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Il 25 gennaio 1959 fu dato l’annuncio del Concilio Vaticano II, appena tre mesi dopo l’elezione al soglio pontificio del patriarca di Venezia, Angelo Giuseppe Roncalli. In realtà, l’idea di indire un Concilio era presente nella mente del nuovo Papa fin dall’inizio del suo ministero petrino; ciò non tanto, come egli stesso successivamente ebbe a dire, per la necessità, avvenuta in passato, di definire nuovi dogmi, formulare nuove dottrine o per confutare alcune tendenze della teologia moderna, ma poiché riteneva che un tale evento ecclesiale avrebbe dato nuovo slancio e dinamismo alla Chiesa in campo pastorale, spirituale e missionario, come era avvenuto dopo il Concilio di Trento — di cui egli era conoscitore ed estimatore — e, allo stesso tempo, avrebbe favorito l’incontro e l’unità tra i cristiani separati. A tale problema egli, anche per le esperienze che aveva fatto in passato[1], era molto sensibile. «Come può mai essere — egli confidò al direttore della Civiltà Cattolica durante un’udienza — che, dopo duemila anni che il Figlio di Dio si è incarnato, così pochi lo conoscano e tra gli stessi cristiani ci siano tante divisioni?». Disse inoltre di nutrire la speranza che il Concilio sarebbe stato l’occasione per molti «di convertirsi individualmente al cattolicesimo, o almeno di rivedere le loro posizioni e il loro punto di partenza». Aggiunse però che anche i «cattolici debbono riconoscere i propri errori», in particolare «i peccati del clero». È necessario, concluse il Papa, in tono fiducioso, «riformarsi individualmente per preparare la riunione» [2].
L’annuncio del Concilio avvenne in un’occasione molto particolare e significativa, cioè alla conclusione dell’ottavario — istituito da Leone XIII — della preghiera per l’unità dei cristiani. Giovanni XXIII, dopo aver celebrato la Messa e impartito la solenne benedizione nella basilica di San Paolo fuori le mura, tenne «concistoro» con i 17 cardinali convenuti per la celebrazione nella sala capitolare del monastero. Soltanto alcuni tra i cardinali presenti erano al corrente di quanto il Papa avrebbe comunicato; e pare che neppure molti prelati della Curia, e in particolare del Sant’Uffizio, fossero stati informati della cosa. Qualche giorno prima il Papa, «assai titubante e incerto», aveva informato della sua decisione, che aveva nel frattempo maturato, il suo segretario di Stato, card. Domenico Tardini, che la accolse con entusiasmo e rassicurò il Pontefice sulla bontà e sull’opportunità dell’iniziativa[3] . L’idea di convocare un Concilio ecumenico è stata essenzialmente una libera decisione di Giovanni XXIII; essa però maturò attraverso il sapiente consiglio di ecclesiastici a cui il Papa si era rivolto, anche se la questione fu tenuta riservata, anzi segreta, fino all’annuncio ufficiale.
«Pronunciamo innanzi a voi —– disse il Papa nella sua allocuzione del 25 gennaio —, certo tremando un poco di commozione, ma insieme con umile risolutezza di proposito, il nome e la proposta della duplice celebrazione: di un Sinodo diocesano per l’Urbe e di un Concilio ecumenico per la Chiesa universale». Egli parlò anche della necessità dell’«aggiornamento» del Codice di diritto canonico. Trattando specificatamente del Concilio — e accennando al fatto che la celebrazione di questi eventi ha sempre aiutato la Chiesa nella formulazione di «affermazioni dottrinali» e nello stabilire «saggi ordinamenti ecclesiastici» dando frutti di «straordinaria efficacia» —, disse che esso mirava «a edificazione e a letizia di tutto il popolo cristiano, a rinnovato invito ai fedeli delle Comunità separate a seguirci anch’esse amabilmente in questa ricerca di unità e di grazia, a cui tante anime oggi anelano da tutti i punti della terra». L’annuncio fu accolto dai cardinali presenti, per usare le parole del Papa, «in commosso silenzio»[4]; in realtà, come si è detto, molti furono colti di sorpresa dal triplice annuncio, che giungeva inaspettato e quindi tutto da decodificare e da comprendere.
