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Più volte sulla nostra rivista ci siamo occupati di libri che testimoniano come scrivere racconti possa essere non soltanto un gesto di espressione artistica, ma anche una forma di libertà raggiunta o desiderata rispetto a una condizione di oppressione [1]. Ora ci proponiamo di riflettere a un livello più profondo: la nostra tesi è che la narrazione, l’abilità di raccontare storie, oralmente o per scritto, sia in se stessa un principio di libertà.
La liberazione dal mutismo
Che cosa significa che la narrazione è un «principio di libertà»? Principio può significare criterio, norma a cui l’uomo ispira il proprio comportamento. Ad esempio, si dice che una persona è di «sani princìpi» se regola il suo comportamento secondo norme corrette, eticamente valide. In genere, il concetto di «principio» fa riferimento anche ai criteri accolti come tali dall’ambiente e dalla tradizione. Immediatamente dunque il termine principio si connette alla libertà, nel senso che criteri e norme vengono liberamente accolti e praticati. L’accento è posto sull’adesione. Se poi assumiamo la parola «principio» nel senso dei concetti fondamentali di una scienza o di una teoria (i princìpi della matematica, il principio di non contraddizione, il principio dei vasi comunicanti…), allora l’idea e il gusto della libertà sembrano eclissarsi. In questo senso, dire che la narrazione è principio di libertà significherebbe sostenere che per essere veramente liberi occorre imparare a raccontare. Non sappiano se accettare per buona o meno l’affermazione: da una parte è suggestiva e ci sembra vera, dall’altra sembra essere limitante, restrittiva. Veramente dunque la narrazione è una norma, un criterio per la libertà personale? Una persona è veramente libera solamente se è in grado di raccontare qualcosa di sé e del mondo? Sarebbe una strana definizione, ma certo capace di far pensare.
In effetti, è un dato di fatto che una delle primissime libertà conculcate nei regimi dittatoriali è proprio quella di espressione e dunque di narrazione, come dicevamo all’inizio. Pensiamo al romanzo Fahrenheit 451 di Ray Bradbury e al film che il regista F. Truffaut trasse ispirandosi a questo romanzo. È la storia di una società in cui la lettura è proibita, e i romanzi, come del resto tutti i libri, vengono bruciati. C’è dunque, che lo si voglia o no, un legame preciso e stringente tra la narrazione e la libertà. Se posso raccontare significa che sono libero di farlo, questo è certo. Ma forse è proprio vero che per essere liberi è in qualche modo necessario imparare a raccontare e a raccontarsi. Del resto, quante volte, quando abbiamo raccontato qualcosa di profondo a un amico, ci siamo sentiti non solamente più sollevati, ma anche più liberi interiormente?
Per «principio» però si intende non solo una «norma», ma anche l’«inizio». A testimoniarlo innanzitutto è proprio la Bibbia, che si apre col libro della Genesi, esordendo: «In principio». L’inizio è il momento aurorale, l’avvio; qualcosa senza il quale non ci sarebbe tutto il resto. In questo senso potremmo dire che la narrazione è l’inizio della libertà: nel momento in cui io racconto, lì per me si apre uno spazio di libertà. Appena mi apro al racconto, scritto oppure orale, io entro in uno spazio che mi affranca da qualcosa che mi costringe, per essere veramente libero.
Da che cosa mi libera la narrazione? Innanzitutto dal mutismo, non dal silenzio, ovviamente, che è ben altra cosa. Il silenzio è un fatto neutro, generale. Può essere frutto di una scelta, di un’abitudine o di un’impossibilità. Altro è il silenzio di un monaco, altro è il silenzio di chi è stato operato alle corde vocali. Con mutismo invece intendo il frutto di un’incapacità, quella di proferire parole o perché non si sa che cosa dire o perché non «si trovano» le parole [2]. Allora ritorna la domanda: dove si trovano le cose da dire? dove si trovano le parole per dirle?
Dove si trovano le cose da dire?
Dove si trovano le cose da dire? È la domanda che ogni scrittore si pone nei momenti di crisi. Di che cosa posso scrivere? Chi è ispirato non si pone l’interrogativo, ovviamente. Tuttavia nei momenti di stasi o di «crisi da pagina bianca» la domanda diventa impellente. La risposta è sempre e comunque una: dall’esperienza. Si comincia a narrare a partire dalla propria esperienza diretta, vissuta. E questo anche se si sta scrivendo un romanzo fantasy o, comunque, di pura fantasia.
