Paolo, persecutore della Chiesa di Dio, a essere chiamato apostolo (cfr 15,8-9), ma solo come occasione per magnificare quanto la grazia divina ha compiuto in lui, il capovolgimento improvviso dalla condizione di persecutore a quella di testimone del Vangelo.
Tuttavia qui non si parla di «conversione» per indicare tale capovolgimento, destinato a essere vissuto, e a rimanere vissuto più che raccontato, perché lo sguardo è rivolto a Dio che salva e lascia da parte le emozioni interiori di chi è salvato.
I podcast de “La Civiltà Cattolica” | INTELLIGENZE ARTIFICIALI E PERSONA UMANA
La nostra epoca sarà ricordata come quella della nascita delle intelligenze artificiali. Ma cosa sono le intelligenze artificiali? Qual è l’impatto sociale di queste nuove tecnologie e quali sono i rischi? A queste domande è dedicata una serie in 4 episodi di Ipertèsti, il podcast de «La Civiltà Cattolica».
La «Lettera ai Filippesi»
Nella Lettera ai Filippesi,il terzo capitolo, polemico contro chi vorrebbe indurre i cristiani di Filippi alla circoncisione, ha il suo acme in un accenno alla vocazione di Paolo. Questa consiste «nell’essere stato conquistato da Cristo» (3,12) e lanciato in una corsa che ha come meta «il premio che Dio ci chiama a ricevere lassù, in Cristo Gesù» (3,14). È chiaro che qui si allude all’incontro sulla via di Damasco.
Con un discorso molto personalizzato, Paolo contrappone agli avversari, orgogliosi della loro circoncisione, i propri titoli di nobiltà giudaica. Ma dopo averli enumerati ed esaltati uno per uno, li rifiuta sprezzantemente, come perdita e spazzatura (cfr 3,4-8), se rapportati a ciò che conta e che vale incomparabilmente più di tutto, «la sublimità della conoscenza di Cristo Gesù» (3,8).
Avere esperienza di Cristo è un atto di conquista, è un «guadagnare Cristo» (3,8), aperto sempre a nuovi approfondimenti. Ma è anche la condizione di chi, essendo diventato intimo a Cristo, si lascia trovare in lui, e non più in se stesso, nella sua storia, nei suoi meriti, nei suoi atti di fedeltà alla Legge; la condizione di chi non ha nulla di suo, ma, privo di qualsiasi positività, è stato accolto nella santità del suo Signore e ne partecipa (cfr 3,9).
Un simile stato di appartenenza reciproca ha avuto un momento iniziale: quello in cui Cristo ha afferrato Paolo. Da allora Paolo cerca di afferrare — katalambanein — a sua volta il Signore, di conoscerne l’animo e condividerne i sentimenti, di non perderlo mai di vista e di avere il cuore occupato da lui: questa è la condizione di chi afferra e insieme è afferrato. Né l’atto di conquista, né l’atto di venire conquistato, che materialmente coincidono, dicono mai un possesso concluso: chiedono sempre di venire completati, di andare più in là (cfr 3,12). Si caratterizzano infatti come «chiamata dall’alto» (3,14), a cui Paolo risponde con quella corsa senza posa che è la sua vita di apostolo (cfr 3,14).
La tensione spirituale di Paolo verso la meta ha come ragion d’essere l’iniziativa di Cristo: «Mi sforzo di correre per conquistare [la meta], perché anch’io sono stato conquistato da Cristo Gesù» (3,12). Con l’immagine di una gara in cui, per conseguire il premio, gli atleti impegnano tutte le loro forze, il Signore Gesù si spende fino in fondo per conquistare Paolo; e Paolo cerca a sua volta di conquistare il suo Signore. Questa corsa in vista del premio non si consuma in un attimo, ma ha una sua durata, in cui si è chiamati a intensificare la reciprocità del possesso.