L’annuncio era inatteso, e sorprese tutti gli ambienti, sia quelli ecclesiastici, sia quelli laici. In poche ore la notizia fece il giro del mondo: per la prima volta in epoca moderna, e attraverso la forza irradiante dei media, l’attenzione del mondo intero fu rivolta alla Chiesa cattolica e ad un evento che la riguardava. La percezione generale era che si sarebbe assistito alla celebrazione di un evento di grande portata, non solo per la Chiesa, ma anche per la moderna società civile secolarizzata, sebbene in pochi, anche in ambito cattolico, sapessero quale fosse la reale portata dell’evento annunciato. L’annuncio avveniva in un momento storico molto particolare, dopo la fine di una guerra mondiale sanguinosa e disastrosa come nessun’altra, in un contesto internazionale segnato dalla guerra fredda e dalla logica delle contrapposizioni ideologiche, ma allo stesso tempo dominato dall’idea di progresso (sociale ed economico) e dalla volontà di molte nazioni e uomini di Stato di instaurare un ordine internazionale nuovo, fondato sulla pace e sul diritto. In realtà, tale intento fu molte volte disatteso, come nella sanguinosa guerra di Corea. Negli ultimi tempi alcuni eventi fecero tuttavia sperare per il meglio: molti Paesi coloniali avevano ottenuto l’indipendenza; negli Stati Uniti era stato eletto (per la prima volta) un presidente cattolico, sensibile ai problemi della pace e della giustizia sociale, e perfino nell’Unione Sovietica il nuovo presidente Nikita Krusciov — che era intenzionato a chiudere la lunga stagione stalinista — sembrava non insensibile a questi stessi valori, oltre a mostrare una certa attenzione a quanto accadeva nella Chiesa cattolica.
Le testate cattoliche, soprattutto quelle più vicine al Papa, diedero la notizia dell’annuncio papale con molta prudenza e circospezione. Addirittura L’Osservatore Romano non riportò il breve discorso[5] che Giovanni XXIII tenne ai cardinali riuniti a San Paolo fuori le mura, anche perché doveva essere inviato per conoscenza a tutti i porporati, ma pubblicò un breve comunicato della Segreteria di Stato, che successivamente fu ripreso, senza commento, dalla «Cronacacontemporanea» della Civiltà Cattolica[6]. La nostra rivista iniziò a trattare con una certa ampiezza le questioni concernenti l’annunciato Concilio soltanto a partire dal quaderno del 2 maggio 1959, nel quale sono riportati i commenti della stampa a tale riguardo[7]. La stampa laica italiana interpretò l’annuncio pontificio secondo le indicazioni della direzione o secondo l’orientamento politico. Quella di sinistra fu particolarmente «partigiana» nel commentare il fatto e lo utilizzò strumentalmente per contrapporre l’attuale Pontefice a quello precedente. L’Avanti! del 30 gennaio rilevava «l’intonazione pastorale e conciliante» di Giovanni XXIII, contrapponendola a quella di Pio XII, che, secondo il giornale socialista, aveva sempre mostrato scarso interesse nei confronti delle altre Comunità separate. Secondo l’Unità (27 gennaio), organo del Partito Comunista Italiano, il Concilio, nonostante le parole concilianti del Papa, avrebbe condannato, come era avvenuto in passato, il mondo moderno, considerato «materialista ed estraneo alle esigenze dello spirito», e proponeva, per fare argine al potere clericale, una coalizione tra le forze laiche e di sinistra. Il giornale Italia domani (8 febbraio)affermava addirittura che «il Concilio è solo una mossa del Vaticano per assicurarsi il predominio sull’Asia e sull’Africa, mentre al riguardo dei protestanti e della Chiesa russa non solo non contiene alcun invito, ma piuttosto ha un significato di sfida e quasi di ostilità».
I giornali nazionali non di partito tennero un tono più contenuto, anzi il Corriere della Sera del 27 gennaio giudicò l’annuncio di Giovanni XXIII «l’iniziativa più coraggiosa che possa prendere un Pontefice». La Gazzetta del Popolo (27 gennaio), in un editoriale firmato dal prof. Agostino d’Avack, affermava che l’intento del Concilio era soprattutto quello di «creare un fronte comune per la difesa degli ideali cristiani contro il dilagare del neomaterialismo teorico e pratico» di orientamento marxista o meno. La Stampa di Torino (10 febbraio) pubblicava un articolo a firma dello storico Luigi Salvatorelli, il quale in tema di unità dei cristiani metteva in guardia da posizioni troppo ottimistiche o ireniche: «Sarà bene — scriveva — non illudersi. Tali posizioni appaiono a chi conosce non solo i termini del problema, ma le rispettive tradizioni psicologiche collettive, scarsissime». Il massimo che oggi si può sperare, continuava, è creare tra le confessioni cristiane «un clima stabile di serenità e di comprensione reciproca, con una qualche cooperazione sul piano morale e sociale».
