|
Il conflitto, oltre ad essere una situazione etica, è anche una situazione linguistica. Di fronte alla lotta la parola può diventare una difesa calcolata per tentare un controllo sulla tragedia, ma spesso essa cede al silenzio e in esso si chiude. Ma sono queste due le uniche strade praticabili? Se l’afasia si scioglie, quali sono i suoni possibili? Quelli del grido inarticolato o anche quelli della parola poetica? Si può fare letteratura dopo Auschwitz, dopo l’11 settembre 2001, in un mondo di lotte quotidiane e di conflitti interiori? Con quali parole? Si esaminano alcune possibili risposte alla luce dell’esperienza di alcuni scrittori contemporanei.