Al di là della metafora della corsa, il testo parla realisticamente di chiamata: l’iniziativa di Dio per la salvezza, manifestata e portata a compimento nel Cristo, e ora diventata la meta per la vita di Paolo. Non si menziona l’evento di Damasco, ma c’è un chiaro riferimento ad esso: quello è il momento in cui l’iniziativa di Dio si fa Parola che interpella e che attende per risposta un’intera vita. Per i destinatari della Lettera quell’incontro è presentato come esemplare: i Filippesi sono stati anch’essi chiamati da Cristo, e il loro battesimo equivale alla Damasco di Paolo.
Questa pagina presenta una particolarità: l’uso del verbo greco dioko, con tre significati vicini tra loro e diversi. Il verbo significa «affrettarsi verso una meta», «perseguire», ma assume sfumature proprie secondo il contesto. Là dove Paolo parla di sé (cfr 3,6), ha senso attivo: Paolo ha perseguitato la Chiesa in ragione del proprio zelo. Poi è intransitivo: «corro dietro, se mai lo afferri» (3,12)[27]. Più avanti, al culmine del discorso, ha il significato di «mi sforzo in vista di un premio», che è una chiamata dall’alto da parte di Dio in Cristo Gesù (cfr 3,14), l’atto con cui Dio innalza l’uomo verso di sé per farlo simile a Cristo Signore.
Nei tre usi di questo verbo (passato, presente e futuro della meta finale) la vita viene colta da Paolo come una corsa verso il traguardo; perfino il suo zelo di persecutore era una corsa agitata e scomposta, ma sempre rivolta alla meta. Nessuno stravolgimento, dunque, nel suo modo di essere o di agire, bensì la continuità di un’unica corsa che il Signore, sulla via di Damasco, solleva a un livello infinitamente più alto. Tuttavia non si può negare che tra «perseguitare la Chiesa» (3,6) e «perseguire il premio» (3,12.14) ci sia stata una inversione di marcia. L’elemento comune è il temperamento focoso di Paolo, sia pure in un opposto orientamento.
La «Prima Lettera a Timoteo»
Nella nostra analisi dobbiamo tener presente anche un passo della Prima Lettera a Timoteo. Sebbene si tratti di una delle Lettere pastorali,più tardive, vi compare un accenno al ministero di Paolo che conferma indirettamente quanto è stato già detto.
Paolo, prima della missione affidatagli, era «un bestemmiatore, un persecutore, un oltraggiatore» (1,13). Il termine «bestemmiatore» rinvia alla negazione di Cristo come Messia, Figlio di Dio e Dio stesso[28]. Poi dalle parole si passa ai fatti: Paolo è anche persecutore. E qui ritorna il verbo dioko, che abbiamo già visto[29]. Infine, Paolo è «un oltraggiatore», ybristes[30]. Questo termine può significare un oltraggio fisico o morale: negli Atti l’azione di Paolo è espressa in termini di oltraggio fisico[31], mentre in Gal 1,13, che è un parallelo di 1 Tm 1,13, si ha di mira soprattutto l’oltraggio morale, come appunto in questo passo.
Subito dopo, nel testo della Lettera, Paolo dice che agiva così «per ignoranza, lontano dalla fede» (1,13); ma Dio gli ha usato ugualmente misericordia, facendolo «apostolo di Gesù Cristo» (1,1).
Anche nella Prima Lettera a Timoteo, dunque, la vocazione di Paolo non è presentata come conversione: l’iniziativa di Dio lo ha chiamato a essere apostolo mentre egli era bestemmiatore, persecutore e oltraggiatore, e peccava contro la fede. Si dà un cambiamento radicale, ma visto non come esperienza di Paolo, bensì come intervento di Dio a definire il nuovo status di Paolo nei confronti di Cristo.
Gli «Atti degli Apostoli»
La testimonianza di Paolo nelle Lettere parla dunque inequivocabilmente di «vocazione», e non di «conversione». Una conferma di ciò si ha anche negli Atti degli Apostoli. Le notizie date da questo libro hanno un valore diverso da quelle dell’epistolario paolino. Se non si può parlare di «narrazione tendenziosa»[32], certamente dobbiamo riconoscere che Luca interpreta teologicamente gli avvenimenti che racconta. In rapporto al tema in esame, l’evento di Damasco è raccontato in questo libro ben tre volte, con significative differenze[33], che sono state accuratamente studiate. L’intenzione del racconto è sensibilmente diversa nei tre casi, e subordina a sé la materialità dei particolari narrativi: nei tre testi si ha un crescendo che mira a mettere in rilievo la missione di Paolo verso i gentili.