I maggiori giornali internazionali valutarono positivamente, a volte entusiasticamente, l’annuncio del nuovo Concilio. Le Figaro del 27 gennaio indicava l’annuncio pontificio come un «gesto di alto valore storico», mentre Le Monde lo definiva come un «fattore di pace e di distensione tra gli Stati». Il New York Herald Tribune (28 gennaio) giudicava la decisione come un gesto coraggioso, soprattutto, scriveva, «in un momento in cui vaste zone del mondo sono in schiavitù sotto la tirannia che nega ogni diritto individuale e sottomette ogni religione ad inumana persecuzione», intendendo con ciò i Paesi sottoposti alla dittatura comunista. A sua volta il New York Times del 29 gennaio definiva l’annunciato Concilio come un «progetto meraviglioso e di significato eccezionale per tutto il mondo». Anche la stampa di lingua tedesca espresse posizioni di sostegno e apprezzamento nei confronti dell’iniziativa pontificia; secondo il Die Ostschweiz (del 26 gennaio) esso era indubbiamente un «avvenimento di portata storica mondiale», mentre l’Echo der Zeit (del 29 gennaio) lo definiva per le sue valenze in ambito ecumenico come il «Concilio della speranza» e della riconciliazione. Secondo il giornale di Barcellona Vanguardia española (28 gennaio) l’annuncio pontificio «è giunto in un momento quanto mai opportuno: le Chiese scismatiche orientali sono in crisi. Queste Chiese nazionali […] hanno sofferto le conseguenze della gravissima crisi delle rispettive nazioni […]. Con un Papa come quello attuale, aperto alle necessità della nostra epoca, si può prevedere che il Concilio eliminerà quegli ostacoli che, senza essere sostanziali, finora non hanno permesso l’unità dei cristiani». Anche la stampa latinoamericana commentò con articoli interessanti la decisione pontificia, ritenendola opportuna per riportare ordine, dopo decenni di crisi e di sbandamento tra le nazioni, in ambito sia spirituale sia politico[8].
Il Concilio cresce nella mente del Papa
L’annuncio del Concilio, soprattutto a motivo del richiamo all’unità tra i cristiani, che costituiva, almeno per il momento, la vera novità del breve discorso del Papa, fu accolto con grande interesse dalle Chiese separate di Oriente e di Occidente, che furono colpite dal tono rispettoso e fraterno del messaggio pontificio, che si contrapponeva all’antica ostilità generalmente usata dai cattolici (e debitamente ricambiata) nei confronti degli «eretici» e degli «scismatici». Verso la fine di marzo 1959 fu inviato in Vaticano un rappresentante del patriarcato ortodosso di Costantinopoli, il metropolita Iakovos di Malta. Egli fu ricevuto da Giovanni XXIII come rappresentante del patriarca Atenagora, il quale aveva risposto con inusuale sollecitudine e cortesia al messaggio inviatogli dal Papa il 1° gennaio di quell’anno. Anche altre Chiese ortodosse, e orientali ortodosse come quella copta egiziana e quella antiochena, espressero al Papa la loro attenzione per l’evento e la loro vicinanza spirituale. Le reazioni più tempestive all’annuncio del Concilio arrivarono da Ginevra, cioè dalla sede del Consiglio Ecumenico delle Chiese.
Già il 27 gennaio il segretario generale, il pastore olandese Willem Adolph Visser’t Hooft, espresse a nome del Consiglio simpatia e vivo interesse per le inattese parole del Papa sull’unità dei cristiani. Subito dopo un rappresentante dell’arcivescovo di Canterbury consegnò a Giovanni XXIII una lettera dell’arcivescovo anglicano, la quale spianava la via a una sua futura visita in Vaticano. Cosa che impensierì molto gli ambienti curiali e, in particolare, il Sant’Uffizio, che giudicava affrettate sul piano dottrinale le «aperture di amicizia» del Pontefice bergamasco. Su tale delicata questione il Papa ritornò successivamente per chiarire il suo pensiero in materia di strategia ecumenica e correggere alcune interpretazioni diffuse nel frattempo dalla stampa internazionale.
