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Il carisma degli inizi
Sant’Ignazio di Loyola (1491-1556), ultimo di tredici figli, ricevette la sua prima educazione nella cosiddetta casa-torre di Loyola, un severo castello nel Paese Basco. In questa casa è conservato ancora oggi uno strumento musicale (qualcosa fra un liuto e una chitarra), che è copia di uno autentico, il quale a sua volta potrebbe essere stato fra le sue mani. La sua formazione è proseguita, dai 15 ai 26 anni, alla corte di un alto amministratore del re di Spagna, Juan Velásquez de Cuellar, ad Arévalo in Castiglia. La pratica della musica e della danza faceva parte dell’educazione del giovane nobile, nell’ambiente di una corte del primo Cinquecento, insieme ad altri aspetti: lettere, eloquenza, matematica, scherma ed equitazione. La sua carriera sarà poi quella militare, al servizio del Duca di Nájera, viceré di Navarra, regione con capitale Pamplona, al confine con la Francia.
Nel 1521, una grave ferita, contratta durante la difesa della cittadella di Pamplona, assediata dalle truppe francesi, lo costringe a una lunga convalescenza nella casa-torre della sua famiglia, a Loyola. Ignazio ha trent’anni. Qui matura lentamente la sua conversione religiosa. Nel 1522 prende una decisione radicale: in una veglia d’armi nel santuario di Monserrat, in Catalogna, abbandona la vita passata; poi, per un anno, vive poco distante, nella cittadina di Manresa, in estrema povertà. Qui inizia a cercare un orientamento spirituale e pratico per la sua vita. In questo periodo, «soleva ascoltare ogni giorno la Messa solenne, Vespro e Compieta. Questi uffici erano cantati, ed egli ne provava grande consolazione» (Autobiografia, 20). Viveva intensamente il mistero della Trinità, e un giorno, pregando, ebbe una particolare visione: «Era come se vedesse la Santissima Trinità sotto forma di tre tasti …» (ivi, 28).
La sua intuizione fondamentale si esprime così: «L’uomo è creato per lodare, riverire e servire Dio nostro Signore, e così raggiungere la salvezza; le altre realtà di questo mondo sono create per l’uomo e per aiutarlo a raggiungere il fine per cui è creato. Da questo deriva che l’uomo deve servirsene tanto quanto lo aiutano per il suo fine, e deve allontanarsene tanto quanto gli sono di ostacolo» (Esercizi Spirituali, 23). Tutta la sua vita sarà ormai illuminata da questo criterio di base, come un timone alla guida di una barca.
Il punto di arrivo della sua lunga ricerca, attraverso molte e complesse vicende, sarà la nascita di una comunità di giovani sacerdoti, chiamata Compagnia di Gesù, che inizierà ufficialmente con l’approvazione data loro dal Papa Paolo III nel 1540. Ignazio ha quarantanove anni. Vivrà a Roma per altri sedici anni, fino alla sua morte nel 1556. In questo periodo la Compagnia cresce e si diffonde in vari Paesi e continenti del mondo. Lo scopo a cui tendono Ignazio e i suoi compagni è «non solo di attendere, con la grazia di Dio, alla salvezza e perfezione delle anime proprie ma, con questa stessa grazia, di procurare con tutte le forze di aiutare alla salvezza e perfezione delle anime del prossimo» (Esame generale, 2), mediante tutte le forme possibili di ministero sacerdotale e nei contesti umani più diversi. In contrasto con la tradizione plurisecolare degli ordini monastici e religiosi, Ignazio desidera che la vita quotidiana dei gesuiti rimanga svincolata da obblighi liturgici troppo pesanti : «Poiché le occupazioni, che si accettano in aiuto delle anime, sono molto importanti e proprie del nostro Istituto, e si offrono con tanta frequenza, mentre la nostra permanenza in un luogo o in un altro è d’altra parte così incerta, i nostri [gesuiti] non celebreranno in coro le ore canoniche né le messe o [altre] ufficiature cantate» (Costituzioni, III, 4).