Il primo racconto (9,1-19) riferisce i fatti, mettendo l’accento sulla vocazione improvvisa di Paolo all’apostolato. Al culmine del suo ufficio di persecutore di Gesù Cristo (9,4) e di quanti sono su quella «Via» (cfr 9,2), una rivelazione divina gli annuncia che è stato scelto per proclamare[34] il nome di Gesù pubblicamente davanti ai gentili e ai figli di Israele (cfr 9,15). Con molta acutezza, l’edizione critica del Merk intitola il capitolo 9, Sauli vocatio[35].
Il secondo racconto (cfr 22,3-16) è fatto dallo stesso Paolo, in una circostanza diversa, drammatica: il tribuno romano lo ha arrestato per sottrarlo alla folla dei giudei che volevano linciarlo; e ancora sotto la minaccia di morte e carico di percosse, Paolo testimonia a voce alta ai suoi persecutori la propria missione nei confronti dei gentili (cfr 22,21).
La terza volta è di nuovo Paolo che parla, nella pace di una rispettosa prigionia a Cesarea, alla presenza del tribuno romano Festo e di due suoi ospiti giudei, che sono il re Agrippa II e la sorella di lui, Berenice. In questo momento egli è, ufficialmente, l’avvocato di se stesso (cfr 26,1); e il senso di quello che dice è di rendere conto della sua posizione giuridica nei confronti dei giudei e dell’autorità romana, mettendo in evidenza la ragione direttamente religiosa — una visione celeste in vista di un mandato — della sua prigionia e del suo appello a Cesare. Egli è inviato ai giudei e ai gentili, «per aprire i loro occhi, perché si convertano dalle tenebre alla luce» (26,18).
Per ben tre volte, sebbene sotto aspetti sensibilmente diversi, il racconto degli Atti esprime la missione di Paolo come vocazione profetica, non come conversione. Nelle ultime parole citate si usa il verbo «convertirsi»[36], ma non riferito a Paolo, bensì ai gentili e ai giudei. L’iniziativa di Cristo nei confronti di Paolo è indicata invece da lui con il verbo apostellein, «inviare in missione» (cfr 22,21; 26,17).
Si deve anche notare che gli Atti non usano per Paolo il termine «apostolo»[37], che è riservato ai Dodici scelti da Gesù nel Vangelo (cfr Lc 6,13). Questa è una singolare diversità rispetto alle Lettere:per Luca, infatti, il termine «apostolo» esprime la comunione di vita e di missione che lega Gesù al gruppo dei Dodici.
Inoltre, stando al primo e secondo racconto degli Atti (9,1-31 e 22,3-21), la vocazione sembra essere «mediata» da Anania. Nelle Lettere,invece, — soprattutto nella Lettera ai Galati — Paolo afferma con forza di aver ricevuto immediatamente la chiamata da una rivelazione di Cristo risorto (cfr Gal 1,1.11-12).
Un’ultima differenza riguarda Paolo «persecutore» dei cristiani. Stando ad At 8,3,egli ha perseguitato la Chiesa a Gerusalemme. Risulta così attenuata l’affermazione della Lettera ai Galati, secondo la quale, alcuni anni dopo, molti cristiani della Giudea non lo conoscevano di persona come antico persecutore della Chiesa e avevano sentito parlare di lui in questi termini quando ormai era noto come apostolo[38], L’ampiezza dell’attività anticristiana di Paolo a Gerusalemme va probabilmente ridimensionata: gli Atti ne parlano sobriamente e di sfuggita (cfr 8,3; 9,13.21), e soltanto in relazione con quanto accadrà dopo[39].