Da dove vengono le immagini di «pura fantasia», infatti? In ogni caso, persino le immagini che non si rifanno a realtà sensibili, hanno sempre una base storica: esse cioè fanno appello, combinano e rilanciano elementi della nostra memoria o della nostra vita. L’immaginazione è una funzione dell’esperienza e costruisce con materiali attinti dalla realtà. Non esiste una zona separata e a sé stante che prescinda radicalmente dal nostro rapporto col reale e che generi immagini prive di ogni relazione con la nostra umanità, la quale è sempre storica, concreta, legata alla percezione del mondo. Insomma, senza il reale non esisterebbero neanche la fantasia e l’immaginazione. La realtà è più ricca della fantasia, perché è il seme che, in potenza, contiene tutto il proprio sviluppo fantastico. Possiamo dunque dire che la fantasia è un modo specifico e pertinente di fare esperienza della realtà [3].
«Scrivere è un problema. Non è che ci si possa mettere tutti a sedere e cominciare a scrivere in maniera brillante, alzarsi dalla scrivania, fare qualcos’altro tutto il giorno, e poi il mattino dopo ricominciare daccapo senza alcun conflitto o ansia. Cominciare a scrivere — o cercare di intraprendere qualunque attività creativa — significa farsi molte domande, non solo sul compito che si è scelto in sé, ma su se stessi, e sulla vita. La pagina bianca è una rappresentazione di questa impotenza. «Chi sono io?» chiede. «Come dovrei vivere? Chi voglio essere?» [4]. Questa citazione dello scrittore anglo-pakistano Hanif Kureishi sintetizza bene il senso del discorso che sposta l’importanza dell’arte dello scrivere sulla capacità di coinvolgimento personale in qualche modo necessario e autentico: lo scrivere è «attingere i materiali da se stessi», ma anche un «modo attivo di prendere possesso del mondo» [5] con tutto il pericolo che ciò comporta di registrare il «caos», sapendo però che proprio nella quotidianità ordinaria e persino irrilevante accadono gli eventi più emozionanti e più straordinari. È però vero che spesso i momenti significativi della vita di una persona sono insignificanti per gli altri. Allora ecco il criterio per definire una narrazione interessante, riuscita, fatta bene: nel liberare questi avvenimenti dalla loro irrilevanza, nel renderli interessanti per gli altri e nel mostrare come e perché siano significativi [6].
Allora la narrazione diventa un modo per far parlare l’esperienza, che altrimenti resterebbe muta. A volte si capisce meglio un’esperienza vissuta se e quando la si racconta ad altri, non solamente perché chi ascolta la può interpretare meglio di chi l’ha vissuta, ma proprio perché la mettiamo in forma di parole. Narrare significa liberare l’esperienza della nostra vita dal mutismo, dall’isolamento comunicativo, e questo può significare liberarla da un significato di basso profilo. Significa liberare da essa una maggiore energia di vita. Raccontare può «mettere a fuoco» la vita.
È l’esperienza che ciascuno di noi fa quando racconta ciò che ha vissuto alla moglie, al marito, a un amico… Raccontare riallaccia la nostra esperienza a quella del mondo che ci circonda e a quella di coloro che ci stanno vicini. L’esperienza della narrazione letteraria ha qui le sue radici più autentiche, nel bisogno di raccontare storie, in quello di partecipare a un ascoltatore o a un lettore un’esperienza che ha radici nella propria vita reale o fantastica, nel senso esposto sopra. È un bisogno che emerge con candore e nostalgia sin da quando da bambini si percepisce il gusto della storia letta ogni sera, che accompagna le lunghe confidenze degli adolescenti, e che, in realtà, segue l’evoluzione umana da sempre, da quando bastava un fuoco per radunare uomini capaci di raccontare se stessi e le proprie storie. La narrazione in gruppo ha da sempre creato famiglia, tribù, legame affettivo, identificazione; ha generato la percezione di far parte di un corpo, di un gruppo, di avere una vita condivisa o una missione comune. L’essere umano racconta storie per liberare la propria storia dal rischio di una insignificanza chiusa in maniera soffocante nella sua incomunicabilità.
Dove si trovano le parole?
Dove si trovano le parole per dire l’esperienza che si vive? Dove si trovano le parole in grado di liberare l’esperienza dal suo silenzio muto? Dentro la conca del mio mutismo / metti una parola, invocava la poetessa austriaca Ingeborg Bachmann nel suo Salmo, n. 4. Certamente chi ha un’ampia esperienza di lettura ha a disposizione anche un ampio vocabolario di espressioni. Chi racconta, in maniera indiretta e spesso involontaria, cita racconti altrui, modi di dire, vocaboli, espressioni; parla con parole di altri che sente adeguate a sé e che ha appreso per connaturalità. Tante volte, del resto, amiamo un romanzo o l’intera opera di un autore per il semplice fatto che dice in maniera efficace quello che si agita dentro di noi o che costituisce la nostra esperienza di vita.