Quest’ottica, fortemente apostolica, ha guidato le opzioni dei gesuiti fin dal loro inizio: possiamo dire che essa faccia parte, appunto, del carisma degli inizi. Un’ottica che, in realtà, non dipende da un giudizio di valore negativo sul canto e sulla musica liturgica, né sulla musica in generale. Due cenni di carattere personale dicono con quale spirito Ignazio sentisse il tema della musica. Negli ultimi anni della sua vita, a Roma, egli fu spesso seriamente malato; ora, è documentato quanto egli si sentisse sollevato da un compagno, il padre Andrea Frusio — «eccellente musico», lo definì padre Polanco — che lo visitava e sedeva al clavicordo (piccolo strumento a corde e con tastiera, dal timbro delicato), suonando per lui. Due anni prima della sua morte, Ignazio confidava a padre Ribadeneira che, «se io seguissi il mio gusto e la mia inclinazione, stabilirei nella Compagnia il coro e il canto. Se non lo faccio, è perché Dio nostro Signore mi ha fatto comprendere che tale non è la sua volontà, e che egli non vuole servirsi di noi con il coro, ma in altre cose di suo servizio». Egli ribadisce così, da un lato, il suo gusto personale, da un altro lato, la priorità che i gesuiti devono dare al ministero apostolico, adottando un tipo di preghiera liturgica più semplice, e quindi più adatto ai loro compiti.
Occorre anche situare questo atteggiamento di Ignazio nel contesto ecclesiale della sua epoca. Come dice un odierno storico della liturgia, padre Robert Taft, «la Chiesa cattolica si trovava allora [nel primo Cinquecento] a soffrire il periodo più disastrato della sua storia liturgica». La Messa era diventata uno spettacolo sacro, sovraccaricato da varie devozioni (Ignazio a Manresa «durante la Messa era solito leggere la Passione»: Autobiografia, 20), mentre la Preghiera delle Ore era «dilatata in misura insopportabile […] gonfiata al di là di ogni proporzione». «La liturgia di questo periodo venne concepita come un guscio esterno, la forma cerimoniale dei sacramenti e del culto». La vita spirituale aveva il suo centro altrove, soprattutto nella meditazione e nell’orazione personali e private. Un uomo così dotato di «fiuto spirituale» come Ignazio aveva compreso che, in quel momento, occorreva trovare nuovi equilibri, se si voleva essere pienamente dedicati alla propria missione. La liturgia, specie la Messa, sarà sempre celebrata dai membri della Compagnia con grande riverenza, ma in forme asciutte e rigorose. Nelle «Regole per essere in consonanza con la Chiesa», del resto, Ignazio aveva raccomandato di «dire bene dei canti e dei salmi e delle lunghe preghiere in chiesa e fuori di essa» (Esercizi Spirituali, 355).
I gesuiti, certo, sono nati in contro-tendenza, ma — ed è il punto decisivo — questo modo di pregare e di celebrare, così tendenzialmente austero, ha riguardato soprattutto la loro vita e quella delle loro comunità. Proprio lo slancio con cui si sono gettati nel lavoro apostolico li ha spinti ad adottare altri criteri, alla fin fine opposti, per quanto riguardava le persone e le situazioni nelle quali si sono trovati a operare. Il principio del «tanto quanto» ha giocato in pieno, con risultati apparentemente contraddittori, in realtà del tutto coerenti. In una «Istruzione a coloro che sono inviati» nelle varie missioni apostoliche, Ignazio, nel 1552, raccomandava di «accomodarsi a tutti», ed egli stesso si «accomoderà» (in una lettera datata 27 luglio 1556, quattro giorni prima di morire) al fatto che anche a Roma, nelle liturgie dei gesuiti, si faccia uso della musica (semplici polifonie e suono dell’organo), «perché sembra che qui la cosa dia edificazione», mentre, per quanto riguarda altrove, «dovranno adattarsi alle situazioni del luogo». La presa di posizione iniziale, dunque, va articolandosi con una certa flessibilità, pronta a cogliere i suggerimenti che vengono dal contesto locale. Questo atteggiamento, tutto finalizzato a mettere sempre in pratica ciò che sembra essere in concreto più costruttivo, aprirà le porte a uno sviluppo inimmaginabile.