Alla fine di aprile, Giovanni XXIII, anche per sollecitazione della Curia, cercò di chiarire il suo progetto in materia di ecumenismo. In tale discorso egli fissava una sorta di «scaletta» per giungere all’unità: «In Oriente — disse — [è necessario] il riavvicinamento prima, il riaccostamento poi e la riunione perfetta di tanti fratelli separati coll’antica Madre comune, e in Occidente la generosa collaborazione pastorale dei due cleri»[9]. Ora, che fosse il Papa a dire questo, non era cosa da poco, tanto più che egli si espresse non invitando gli «scismatici» e gli «eretici» a «ritornare» nella casa, comune, ma a convergere verso l’unità e a cooperare per la formazione di un «unico gregge».
Il discorso del Papa del 25 gennaio, a parte il richiamo all’unità dei cristiani, non fissava nessun programma, neppure di massima, per il futuro Concilio, né tanto meno dava indicazioni di contenuto su di esso, soffermandosi soltanto a sottolineare il carattere spirituale e pastorale dell’evento. Il Papa infatti — al quale, ricordiamo, spettava fissare l’agenda del Concilio — desiderava che fossero i vescovi stessi, liberamente, a indicare, nei tempi e nei modi ancora da stabilire, i contenuti da sottoporre all’attenzione delle assise conciliari[10]. Eppure nei mesi successivi all’annuncio dell’evento a molti sembrava che la Curia fosse riuscita a ridurre il programma giovanneo annullandone lo slancio profetico. «Poco a poco — scriveva il teologo domenicano francese Yves-Marie Congar — le speranze suscitate dall’annuncio del Concilio sono state ricoperte da un sottile strato di cenere. C’è un lungo silenzio, una sorta di black out, appena interrotto da questa o quella simpatica dichiarazione del Papa»[11], le quali, continua il teologo, «sembrava che avessero arretrato rispetto all’annuncio primitivo».
Giovanni XXIII ritornò a parlare del Concilio in occasione della festa di Pentecoste (17 maggio 1959), prendendo spunto dalla ricorrenza per indicare questo avvenimento come una «nuova Pentecoste», definizione che da allora in poi venne quasi sempre associata all’evento conciliare. In tale circostanza il Papa rendeva pubblica l’istituzione della «Commissione ante-preparatoria» incaricata di raccogliere il materiale per l’avvio del Concilio e di formulare proposte per la composizione degli organi che avrebbero gestito la preparazione vera e propria dello stesso. L’atto pontificio stabiliva che tale Commissione fosse composta da dieci cardinali, tutti di Curia e italiani, mentre la direzione della stessa veniva assegnata al cardinale Segretario di Stato. Alla segreteria fu chiamato un prelato della Sacra Rota, mons. Pericle Felici, che avrebbe conservato tale incarico per tutta la durata del Concilio. Se la decisione del Papa di nominare tale Commissione mostrò a tutti in maniera inequivocabile che sulla convocazione del Concilio egli non aveva cambiato idea, come invece molti speravano, la composizione «tutta romana» della stessa fu vista, soprattutto dai «transalpini», come un segnale non favorevole. Tale valutazione si rivelò, come dimostreranno ampiamente i fatti, del tutto errata, e il Papa già dall’inizio s’impegnò ad assicurare la libertà del Concilio e a fare in modo che la sua agenda di lavoro fosse determinata dagli stessi padri conciliari, chiamati a esprimersi liberamente su tale materia.
In realtà la Curia, attraverso mons. Felici, aveva chiesto al Papa che la determinazione della materia che sarebbe stata trattata in Concilio fosse affidata alla Commissione romana e che ai vescovi venisse inviato un «questionario preciso» con l’invito a rispondere che cosa essi pensavano sulle singole questioni indicate nel prestampato. Il Papa bocciò tale proposta e dispose che nella lettera indirizzata a tutti i vescovi e agli altri aventi diritto si chiedesse quali erano, a loro parere, le questioni che dovevano essere trattate dal Concilio. La Curia ottenne che le Commissioni preparatorie (incaricate di redigere i testi) e quelle conciliari ordinate per materia fossero presiedute dai prefetti del corrispondente dicastero romano. Il Papa però stabilì che il segretario delle singole commissioni fosse scelto fuori della Curia. Ciò che fu fatto effettivamente.