Noi dunque usiamo parole già usate. Ma l’uso non le ha consumate. Al contrario — ha scritto il filosofo francese Louis Lavelle — «le ha ricolmate di senso, conferendo loro una densità, una pienezza, una molteplicità di accezioni e di risonanze associate e mischiate […]. Il linguaggio contiene sotto forma latente tutte le potenze che vi ha accumulato l’esperienza dei secoli, tutte le idee, i sentimenti, le speranze che hanno attraversato la coscienza umana» [7]. D’altra parte il primo linguaggio che l’essere umano ha a disposizione è proprio la «lingua madre», quella che si apprende col latte materno e che poi si declina nel linguaggio comune. È «la saggia parola della vita quotidiana, la parola buona e cordiale in cui ciascuno può esprimere se stesso» [8]. Questo linguaggio può essere sciatto oppure troppo artificiale, oppure semplice ma a volte anche preciso, incisivo, profondo. Si sentono dire spesso espressioni come: «vorrei dirglielo, ma non trovo le parole». Sembra che in certi momenti la nostra vita sia carica di esperienza, ma non trovi le parole per dirsi, per comunicarsi ad altri. In questi casi raramente si intende «fare letteratura», come si suol dire. Non si va alla ricerca di una parola elevata, ma della parola giusta, in grado di comunicare l’esperienza. Sappiamo che proprio in tali circostanze, però, molti finiscono per comporre poesie o pensieri dall’andamento di prose poetiche.
Pensiamo a quante poesie e biglietti d’amore sono stati scritti e quanti ne saranno scritti. Perfino i «messaggini» sui cellulari sono sforzi «poetici» per concentrare in un numero fisso e limitato di caratteri il grado maggiore di espressività. Il bisogno di esprimersi dunque «letterariamente» è proprio dell’uomo comune e nasce spesso dalla mancanza di parole, dal sentire che non è sufficiente il linguaggio così come viene usato normalmente. Allora si avverte il bisogno che le parole ordinarie si accendano di una capacità espressiva, di una tensione maggiore, si liberino da un uso che le rende schiave di una significatività molto bassa.
Ma trovare le parole richiede un lavoro di scavo, come ci ricordano i versi di Giuseppe Ungaretti: Quando trovo / in questo mio silenzio / una parola / scavata è nella mia vita / come un abisso (Commiato). Vengono in mente i Prigioni di Michelangelo, lo Schiavo che si desta, in particolar modo. Se usciamo dal terreno delle convenzioni e dell’uso puramente strumentale, referenziale o «refertuale», del linguaggio, allora c’è sempre un sotterraneo lavoro di scavo. Sarebbe meglio dire, forse, di pesca, come ha intuito il grande poeta-soldato cinese Lu Ji (III sec. d.C.), il quale paragona la scelta delle parole all’immergersi nelle profondità marine dalle quali riportiamo parole vive, / come pesci presi all’amo / che balzano dal profondo [9]. In realtà, cercando la parola giusta, non si cerca solamente una parola per dire ciò che si vive, ma si ricostruisce la stessa esperienza. È ciò che Mario Luzi chiede alla parola poetica, quando le raccomanda sì di volare alto e di crescere in profondità, però anche: non separarti / da me, non arrivare, / ti prego, a quel celestiale appuntamento / da sola, senza il caldo di me. Essa, se vera, non potrà mai essere, infatti, disabitata trasparenza [10]. Se la parola è così «abitata», allora la lingua diventa «il momento più consapevole della vita» [11]. Essa, dunque, contribuisce a liberare la vita dalla sua inconsapevolezza. Quante volte, dopo aver raccontato una vicenda che ci è accaduta, percepiamo l’esperienza che abbiamo narrato in maniera nuova?