Fra i primi compagni di Ignazio ancora vivente, alcuni si segnalano per aver sostenuto le ragioni del canto e della musica, pur sottolineando sempre la precedenza da dare all’apostolato: il padre Diego Laínez (suo successore come superiore generale), il padre Francesco Borgia (musicista provetto e terzo generale), il padre Gerolamo Nadal (grande divulgatore dello spirito di Ignazio). A dire il vero, tuttavia, l’austerità iniziale e ad uso interno condurrà di tanto in tanto alcuni gesuiti ad assumere posizioni di sospetto o di pregiudizio, come se la pratica musicale nascondesse pericoli per il buono spirito. Fra gli stessi padri generali dei primi decenni, Everardo Mercuriano (1514-80) fu molto restrittivo, mentre più flessibile si mostrò il grande Claudio Aquaviva (1543-1615).
La musica nei collegi
Le due aree principali in cui si sviluppò il rapporto fra musica e gesuiti furono in particolare le loro scuole, dette collegi, specialmente in Europa, e le missioni in altri continenti, specialmente America Latina e Asia. Essi furono sensibili all’esigenza, da un lato, di offrire un’educazione integrale e, dall’altro, al compito di inculturare l’annuncio evangelico in contesti diversi da quello europeo. In tale ottica, la musica e il canto sono stati riconosciuti dalla Compagnia come un elemento portante della sua azione apostolica. La risposta dei gesuiti a questa istanza è stata molto generosa, anche se la conoscenza dei loro contributi è attualmente, e curiosamente, ancora agli inizi (ma le ricerche, specie negli archivi di Vienna e Monaco di Baviera, proseguono).
Al di là degli studi specialistici, disponiamo oggi di un importante volume del padre Félix Zabala Lana, oggi novantenne e per molto tempo organista e compositore nella basilica di Sant’Ignazio a Loyola, volume intitolato Músicos jesuitas a lo largo de los siglos [Musicisti gesuiti nel corso dei secoli], Bilbao, Mensajero, 2008. In più di seicento pagine, egli presenta 630 gesuiti, che, dalla fondazione della Compagnia fino agli ultimi anni, hanno avuto in qualche modo a che fare con il pianeta musica: promotori, insegnanti, studiosi, compositori, esecutori, organizzatori, animatori. Sono suddivisi secondo il loro Paese di origine, o quello in cui di fatto hanno maggiormente operato: in tutto 48 nazioni, di cui 27 europee. Nei limiti del possibile, di ognuno l’Autore offre la biografia e le opere, particolarmente le creazioni musicali. A rendere attualmente più difficile la raccolta dei dati storici c’è la scomparsa di interi archivi e biblioteche, prima a seguito della soppressione della Compagnia (dal 1773 al 1814) e poi delle numerose espulsioni di gesuiti da vari Paesi, negli ultimi due secoli. Nonostante queste lacune, la storia si rivela ricca di personaggi, alcuni modesti, altri di media e anche di grande levatura. Oggi non sono pochi i gesuiti viventi che continuano tale plurisecolare tradizione.
La rete dei collegi dei gesuiti — il primo dei quali, inteso come scuola per ragazzi e giovani laici, fu fondato a Messina nel 1548, otto anni prima della morte di sant’Ignazio — fu spesso affiancata da chiese rette dalla Compagnia, non parrocchiali ma destinate alla predicazione, alla liturgia e ad altri ministeri. Le vicende musicali interessarono perciò sia gli uni sia le altre. Mentre in queste chiese — entro il quadro generale della Controriforma post-tridentina — il canto e l’uso di strumenti facevano parte, normalmente, del modo di celebrare, soprattutto solenne e festivo, in conformità con le concezioni e le pratiche delle varie epoche e delle specifiche culture locali, nei collegi la musica e il canto furono integrati nel progetto educativo.