La Commissione ante-preparatoria lavorò fino all’aprile del 1960, ordinando in base al contenuto le circa 2.000 risposte, che arrivarono da ogni parte del mondo. La lettera, e non il questionario, con la data del 18 giugno 1959, che fu inviata con la firma del card. Tardini a tutti i vescovi del mondo e ad altri aventi diritto a partecipare al Concilio, in modo semplice e diretto diceva: «Il Venerabile Pontefice desidera conoscere le opinioni o i punti di vista e ricevere i suggerimenti e desideri delle Eccellenze Vostre, vescovi e prelati convocati per legge (canone 223) a prendere parte al Concilio ecumenico […]. Questi [suggerimenti] saranno utilissimi per preparare gli argomenti da discutere nel Concilio». La lettera, inoltre, esortava i vescovi a esporre le loro idee con grande libertà e su «qualsiasi tema» che essi volessero fosse trattato in Concilio. Il 77% dei vescovi rispose nel giro di poco tempo alla lettera del Segretario di Stato: alcuni con sole poche righe, altri inviarono a Roma relazioni voluminose. Quando, dopo il Concilio, queste risposte furono date alle stampe, riempirono otto volumi, che superavano abbondantemente le 5.000 pagine[12].
Tale materiale fotografa bene la situazione della Chiesa cattolica di quegli anni. Innanzitutto, sul piano dottrinale si chiede la conferma del magistero dei Papi precedenti, in particolare quello recente di Pio XII. Si chiede inoltre la condanna dei mali moderni, sia quelli interni sia quelli esterni alla Chiesa, in particolare il liberalismo laicista e il comunismo ateo. Alcune risposte erano un poco più audaci e chiedevano una maggiore responsabilizzazione dei laici nella Chiesa e l’adozione del volgare nella sacra liturgia. Alcuni vescovi di Paesi non occidentali chiedevano inoltre l’abolizione del celibato ecclesiastico. Numerose inoltre erano le proposte circa nuove formulazioni dogmatiche, o di altro tipo, sulla Vergine Maria[13].
I criteri di orientamento del Concilio secondo Giovanni XXIII
Nel giugno 1960 il lavoro di preparazione del Concilio riprese il suo corso: furono nominate una Commissione cardinalizia centrale e 10 Commissioni preparatorie, competenti per i diversi ambiti tematici. Esse praticamente ricalcavano le competenze delle Congregazioni della Curia ed erano presiedute dai rispettivi prefetti. La sola Commissione che non aveva alle spalle una Congregazione di riferimento era quella sull’apostolato dei laici. Successivamente il Segretariato per l’unità dei cristiani, presieduto dal cardinale Agostino Bea —, che aveva come compito originario quello di prendere contatto con le Chiese separate e invitare, come osservatori, al Concilio i loro rappresentanti —, fu equiparato, per volontà del Papa, alle altre Commissioni, con il compito dunque di intervenire nella redazione dei testi. Tale decisione ebbe un grande influsso sulle sorti del Concilio, in quanto i suoi membri provenivano da diverse nazionalità e riflettevano universi mentali differenti. La maggior parte dei membri che componevano le Commissioni preparatorie, incaricate di redigere gli schemi da portare nel Concilio, provenivano dagli ambienti romani, anche se con il passare dei mesi vi furono inseriti vescovi e teologi provenienti da altre culture e continenti, che portarono nelle Commissioni idee nuove e modalità diverse di approccio pastorale.
Ora, poiché in questa fase non esisteva ancora un disegno organico delle questioni da trattare nel Concilio, il lavoro preparatorio si andò frantumando in una miriade di argomenti, a volte secondari, dando vita a un numero spropositato di schemi (circa 70); e poiché non c’erano contatti tra le Commissioni competenti, una stessa materia veniva spesso trattata diverse volte e secondo prospettive differenti. In generale si può dire che tali schemi preparatori di solito si limitavano a «riepilogare» gli insegnamenti dottrinali degli ultimi Pontefici, soprattutto quello particolarmente ricco di Pio XII.
Questa fase durò due anni e fu molto intensa; essa si concluse il 2 febbraio 1962 con la decisione di Giovanni XXIII di fissare per l’11 ottobre dello stesso anno l’inizio dei lavori dell’assemblea conciliare. Nei quasi quattro anni di preparazione del Concilio, anche nella mente del Papa, come si è detto, si erano andate maturando idee e prospettive nuove; in questo «tempo di grazia», come disse, egli ebbe modo di approfondire alcuni importanti temi che avrebbero indirizzato in modo significativo il percorso del futuro Concilio.