D’altra parte, si è visto che tutte queste differenze sono interne ai diversi livelli teologici e narrativi degli Atti: non contrastano con il punto centrale della rivendicazione di Paolo, che è apostolo perché chiamato immediatamente da Cristo.
La fede di un ebreo
Nel formulare un discorso sulla fede di un ebreo che passa alla fede cristiana, non si può dimenticare un’altra considerazione che convalida, da un punto di vista storico-religioso, la testimonianza autobiografica di Paolo e la narrazione degli Atti. Se è vero che per qualsiasi persona la vocazione alla fede cristiana può includere anche la conversione, questo non è esplicitato nel caso di Paolo: la ragione sta nel fatto che egli è un ebreo, e quindi appartiene già al popolo di Dio.
Sia nell’Antico, sia nel Nuovo Testamento il termine «conversione» indica il passaggio dal male al bene, il rigetto dell’idolatria per riconoscere il «vero» Dio, o almeno quel cambiamento sostanziale di chi rinnega il peccato per seguire i comandamenti di Dio. Nel caso di Paolo, innegabilmente un cambiamento c’è, perché cessa un’opposizione: ma questa cessa per ragioni completamente interne all’opposizione stessa. Per un ebreo riconoscere il Messia significava rimanere rivolto allo stesso Dio di prima, sia pure a un livello diverso: la sua nuova fede è il perfezionamento e la pienezza del proprio itinerario precedente. Ecco perché non è esatto parlare di «conversione», in riferimento al passato oppure al presente, per un ebreo che, per fedeltà alla Torah e ai profeti, riconosca Gesù come Messia: si tratta piuttosto della fede veterotestamentaria giunta al suo compimento nell’atto di accogliere il Messia promesso.
Conclusione
La testimonianza diretta delle grandi Lettere, la documentazione che risulta dagli Atti, ma pure queste ultime considerazioni sulla fede di un ebreo cristiano mostrano che non è esatto parlare di «conversione» per l’evento di Damasco. Il termine appropriato è quello a cui ricorre lo stesso Paolo: una «vocazione», o forse meglio, in rapporto alla tradizione biblica, un’elezione e una vocazione.
Già nel passato erano stati formulati dubbi sull’uso del termine «conversione». Nel 1942, Eduard Pfaff, esaminando con cura circa trecento studi sul tema della conversione di Paolo, usciti tra il 1900 e il 1940, giunse alla conclusione, per lui nuova e degna di nota, che «Paolo non parla mai di una sua conversione, ma parla quasi sempre di vocazione, collegando quell’evento con la sua missione di apostolo»[40]. Intorno agli anni Cinquanta, Johannes Munck chiamava l’evento di Damasco la vocation de l’Apôtre Paul.Nel 1963, lo studio di Krister Stendhal sulla coscienza introspettiva nell’Occidente[41],esaminando il problema nell’epistolario paolino, sottolineava che per Paolo non si dà prima una conversione e poi un mandato apostolico, ma soltanto una vocazione al ministero tra i pagani. Questa è una vocazione propriamente profetica, in quanto a lui e non ad altri spetta di chiarire teologicamente quale sia il posto d’Israele, e perfino della sua transitoria infedeltà, nella salvezza cristiana; o, se si vuole, il valore culminante dei capitoli 9–11 della Lettera ai Romani, che non sono una semplice appendice dei primi otto.
Simon Légasse, nel saggio di biografia critica Paul apôtre, scrive a questo riguardo: «Se dunque, per ragioni di comodo, si conserva il termine “conversione” per Paolo, occorre sapere che esso acquista in tal caso un senso specifico e, a dire il vero, senza paralleli veri e propri»[42].
Ma allora, in conclusione, se si tratta di dare un senso specifico a un termine che ha già un significato proprio, tanto vale adottare quello di «vocazione», che Paolo stesso ha scelto per indicare la sua missione di apostolo.
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[1]. G. Lohfink, La conversione di San Paolo, Brescia, Paideia, 1969; A. F. Segal, Paul the Convert. The Apostolate, and Apostasy of Saul the Pharisee,New Haven-London, Yale University Press, 1990; S. Sabugal, La conversione di S. Paolo. Esegesi, storia, teologia, Roma, Dehoniane, 1992.