Alcuni fatti: in alcune grandi città d’Europa i gesuiti invitarono provetti e noti musicisti a contribuire alla formazione dei giovani studenti: così, ad esempio, maestri come Anerio, Palestrina, da Vittoria e Carissimi, in epoche diverse, insegnarono nel Seminario Romano e nel Collegio Germanico di Roma; Charpentier, Campra e Clérembault nel Collegio Louis le Grand e nell’annessa chiesa di Parigi. Un esempio specifico: nel 1566 viene redatto dal padre Gerolamo Nadal il regolamento liturgico-musicale del Collegio Reale di Vienna. Dovevano cantarsi l’Ordinario della Messa in polifonia, ai Vespri i Salmi in falso bordone (sorta di recitativo a più voci), il Magnificat in polifonia e tutto il resto in gregoriano. I mottetti (brevi pezzi polifonici) non dovevano essere troppo lunghi. Le situazioni pratiche e il corrente modo di procedere nella liturgia, nelle diverse chiese d’Europa, sia nei Paesi latini sia in quelli germanici e anglosassoni, hanno quindi persuaso i gesuiti, a cominciare da Ignazio stesso, che un conto era la sobria celebrazione interna alle loro comunità, e un conto era il servizio ai fedeli e alle chiese, dove canto e musica erano praticati correntemente: non era perciò pensabile di eliminarli, anzi l’esperienza indicava che producevano buoni frutti. A fianco della musica per il culto si sviluppò anche un vasta produzione di canti, monodici e polifonici, utilizzati nella catechesi. La prima sfida fu quella, dunque, di prendere sul serio le necessità e le buone consuetudini delle comunità a cui i gesuiti si dedicavano.
Il progetto educativo, che guidava i gesuiti nello sviluppare la formazione dei giovani, aveva alle spalle il modus parisiensis, che Ignazio e i suoi primi compagni avevano apprezzato e sperimentato con successo all’Università di Parigi. Sulla sua scia, un primo completo progetto di Ratio studiorum fu redatto dal padre Gerolamo Nadal nel 1558, mentre era rettore del Collegio di Messina, e poi definitivamente approvato dalla Congregazione Generale del 1559. Su queste basi si reggerà l’opera educativa della Compagnia almeno fino alla sua soppressione, nel 1773. L’Ottocento e il Novecento trovarono i gesuiti impegnati in un mondo socio-culturale, e quindi educativo, molto cambiato. Il lavoro di formazione, pur senza disconoscere il regime precedente, dovette trovare nuove vie, più consone alle mutate condizioni dei tempi. L’ultimo approdo, contemporaneo, si trova nel Paradigma pedagogico ignaziano del 1993, tutto impostato sull’interrelazione fra «esperienza-riflessione-azione». Sempre, in qualsiasi contesto, lo spirito dell’«accomodamento» (o adattamento) ha articolato i princìpi educativi con le sollecitazioni dell’ambiente culturale in cui l’opera educativa si è svolta. In tale quadro d’insieme dobbiamo valutare la presenza della pratica musicale nei collegi.
Per il periodo antecedente alla soppressione della Compagnia, ecco un esempio fra i più caratteristici. Si tratta del Collegio di Parma, nel Centro-Italia. Fu fondato da un folto gruppo di gesuiti nel 1564. Nel 1599 entrò a far parte dell’Università. Nel 1604 divenne il «Collegio ducale dei nobili». Fu soppresso nel 1768. Verso la fine del Seicento giunse ad avere un massimo di quasi 600 alunni. Gli studenti provenivano in parte dalla città, ma molti anche da Genova, da Venezia, da Milano, e anche dalla Savoia, dalla Svizzera, dalla Spagna e da altri Paesi europei. Fu il più prestigioso collegio in Italia fra Seicento e Settecento.
Il progetto educativo assume in modo eclettico modelli disparati allora in vigore nella società: scuola di corte, accademia cavalleresca, seminario, università. I cardini della formazione sono: la vita in internato, la disciplina, gli studi di umanità, le attività religiose e liturgiche, la formazione pratica: lingue straniere, geografia, architettura militare, scherma, danza, canto, musica, equitazione. Notizie concrete sull’attività musicale degli studenti possono essere ricavate, in via indiretta, dalla descrizione delle rappresentazioni teatrali, recitate dagli alunni, e dalle feste, in genere molto elaborate e fastose, che il collegio celebrava in varie circostanze: accoglienza di prìncipi e di prelati, spettacoli di balletto; premiazioni scolastiche, concorsi poetici, festività in onore di santi gesuiti, saggi pubblici delle diverse abilità degli alunni; commemorazioni funebri di personaggi famosi.