Si può anche dire che nella mente del Papa il Concilio prese forma e vita poco alla volta; in questo egli fu aiutato da vescovi e teologi con i quali nel frattempo era entrato in confidenza (come mons. Suenens, vescovo di Bruxelles-Malines, che egli nominò cardinale prima dell’apertura del Concilio, e i cardinali Bea, Léger, Lercaro, Montini e altri): la profetica intuizione iniziale andò poco alla volta assumendo una fisionomia ben precisa e definita e per nulla generica, come spesso è stato detto. Il punto di arrivo, il frutto maturo, di questo lungo percorso è stato il Gaudet mater Ecclesia, cioè il grande discorso di apertura delle assise conciliari, che più di ogni altro testo sintetizza il pensiero di Giovanni XXIII sul Concilio.
Fin dall’inizio il tema principale del Concilio per Giovanni XXIII doveva essere quello dell’«aggiornamento»; di questo aveva parlato, sebbene in modo ancora generico, nell’allocuzione ai cardinali del 25 gennaio nella basilica di San Paolo fuori le mura. Con questa parola — che passò in italiano nel vocabolario corrente del Concilio e nella successiva pubblicistica — egli indicava la necessità che la Chiesa annunciasse il Vangelo di Gesù Cristo all’uomo contemporaneo in maniera da comprendere anche le specifiche esigenze dei tempi. Chiedeva, inoltre, alla comunità dei credenti di lasciarsi alle spalle la lunga stagione di lotte e di contrapposizioni, che spesso aveva visto su versanti opposti la Chiesa e il mondo moderno, e di superare la mentalità intransigente che aveva caratterizzato buona parte del magistero ecclesiastico e una certa pratica pastorale.
«Aggiornamento», secondo il Papa, non significava semplicemente «riforma» della Chiesa — secondo una prospettiva tipicamente tridentina —, ma indicava piuttosto la disponibilità dei cattolici e della Chiesa nel suo insieme a ricercare una rinnovata inculturazione del messaggio cristiano nella vita e nel pensiero contemporaneo. Secondo il teologo domenicano p. Marie-Dominique Chenu, «aggiornamento non significa solo qualche modifica di parole in un linguaggio stereotipato […], indica invece la sostanza permanente e autentica della fede, un’interiore invenzione di concetti, di categorie, di simboli, che siano omogenei alla mentalità alla cultura, alla lingua, all’estetica degli uomini di oggi»[14].
Altro concetto chiave presente fin dall’inizio nella mente del Papa è la «pastoralità» del Concilio, principio da lui affermato in diverse occasioni e spesso frainteso. Secondo alcuni studiosi, sembra che con tale caratterizzazione il Papa intendesse superare il binomio tridentino dottrina-disciplina (fides et mores), come fondamento del lavoro e delle decisioni conciliari, e volesse un orientamento non controversista o conflittuale dell’opera del Concilio. Ciò di fatto significava rinunciare alla definizione di nuovi dogmi dottrinali o alla formulazione di nuove condanne, ma adottare uno stile più fraterno, ispirato all’accoglienza e al rispetto dell’altro e aperto al dialogo e alla condivisione. Pastoralità e aggiornamento, così intesi, hanno posto le premesse per evitare che la «teologia» sia meramente intesa come isolamento della dimensione dottrinale della fede e sua concettualizzazione astratta, come anche per il superamento del giuridismo.
Il principio di pastoralità è stato interpretato da una parte dei teologi, in particolare da coloro che intendevano ridurre l’autorevolezza delle decisioni conciliari, come un elemento di debolezza del Vaticano II; essi di fatto consideravano tale principio come una categoria teologica secondaria rispetto all’elemento dottrinale, quasi che essa riguardasse soltanto il momento dell’esecuzione e della messa in opera dei «dati dottrinali della rivelazione». A tale riguardo Chenu sottolineava che «tutto questo Concilio è pastorale, come presa di coscienza, da parte della Chiesa, della sua missione. Tutto questo Concilio è dottrinale, perché esso vuole essere la presenza del Vangelo per e nella Chiesa. Originalità sensazionale di un Concilio che, senza ignorare gli errori, le malvagità, le oscurità di questo tempo, non si pone in atteggiamento di tensione o di chiusura verso di esso, ma discerne soprattutto nelle sue speranze e nei suoi valori richiami impliciti del Vangelo e vi trova la materia e la legge di un dialogo»[15].
Va ricordato inoltre che tale elemento, tipicamente giovanneo (come risulta dall’allocuzione Gaudet mater Ecclesia), fece subito breccia nella mente dei padri conciliari, e alcuni dei primi schemi (in particolare quello sulle fonti della Rivelazione e quello sulla Chiesa) furono criticati e respinti, già nella prima sessione conciliare, proprio sulla base del principio di pastoralità, che secondo essi vi era disatteso.