[2]. J. Munck, «La vocation de l’Apôtre Paul», in Studia Theologica 1 (1947) 131; F. Manns, Saulo di Tarso. La chiamata all’universalità, Milano, Terra Santa, 2008.
[3]. C. M. Martini, Le confessioni di Paolo,Milano, Àncora, 1983, 43. Paolo usa il verbo «rivelare» in Gal 2,13-24.
[4]. D. Marguerat, Paolo di Tarso. Un uomo alle prese con Dio,Torino, Claudiana, 2004, 26 s.
[5]. A. Omodeo, Paolo di Tarso. Apostolo delle genti, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane, 1956, 125.
[6]. L. Baeck, Paulus, die Pharisäer und das Neue Testament, Frankfurt am M., Ner-Tamid, 1961, 10.
[7]. F. Rossi de Gasperis, Paolo di Tarso evangelo di Gesù. Messia crocefisso, fatto Signore glorioso mediante la risurrezione dai morti (At 2,36; Rm 1,1-4), Roma, Lipa, 20082, 61-104.
[8] . Cfr E. Pfaff, Die Bekehrung des H. Paulus in der Exegese des 20. Jahrhunderts, Roma, PUG, 1942, 148-169; J. D. G. Dunn, Gli albori del Cristianesimo, II, 2. Gli inizi a Gerusalemme. Paolo apostolo dei gentili, Brescia, Paideia, 2012; A. Vanhoye, La vocazione e il pensiero di san Paolo, Roma, Adp, 2013.
[9] . M. Righetti, Manuale di Storia liturgica, II. L’anno liturgico nella storia, nella Messa, nell’Ufficio, Milano, Àncora, 19693, 462.
[10]. L. Duchesne, Origines du culte chrétien. Étude sur la liturgie latine avant Charlemagne, Paris, Boccard, 1920, 298.
[11]. Cfr S. Lyonnet, «Peché», in DBS 7, Paris, Letouzey et Ané, 1964, 503-509.
[12]. Si veda l’esegesi di Agostino a Rm 7 nelle Retractationes 1, 22(23); S. Lyonnet, La storia della salvezza nella Lettera ai Romani, Napoli, D’Auria, 1967, 100 s; 126-130; R. Penna, La Lettera ai Romani, Bologna, Edb, 2010, 480-523.
[13]. Cfr C. J. den Heyer, Paul. A Man of two Worlds, London, SCM Press, 2000, 51. I termini e i verbi con i quali si esprime l’esperienza della conversione sono noti: metanoia, metanoein, oppure strepho, epistrephein.
[14]. Paolo cita Es 34,34: all’interno del rinvio ricorre epistrephein.
[15]. Così pure negli Atti degli Apostoli viene usato più volte il termine «conversione» e il verbo corrispondente, ma non in riferimento a Paolo.
[16]. Il termine ricorre in Paolo quattro volte: Rm 2,4; 2 Cor 7,9.10; 2 Tm 2,25. Nel Nuovo Testamento ricorre invece 24 volte.
[17]. Cfr R. Penna, «Pentimento e conversione nelle Lettere di san Paolo: la loro scarsa rilevanza soteriologica confrontata con lo sfondo religioso», in Vangelo, religioni, cultura. Miscellanea di studi in memoria di mons. Pietro Rossano, Cinisello Balsamo (Mi), San Paolo, 1993, 57-103.
[18]. H. Schlier, La Lettera ai Galati, Brescia, Morcelliana, 1963, 46-51; F. Mussner, La Lettera ai Galati, Brescia, Queriniana, 1987, 126-138; B. Corsani, Lettera ai Galati, Genova, Marietti, 1990, 81-84; A. Vanhoye, La Lettera ai Galati, Milano, Paoline, 2000, 42.
[19]. Così pure il Sal 22 (21),10-11 e il Sal 71 (70),6.