Il teatro — come del resto in tutta la vastissima rete dei collegi gesuiti europei — fu il modo preferito per dare agli studenti l’occasione di fondere armonicamente la recitazione, il canto, la musica strumentale e la danza. Era un momento di sintesi educativa fondamentale. I cosiddetti «drammi scolastici», composti (testi e musiche) da buoni autori, anche se oggi ben poco conosciuti, svolgevano temi mitologici, cristiani o storici. Le feste erano strutturate durante giornate intere, con invitati d’onore e lungo i vari ambienti del collegio stesso. Ecco il ritratto di uno dei migliori studenti, una «gloria» del collegio (Simone Maffei), descritto, nel 1694, come bravissimo in «cavalcare, correre all’anello, scherma, ballo, lingua francese, spinetta, chitarra, accompagnar sulla parte», ossia suonare con un solista di canto. Si intravede il progetto di sviluppare l’integrità delle capacità dei giovani, credendo fortemente nelle potenzialità etico-pedagogiche dell’attività ludica, tra cui la musica e la danza.
Da un’inchiesta storica sui collegi di Bologna, Modena, Parma e Siena, si sa che essi offrivano una preparazione tecnica per suonare numerosi strumenti: violino, violoncello, viola d’amore, chitarra, spinetta, liuto, flauto, clarinetto, oboe ecc. Si trae, dall’insieme, la sensazione che la pratica musicale fosse molto integrata nella vita degli studenti, e non considerata autonoma, come sarà dall’Ottocento in avanti. La festa barocca, afferma Gino Stefani, è «la manifestazione più globale [della cultura dell’epoca…] in cui si ha la presenza di tutti i valori culturali ufficiali, con il massimo dei mezzi espressivi». La musica, qui, non è tanto studio teorico, quanto esercizio del corpo e dello spirito, così come la danza, l’equitazione, la scherma, entro una globalità dei linguaggi. Per avere, infine, un quadro completo di quanto questo tipo di educazione sia stato esteso e tenacemente perseguito, occorrerebbe rifarsi alle vicende dei collegi praticamente in ogni Paese dell’Europa occidentale e centrale, fra il Cinquecento e il Settecento.
Facendo un balzo di secoli, ecco un caso emblematico più vicino a noi, che riguarda l’educazione musicale promossa dalla Compagnia. Si tratta di un fatto relativamente isolato, ma che ha dato prova di solidità in un breve spazio di tempo. Nel 1948 i gesuiti presenti in Giappone, in massima parte europei, fondano a Hiroshima una Scuola di musica. Il suo sviluppo eccezionale la condurrà a essere ufficialmente riconosciuta a livello pubblico, nel 1963, quando fu denominata Elisabeth University of Music. Essa costituisce ancora oggi una delle scuole musicali più prestigiose del Paese del Sol Levante. Prepara allievi esperti in musica sia giapponese sia occidentale. I suoi settori di insegnamento sono: educazione musicale, musica sacra occidentale e giapponese, canto, strumenti (organo, pianoforte e clavicembalo, corde e fiati), analisi musicale, lingue estere. A distanza di secoli dagli inizi e in un contesto così diverso, la stessa logica apostolica ha condotto i gesuiti del Novecento a investire con convinzione nella formazione musicale e umana di giovani, non tutti formalmente cristiani.
La musica nei Paesi di missione
Fin dai primi anni di esistenza della Compagnia, molti gesuiti furono inviati in missione in Paesi extra-europei: all’inizio, soprattutto in Asia e in America Latina, ma anche in alcune zone dell’Africa. Il citato volume di padre Zabala documenta con abbondanza la presenza di gesuiti musicisti (promotori, insegnanti, compositori) in queste giovani Chiese, nello spirito e secondo i criteri caratteristici delle missioni di oltremare nei secoli della Controriforma e dell’Illuminismo. Allontanandosi dal contesto europeo, l’annuncio del Vangelo e la nascita di nuove comunità ponevano con particolare urgenza il problema dell’inculturazione del cristianesimo. Uno dei punti-chiave era come favorire un’esperienza diretta del messaggio e dei valori cristiani, senza che la già avvenuta, nei secoli precedenti, inculturazione nelle culture europee costituisca un peso inutile e fuorviante. Nella misura in cui intere generazioni di missionari poterono rendersi consapevoli della posta in gioco, al di là dei loro slanci generosi, l’inculturazione seguì due piste principali: a) la lotta per i diritti umani (contro diverse forme di schiavitù, contro le prepotenze dei colonizzatori europei, contro costumi locali incompatibili con la dignità umana); b) lo sforzo di entrare nelle culture di altri popoli (la promozione delle lingue locali; l’offerta di prodotti culturali elaborati in Europa, come le scienze o la musica, nello spirito dello scambio), in modo da facilitare l’annuncio. La valutazione odierna di questi complessi eventi, in termini di costi e benefici, è molto articolata e non ancora conclusa.