Questo perchè le parole non dicono solamente le «cose», ma la relazione tra le cose, i loro nessi, e la loro relazione con me e col mio interlocutore. A volte si scrivono romanzi autobiografici. I migliori, in genere, non sono lo specchio perfetto dell’esperienza di vita dello scrittore, ma l’elaborazione di tale esperienza. A volte i personaggi hanno nomi fittizi, le vicende cambiano di ordine temporale e spaziale, altri fatti sono del tutto inventati. Le parole nascono da questa alterazione dei nessi che sembrano una costrizione. Perché questo accade? Perché lo scrittore che parla di sé spesso sente che l’esperienza che ha vissuto non coincide per filo e per segno con la cronaca. Nel suo mondo psicologico e spirituale il senso richiede uno scarto rispetto alla perfetta aderenza a ciò che ha vissuto. Da tale scarto nascono le parole. Un esempio eclatante? Quello dei Vangeli: i dettagli narrativi nei quattro testi canonici non sono identici perchè ordinati a differenti visioni o intenzioni narrative. La loro verità non sta nei dettagli presi in maniera astratta, ma assunti nel loro significato complessivo.
L’invenzione di una lingua
Sono dunque i nessi che creano linguaggio e fanno trovare le parole. La loro radice è in noi, come scrive Ungaretti, ma è anche nelle cose che viviamo, e nella loro relazione reciproca e con noi. In certi momenti si arriva addirittura a creare linguaggio, parole nuove, ma che chi narra ritiene abbiano un potere espressivo e comunicativo. Un autore per tutti: Giovanni Testori, che in opere come Factum est dà voce balbuziente all’esperienza di un bambino nel grembo della madre, e che in In exitu esprime il monologo disarticolato di un drogato. Pensiamo all’impasto linguistico di Stefano D’Arrigo in Horcinus Orca o alla poesia di Gerard Manley Hopkins. Si tratta di semplici esempi, che dicono però la necessità di trovare parole nuove ogni volta che ci si trova davanti a un’esperienza che richiede uno scatto conoscitivo o morale.
L’esperienza della creazione di un linguaggio è comune. Basta pensare al balbettìo che un genitore usa per «dialogare» con il proprio bambino non ancora in grado di parlare. La comunicazione è linguistica, ma la fonazione creativa non esprime parole che indicano «cose», bensì nessi ed emozioni. A volte il genitore assume il linguaggio semplificato del bambino che comincia a esprimersi, persino la storpiatura di alcune parole, fino a creare una sorta di lingua privata. Essa salva dall’incomunicabilità. Si presenta dunque come un lento processo di liberazione profonda. La naturale evoluzione di questo dialogo che libera dal caos dell’incomprensione comprende, nel tempo, anche la narrazione. Spesso un genitore apre uno spazio narrativo con il proprio figlio, sfogliando insieme con lui grossi libri illustrati con poche e semplici parole che vengono lette a voce alta e che compongono una storia semplice.
Questo lavoro sul linguaggio ha a che fare sempre con un processo di traduzione e di adeguamento lento al linguaggio dell’altro, che nasce da una osmosi più che da uno studio vero e proprio. Chi fa l’esperienza di apprendere una lingua straniera e di trovarsi per la prima volta a voler esprimere sentimenti o pensieri complessi si ritrova a vivere una certa frustrazione dovuta ad almeno due fattori: non conosce le parole giuste e le loro sfumature, e non conosce l’impatto esatto che le parole usate hanno sull’interlocutore e quindi cerca di «aggiustare il tiro» guardando le reazioni dell’altra persona (sguardo interrogativo, sorriso, inquietudine…).
Quando poi si parla della traduzione di un testo scritto, i problemi sono simili. Il poeta Charles Simic, statunitense di adozione ma nato a Belgrado, ha detto una cosa davvero interessante in proposito: intervistato sul perché avesse smesso di scrivere in serbo dopo qualche anno trascorso negli Stati Uniti, ha risposto: «Perché non so più cosa quelle parole significhino per la gente» [12]. Simic ha ragione, e tuttavia, in realtà, la parola usata in funzione espressiva e comunicativa vive sempre in un contesto di traduzione. E il lavoro non è facile: rimane sempre un impegno di scavo e di cesello. I problemi della traduzione, ha testimoniato Margherita Guidacci, sono simili a quelli della composizione creativa: «Si tratta sempre di trovare una forma per una sostanza che non può esistere fino a che quella forma non sia stata trovata. Nel caso della traduzione la sostanza esiste già in un’altra lingua: ma, per il traduttore-poeta che deve farla rinascere nella propria, il problema è esattamente lo stesso di quando si sforza di chiarire […] qualcosa che si agita dentro di lui e che vuole e non vuole affiorare alla luce» [13]. Quello che la Guidacci definisce «venire alla luce» è una vera e propria genesi, è una liberazione dal caos del confuso e dell’indistinto.