[20]. H. Schlier, La Lettera ai Galati, cit.,58, nota 11. Lo Schlier aggiunge anche che le Lettere e gli Atti non distinguono neppure tra la vocazione di Paolo e una rivelazione di Cristo che gli trasmise il Vangelo (ivi). Cfr S. Sabugal, La conversione…, cit., 27; l’autore rileva anche che nel contesto non appare il termine «conversione»; per lui sarebbe «implicito nel fatto della trasformazione radicale di Paolo, nella rottura totale con la sua condotta anteriore, espressa dal netto contrasto fra il prima (1,13-14) e il dopo la vocazione, rivelazione e missione divina (1,15-16a-b), tra il suo passato giudaico e il suo presente cristiano» (ivi). Il Sabugal forse sottovaluta il fatto che la transizione tra giudaico e cristiano è un compimento. D’altra parte, è vero che il «giudaico» comprende ostilità alla fede cristiana e la «transizione» comprende un aspetto della conversione.
[21]. Cfr At 1,21-22: il criterio per scegliere il successore di Giuda.
[22]. Cfr 1 Cor 9,16: «Guai a me se non annuncio il Vangelo!». Cfr G. Barbaglio, La prima Lettera ai Corinzi, Bologna, Edb, 1996, 440.
[23]. J. Munck, «La vocation de l’Apôtre Paul», cit., 134 s.
[24]. Si noti il testo greco, dove appare ananke, e che si dovrebbe tradurre: «un destino che mi sovrasta»; cfr E. Käsemann, «Eine paulinische Variation des “amor fati”», in Id., Exegetische Versuche und Besinnungen, II, Göttingen, Vandenhoeck, 1965, 237.
[25]. G. D. Fee, The First Epistle to the Corinthians, Grand Rapids (Mich.), Eerdmans, 1991, 416 s.
[26]. Ophthe kamoi: il passivo ha significato intransitivo: «diventò visibile, si rivelò, apparve anche a me», e distingue l’evento di 1 Cor 15,8 dalle altre visioni che ha avuto Paolo.
[27]. Oppure si può tradurre: «aspiro a prenderlo, se mai lo afferri».
[28]. Blasphemos: cfr At 6,11; Mc 2,7; 14,64; Mt 26,65; Gv 10,33-36.
[29]. Il verbo è lo stesso che indica la persecuzione nelle Beatitudini (Mt 5,11-12).
[30]. Il termine ritorna solo in Rm 1,30.
[31]. Cfr At 8,3: «Saulo devastava la chiesa, entrando di casa in casa; e trascinando via uomini e donne li metteva in prigione»; si veda pure At 9,1-2.13; 22,4.19; 26,10-11.
[32]. Cfr G. Bornkamm, Paolo…, cit., 36.
[33]. B. Corsani, Lettera ai Galati,cit., 102 s.
[34]. G. LohFink, La conversione…, cit., 100. Lohfink fa notare il significato letterale del testo; «portare il nome» di Cristo (At 9,15) indica che Paolo lo confesserà pubblicamente. L’annuncio qui non è fatto a Paolo, ma ad Anania.
[35]. A. Merk, Novum Testamentum graece et latine apparatu critico instructum,Roma, PIB, 19445, 425.
[36]. At 26,18: epistrephein, che propriamente significa «riconvertirsi»; cfr Gal 4,9.
[37]. Tuttavia si dà una eccezione in At 14,14.
[38]. Gal 1,23.
[39]. Cfr Ph. H. Menoud, «Le sens du verbe πορθει̃ν (Gal 1,13.23; Act 9,21)», in Foi et salut selon S. Paul (Epître aux Romains 1,16), Rome, PIB, 1970, 89 s.
[40]. Cfr E. PfaFF, Die Bekehrung…, cit.,169.
[41]. Cfr K. Stendhal, Paolo tra ebrei e pagani e altri saggi,Torino, Claudiana, 1995 (orig. ingl. 1963), 55-76.
[42]. S. Légasse, Paolo apostolo. Biografia critica, Roma, Città Nuova, 1994, 74.