Restringendo l’obiettivo sulla musica, vanno messe in evidenza due zone del mondo, in cui le iniziative «inculturate» dei gesuiti sono state particolarmente significative, anche sul piano della musica. Naturalmente, un panorama completo dovrebbe includere anche tutta l’America e l’Africa, ma qui non è possibile allargare ulteriormente lo sguardo. La prima zona è l’America Latina. Fra Cinquecento e Seicento, specialmente in Messico, Perù e Brasile, la presenza dei gesuiti in campo musicale si esplicò, soprattutto all’inizio, attraverso l’impiego di repertori europei (musica polifonica spagnola e italiana) nell’ambito delle liturgie solenni, ma creando il necessario supporto tramite scuole di formazione musicale, orientate all’esecuzione di questo genere di composizioni. Meglio connesse con le esigenze di un adattamento culturale più spinto, furono le vicende interne delle cosiddette «Riduzioni», ossia una serie di piccoli centri abitati, situati in un’area geografica che oggi corrisponde al Paraguay e a parti della Colombia, del Brasile e dell’Argentina, dove le popolazioni locali venivano invitate a radunarsi, per poter vivere una vita ordinata, e soprattutto difesa dalle violenze dei colonizzatori. Nacque così una sorta di «repubblica cristiana», pensata e promossa dai gesuiti, che fu poi chiamata, dal grande storico italiano Ludovico Antonio Muratori (1672-1750), il «Cristianesimo felice».
Il progetto qui era educativo in senso ampio, dato il contesto diverso rispetto a quello dei collegi europei, più orientato ad avviare una buona convivenza civile e a consentire una fede possibile, non inquinata dai pessimi esempi degli europei. L’«esperimento» iniziò nel 1607 e si concluse nel 1767. Il regime quotidiano di vita era scandito da orari e regole precise. Al centro del villaggio, la chiesa. In tutti i centri l’attività musicale era notevole: nella scuola di musica, in un locale apposito, venivano formati suonatori, cantori, compositori e costruttori di strumenti musicali. Vi si affiancavano le scuole di danza. Sia il canto e la musica strumentale, sia la danza, erano «materia prima» della catechesi e delle celebrazioni liturgiche, come pure delle feste del villaggio, ma scandivano anche il giorno feriale, il lavoro, il viaggio. In alcuni casi il livello delle produzioni musicali fu molto elevato, ed ebbe risonanza. Non si possono passare sotto silenzio i nomi di alcuni gesuiti come il francese Louis Berger (1589-1639), il tirolese Anton Sepp von Reinegg (1655-1733), l’italiano Domenico Zipoli (1688-1726) e lo svizzero Martin Schmid (1694-1772), tutti attivi, in epoche diverse, come compositori e promotori della musica nelle «Riduzioni».
Fra gli storici, alcuni oggi si domandano se le «Riduzioni» furono un’utopia o il frutto di un progetto chiaro e praticabile, di un’evangelizzazione forzata o di un dubbio sincretismo. Lasciando aperto il non facile problema, si constata, tuttavia, che anche in questo caso la Compagnia ha compiuto passi importanti nell’accettazione dell’«altro», sforzandosi di incontrarlo così com’era, con la sua religiosità e la sua cultura, incluse le doti canore e musicali di cui — a detta dei testimoni — i popoli delle Riduzioni si sono dimostrati particolarmente dotati. Negli anni recenti, un film come Mission ha proposto una piacevole illustrazione del fenomeno.