Guai, dunque, a diffidare della capacità espressiva del linguaggio, come se esso fosse solamente una catena al libero pensiero astratto. Al contrario, il linguaggio libera il pensiero: «È legittimo dire che il linguaggio incatena il pensiero: il che è ugualmente vero in due sensi, in quanto gli impedisce di sfuggire e ne costringe il libero gioco. Ma è vero anche che lo libera, perché senza costrizione il pensiero resterebbe prigioniero entro i limiti del possibile e senza poter accedere all’universo nel quale siamo» [14].
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Si può leggere tutto questo come l’inizio di una libertà: quella di raccontare l’esperienza, salvandola dalla sua fredda incomunicabilità. Il gesto di raccontare esprime una radicale fiducia nel linguaggio e nella capacità delle parole di esprimere l’esperienza umana. Quando parliamo del gesto di raccontare ci riferiamo qui sia al racconto orale sia a quello scritto. Ovviamente sono due forme diverse di espressione e comunicazione [15]. Spesso nella storia la trasmissione orale è confluita in una redazione scritta, basti pensare alla letteratura biblica [16] o ai poemi omerici o alla trascrizione, da sempre avvenuta, di racconti popolari. Tuttavia il nostro discorso ha trasceso la forma e ha inteso essere una riflessione più essenziale. La sua conclusione è: non c’è esperienza umana che sia realmente indicibile, inenarrabile, indefinibile.
Una cosa è dire che un’esperienza è talmente ricca da essere inesauribile a tal punto che le parole non possono esaurirla; altro invece è dire che non la si possa raccontare. Spesso, dietro queste reticenze ci sono confusione e una mancanza di vera esperienza, più che una mancanza di parole per esprimerla. Ha ragione Lavelle: «Occorre diffidare di coloro che massimamente prediligono i primi movimenti dell’anima e si rifiutano di portarli alla luce del giorno: è segno di una grande compiacenza verso se stessi, che non è mai scompagnata da altrettanta fiacchezza e inerzia» [17]. È vero invece che quando si ha qualcosa da dire si trova sempre il modo per esprimerlo, trovando energie e capacità interiori per farlo. La narrazione è dunque insieme principio e frutto di un processo di liberazione profonda, da parte dell’uomo, da una condizione caotica di incomunicabilità e di mutismo.
[1] Cfr, ad esempio, i nostri «Quando la penna vale come una baionetta. La storia di Rubén Gallego», in Civ. Catt. 2006 I 162-166 e «Proust nel “gulag”. Letteratura e libertà», ivi, 2006 III 145-150.
[2] Ci sono tante forme di mutismo, ovviamente. Ad esempio, il mutismo per convenienza o per timore. Paradossalmente in questo caso viene ribadita l’importanza della narrazione e dei suoi effetti, che col silenzio si vogliono evitare.-
[3] Abbiamo sviluppato questi temi nel nostro «La fantasia: evasione o visione?», in Civ. Catt. 2005 II 28-39.
[4] H. KUREISHI, Da dove vengono le storie? Riflessioni sulla scrittura, Milano, Bompiani, 1999, 29 s.
[5] Ivi, 33 e 37.
[6] Cfr ivi, 23 s.
[7] L. LAVELLE, La parola e la scrittura, Venezia, Marsilio, 2004, 35.
[8] K. RAHNER, «Una canzone da nulla», in ID., La fede che ama la terra. Meditazioni per i cristiani impegnati nel mondo, Francavilla a mare (Ch), Ed. Paoline, 1968, 251. Cfr A. SPADARO, La grazia della parola. Karl Rahner e la poesia, Milano, Jaca Book, 2006.
[9] LU JI, L’arte della scrittura, Parma, Guanda, 2002.
[10] La parola autentica non è mai puramente «spirituale»: è sempre anche corpo. Ce lo ricorda Romano Guardini: considerandola come puramente rituale, essa si volatilizzerebbe. Cfr R. GUARDINI, Elogio del libro, Brescia, Morcelliana, 1993, 32.
[11] L’espressione è del poeta A. Zanzotto intervistato in L. AMENDOLA, Segreti d’autore. I poeti svelano la loro scrittura, Roma, Minimum fax, 1994, 75.
[12] http://www.nabanassar.com/intabeni.pdf
[13] M. GUIDACCI, La voce dell’acqua. Quaderno di traduzioni, Pistoia, Crt, 2002, 15 s.
[14] Ivi, 30.
[15] È sempre da consigliare la lettura dell’ormai classico W. J. ONG, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, il Mulino, 1986.
[16] Cfr B. SALVARANI, In principio era il racconto. Verso una teologia narrativa, Bologna, Emi, 2004.
[17] L. LAVELLE, La parola e la scrittura, cit., 30.