Come si è prima accennato, un altro elemento presente nella mente di Giovanni XXIII fin dall’origine, e che anzi fu avvertito nella percezione comune come la ragione immediata della convocazione di un nuovo Concilio, era la chiamata all’unità di tutta la Chiesa. Su questo tema il Papa, anche alla luce delle sue esperienze personali, era particolarmente sensibile, anche se all’inizio non si comprendeva bene quale significato si dovesse dare alle sue parole. Come si è detto prima, il Papa dovette intervenire per specificare meglio questo aspetto ed evitare fraintendimenti o malevole interpretazioni del suo pensiero.
Ciò che il Papa intendeva sollecitare era la disponibilità dei cattolici a farsi coinvolgere in un cammino verso l’unità delle Chiese cristiane. Egli desiderava che al Concilio partecipassero, nella veste di osservatori attivi e non passivi, i rappresentanti delle Chiese di Oriente e di Occidente; per questo, accogliendo un suggerimento del card. Bea e del vescovo di Paderborn, mons. Lorenz Jaeger, egli istituì il Segretariato per l’Unità dei Cristiani. Gli osservatori, per regolamento, parteciparono a tutte le congregazioni generali, indipendentemente dal tema trattato, e furono coinvolti a diversi livelli anche in altre importanti attività del Concilio.
Infine un altro argomento molto caro a Giovanni XXIII era la libertà del Concilio. Secondo il Papa, proprio i vescovi sarebbero dovuti essere i veri protagonisti del Concilio. La definizione dell’infallibilità, secondo la sua mente, non avrebbe dovuto nuocere in nulla alla libertà del Concilio e in nessun caso poteva spingere i vescovi all’inattività o ad assumere un ruolo passivo nella cura e nel governo della Chiesa universale. Egli desiderava che i vescovi nel Concilio svolgessero pienamente la loro parte e, abbattendo barriere ideologiche e culturali, imparassero a lavorare insieme e a condividere le loro esperienze pastorali per il bene della Chiesa universale.
«Per quanto riguarda il Concilio — scrive nel suo diario il p. Tucci, riportando le parole del Papa —, egli dice di essere pienamente soddisfatto: il Concilio è veramente entrato in pieno nel suo lavoro soltanto nelle ultime settimane, quando ha cominciato a comprendere le implicazioni del messaggio di settembre e del discorso inaugurale dell’11 ottobre» (udienza del 9 febbraio 1963)[16].
Il Papa si sfoga con il gesuita su alcune posizioni che erano emerse nella prima sessione del Concilio, a suo avviso troppo dure e poco aperte al dialogo, soprattutto in materia di Scrittura e di ecclesiologia. Egli, soprattutto su queste materie, fece di tutto per assicurare la tanto auspicata libertà del Concilio. In particolare, come leggiamo nei diari del p. Tucci, il Papa criticava «quei padri conciliari che, per il fatto di essere stati professori di teologia, credono di dover fare dei testi conciliari dei manuali di teologia». Riaffermava ancora a chiare lettere, individuando la vera natura del Concilio, «che non si tratta di dirimere questioni dottrinali, poiché non gli pare vengano oggi agitate questioni la cui soluzione è necessaria per evitare gravi danni alla fede della Chiesa».
Il Papa, come si è detto, aveva molto a cuore la libertà del Concilio. «Nella prima sessione — annotava il p. Tucci — il Papa ha preferito non intervenire ai dibattiti per lasciare ai Padri la libertà di discussione e la possibilità di trovare la giusta via da sé; d’altra parte egli, non avendo la necessaria competenza nelle varie questioni, con qualche suo intervento avrebbe potuto creare più disturbo che aiuto; i vescovi dovevano imparare da sé e lo hanno fatto»[17]. Questo era lo spirito della pedagogia conciliare di Giovanni XXIII, che ha dato l’avvio al lungo percorso conciliare e, già da subito, ha permesso ai vescovi di diventare i protagonisti del «grande evento» del Concilio, della «nuova Pentecoste», che si stava celebrando nella basilica vaticana.