In Asia l’attività missionaria esplicò le sue capacità anche musicali sia in India sia in Giappone e nelle Isole Filippine. Ma fu la Cina ad attrarre maggiormente gesuiti musicisti per quasi due secoli e mezzo, a cominciare dall’italiano Matteo Ricci (1552-1610) per finire con il francese Jean Joseph-Marie Amiot (1718-93) Rispetto all’America Latina, qui l’obiettivo fu molto differente: si trattava di aprire un varco per il cristianesimo preparandone l’accesso anzitutto attraverso le scienze, soprattutto matematiche e astronomiche, le lettere e la musica. La strategia fu quella di mirare in alto, in pratica all’ambiente della corte di Pechino, dominato dalla figura dell’imperatore, offrendo i migliori elaborati scientifici dell’Occidente e, in campo musicale, mettendo a disposizione strumenti ancora sconosciuti in Cina, proponendo composizioni occidentali ma entrando in contatto anche con le musiche e i musicisti cinesi. I nomi importanti furono quelli di Matteo Ricci, peraltro notissimo per la sua vasta e geniale opera di inculturazione, del tedesco Johann Adam Schall von Bell (1592-1666), del belga Ferdinand Verbiest (1623-88), del tedesco Florian Bahr (1706-71) e dello slovacco Johan Walter (1708-54), i quali insieme costituirono in corte un’orchestra (composta da 10 violini, 2 violoncelli, 1 contrabbasso, 8 fiati vari, 4 flauti, 7 liuti, 1 cornamusa, 1 clavicembalo e percussioni di bambù), infine del francese, sopra citato, Jean Joseph-Marie Amiot (1718-93), che rimase a lungo a Pechino anche dopo la soppressione della Compagnia (1773).
Anche a proposito della grande avventura cinese si possono porre alcuni interrogativi, spostando il tiro sulle condizioni del tutto differenti, come quelle del grande impero cinese, caratterizzato da una cultura plurimillenaria e da una concezione profondamente auto-centrata della propria posizione nel mondo. Fino a che punto l’impianto altamente colto e raffinato dell’approccio gesuitico al mondo cinese trovò una vera rispondenza? Si mossero con paziente rispetto, o tentarono di premere sull’intelligenza e lo spirito dei loro interlocutori? Giocarono più sul prestigio della cultura o sulla lenta persuasione della testimonianza cristiana? Sono interrogativi complessi e di grande portata, che vanno ricordati soltanto per essere meglio consapevoli delle sfide raccolte e di quelle che restano ancora davanti a noi.
Conclusione
È molto difficile, per concludere, tracciare un quadro generale di come oggi, nel terzo millennio, si ponga il rapporto fra musica e gesuiti. Ripartendo dall’Ottocento e risalendo lungo il Novecento, si constata:
- da un lato, molto lavoro di ricerca su temi musicologici, storici e in particolare liturgici, a cui si sono dedicati uomini come i padri Lambillotte, Blume, Dreves, De Santi, Rouët de Journel, Smits van Waesberghe, López-Calo, Zabala, Kennedy e altri, eredi, in questo, dei padri della prima Compagnia, come Clavius, Kircher ed Eximeno;
- d’altro lato, soprattutto sotto la pressione del Movimento liturgico, sbocciato poi nel Concilio Vaticano II, si sono manifestati eccellenti talenti compositivi, sovente attivi anche come direttori di coro, a servizio delle comunità cristiane: Nemesio Otaño (1880-1956), Georg Strassenberger (1898-1986), José Ignacio Prieto (1900-80), Joseph Gelineau (1920-2008), José Ignacio Tejón (1920-94), Hubert Dopf (1921-), Félix Zabala (1921-), Manuel Simões (1924-), Raimund Baecker (1930-) Christopher Willcock (1947-);
- l’attenzione alle rinnovate esigenze della liturgia, sottolineate recentemente dai Padri Generali e dalle Congregazioni Generali della Compagnia, ha dato impulso a molte iniziative pastorali in moltissime chiese del mondo, a livello promozionale e pratico. I progetti pedagogico-educativi, per contro, e salvo migliori informazioni, sembrano non aver dato particolare importanza al fare musica (canto e strumenti). La musica viene menzionata soltanto quando si tratta di descrivere il contesto socio-culturale entro il quale vivono i giovani di oggi, contesto del quale anche la musica fa parte. Probabilmente la pratica musicale non è (più) considerata elemento integrante di un valido e variegato modello di uomo e di donna, a cui ispirarsi. Lo stesso problema è rilevabile anche in altri progetti educativi di tipo laico, nel nostro Paese come in altri. Ma i giochi non sembrano fatti: si percepiscono segnali, ancora timidi, in senso contrario, ai quali anche la pedagogia ignaziana oggi è chiamata a rivolgere attenzione.
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