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[1] Nella primavera del 1925 il neovescovo mons. Roncalli (consacrato a Roma nella chiesa di San Carlo il 17 marzo) fu invitato dal Papa come visitatore e delegato apostolico in Bulgaria, dove esisteva un piccola comunità cattolica divisa tra il rito orientale e quello latino. Nel novembre 1934 fu nominato delegato apostolico in Turchia e Grecia. Si insediò nella nuova sede con il titolo di arcivescovo di Mesembria nel gennaio 1935. Rimase a Istanbul fino al dicembre del 1944, quando Pio XII lo scelse per la prestigiosa nunziatura di Parigi. Cfr M. RONCALLI, Giovanni XXIII. Angelo Giuseppe Roncalli. Una vita nella storia, Milano, Mondadori, 2006, 174-282; A. MELLONI, Papa Giovanni. Un cristiano e il suo Concilio, Torino, Einaudi, 2009, 141 s.
[2] Archivio della Civiltà Cattolica (ACC), Carte del p. Roberto Tucci.
[3] Cfr G. Caprile, Il Concilio Vaticano II. Annuncio e preparazione, vol. I/1, Roma, La Civiltà Cattolica, 1966, 43
[4] Ivi, 51. Il Papa stimava molto il cardinale Tardini che, nonostante le resistenze del presule, aveva voluto che divenisse Segretario di Stato e suo fidato collaboratore nel governo della Chiesa universale. «Disse — confidò al p. Tucci — di averlo stimato dal tempo in cui furono studenti insieme e di credere che Tardini non lo stimasse molto. Ma ammirava la sua lealtà e sincerità e disse che in fondo si sono sempre trovati sostanzialmente d’accordo; pur partendo spesso da punti di vista opposti, ci si incontrava a mezza strada»: ACC, Carte del p. Roberto Tucci. Udienza del 1° febbraio 1960.
[5] Fu riportato sugli Acta Apostolicae Sedis 51 (1959) 65-69. Il testo fu pubblicato anche nella Documentation catholique del 29 marzo 1959, 385-388.
[6] Tale comunicato, trattando delle necessità della Chiesa universale, nell’ultima parte, diceva: «Per quanto riguarda la celebrazione del Concilio Ecumenico, esso nel pensiero del Santo Padre mira non solo alla edificazione del popolo cristiano, ma vuole essere altresì un invito alle comunità separate per la ricerca dell’unità, a cui tante anime oggi anelano da tutti i punti della terra», in Oss. Rom., 26-27 gennaio 1959.
[7] Cfr G. Caprile, «Primi commenti all’annuncio del futuro Concilio», in Civ. Catt. 1959 II 283-295.
[8] Sulle reazioni della stampa nazionale e internazionale all’annuncio del Concilio cfr Id., Il Concilio Vaticano II. Annuncio e preparazione, cit., 57 s.
[9] Discorsi, Messaggi, Colloqui del S. Padre Giovanni XXIII, vol. I, Città del Vaticano, Tip. Vaticana, 1960, 903.
[10] In ogni caso «Giovanni XXIII non ha partorito il Concilio tutto fatto, come Minerva dal cervello di Giove. Gli scopi e la natura sono stati progressivamente sbozzati, messi a fuoco e approfonditi nei loro spessori e nelle loro implicazioni nel corso della riflessione personale del Papa, anche a contatto con gli echi e le critiche suscitate nella Chiesa e tra i cristiani dall’annuncio della convocazione, con l’evolversi della situazione mondiale e, infine, con l’avvio della preparazione stessa del Concilio» (G. Alberigo [ed.], Storia del Concilio Vaticano II, vol. I, Bologna, il Mulino, 1995, 51).
[11] Ivi, 59 s.
[12] Cfr J. W. O’Malley, Che cosa è successo nel Vaticano II, Milano, Vita e Pensiero, 2010, 21.
[13] Ivi, 22. Sulla base di tale materiale fu redatta una «Breve sintesi finale sui consigli e suggerimenti degli Ecc.mi Vescovi e prelati di tutto il mondo per il futuro Concilio ecumenico», che concluse il lungo e faticoso lavoro della Commissione ante-preparatoria. Partendo da questo testo, mons. Felici mise a punto le «Questioni poste alle Commissioni preparatorie del Concilio», che funsero da base per i futuri «schemi» da sottoporre all’attenzione dei padri conciliari.
[14] M. D. Chenu, «Un pontificat entré dans l’histoire», in Témoignage chrétien, 7 giugno 1963
[15] Id., «Una costituzione pastorale della Chiesa», in Il tetto 2 (1965) n. 10-11, 17.
[16] ACC, Carte del p. Roberto Tucci.
[17] Ivi.